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Oddone Zenatti (Trieste 1866 – Roma 24 giugno 1902), nonostante la sua breve vita, fu un noto e rilevante filologo e dantista triestino, autore di un importante studio su manoscritti di Fancesco Patrizi (Francesco Patrizio, Orazio Ariosto e Torquato Tasso: a proposito di dieci lettere del Patrizio finora inedite, senza data ma fine �800). Oddone era il fratello minore del più longevo e noto Albino Zenatti (1859-1915), anch’egli valente filologo e Ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione. Entrambi furono in corrispondenza con i maggiori studiosi del tempo, ed è noto un loro carteggio inedito col filosofo Benedetto Croce. Essi condivisero lo studio appassionato della storia locale e del dialetto nativo (si veda Una centuria di proverbi trentini, del 1884, firmato a quattro mani dai due fratelli, o il saggio di Oddone La vita comunale e il dialetto di Trieste nel 1426, studiati nel quaderno di un cameraro, del 1895). Degli studi danteschi di Oddone ci rimangono, tra le altre cose, il breve saggio La Divina Commedia e il Divino Poeta (1895) ed la raccolta Dante e Firenze: prose antiche, con note illustrative ed appendici di Oddone Zenatti, uscita nel 1903 e recentemente (1984) ristampata con uan prefazione di Franco Cardini. Nel 1900 il Zenatti curò, per i tipi della Società Editrice Dante Alighieri, anche un’edizione di brani scelti del Commento sopra la Commedia di Dante del Boccaccio.
Il lavoro di Oddone che presentiamo di seguito, testimonianza del multiforme e versatile ingegno e della curiosità intellettuale del giovane filologo, apparve in Archivio storico per Trieste, l’Istria e il Trentino, Roma-Firenze 1890, vol. 4 pgg. 81-117. La trattazione è ripresa e approfondita con nuovi elementi in Nuovi testi della canzone capodistriana sulla pietra filosofale in Archivio storico per Trieste, l’Istria e il Trentino cit. vol. 4, pgg. 186-192. Infine, l’anno dopo, lo Zenatti ritornerà sulla poesia alchemica in Nuove rime d’alchimisti, apparso ne Il Propugnatore, 1891, vol 4 fac. 21 pgg. 387-414.
La canzone di cui si occupa lo Zenatti, collazionando un certo numero di versioni, è effettivamente uno dei componimneti alchemici in rima più diffusi della tradizione manoscritta. A parte le edizioni dei codici citati dallo Zenatti, è possibile incontrare il componimento in numerosi altri codici d’alchimia. Abbiamo trascritto e pubblicato di recente, tra diversi componimenti inediti d’alchimia, la versione di un codice membranaceo del XV secolo della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli (VIII – D – 20, un codice a suo tempo citato anche dal Carbonelli) confrontandola con un’altra edizione contenuta in altro codice della stessa biblioteca (VIII – G – 70), nel nostro Di alcuni componimenti di materia alchemica in rima volgare (dai fondi manoscritti della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli) in AA. VV. Alchimia, a cura di A. De Pascalis e M. Marra, Mimesis, Milano 2007, pp. 189 – 212.
Per quanto concerne le edizioni a stampa della canzone, a quelle accortamente citate dallo Zenatti (l’edizione veneta della Summa perfectionis Magisteri di Geber del 1475 e la versione contenuta nel Della tramutatione metallica sogni tre di Giovan Battista Nazari, bresciano, Brescia 1572 e la seconda edizione accresciuta de 1599) bisogna aggiungere la rarissima Canzone di Rigino Danieli Justinopolitano Nella quale si tratta tutta la filosofica arte del precioso lapis de filosofi, con tutti li necesari avvertimenti … et una lucidissima & utilissima espositione della stessa di Casparo Ottaviani Cantù. in Padova, nella stamperia Penada 1710. In tempi più recenti la versione del Nazari fu ristampata, priva di qualsiasi commento, nella rivista ermetica Commentarium, diretta dal Kremmerz, nel n°1 del 1911
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Oddone Zenatti
UNA CANZONE CAPODISTRIANA DEL SECOLO XIV
SULLA PIETRA FILOSOFALE
Le indagini sempre più accurate intorno ai rimatori italiani dei primi secoli, hanno oramai mostrato per più segni che anche fra gli istriani, fino dal tre e dal quattrocento, non mancarono i cultori della poesia volgare: una prova recente la abbiamo nella scoperta di una poesia italiana di Pier Paolo Vergerio il vecchio. Al nome del grande umanista, il quale non seguì adunque. i suoi pari nel disdegno del parlare materno, mi è dato oggi di aggiungere quello di un altro rimatore capodistriano del secolo XIV, finora dimenticato, intorno al quale però nemmeno io potrò dare altre notizie fuor di quelle ch’egli stesso ci offre nel componimento che qui rivede la luce: una canzone sulla pietra filosofale, stampata due volte. ma in vecchi libri pochissimo noti, e che si legge in più codici, dei quali il più antico è il marciano lat. CCCXXVI, della seconda metà del secolo XIV. Ma son notizie assai scarse: appena il nome c la professione maestro di grammatica:
E s’alcun vol che il mio nome li panda,
Di’: quel che qui mi manda
De Justinopoli è il nostro fidele
grammatice professor Daniele.
Sul componimento del capodistriano se non l’eccellenza del verso può attirare l’attenzione dei più curiosi indagatori del passato l’argomento ch’egli prese a trattare: argomento astruso che per l’abbondanza e la durezza dei vocaboli tecnici non parrebbe davvero adatto ai dolci suoni del verso. Né sono dolci quelli del nostro grammatico, ma in compenso abbastanza chiari; e poi che la chiarezza è cosa rara negli scrittori d’alchimia, almeno di ciò gli va data lode sincera.
L’alchimia offre anche nelle aberrazioni dei suoi seguaci campo vastissimo agli studiosi dello svolgimento del pensiero umano. Sorta, secondo la più diffusa tradizione, in Egitto, e coltivata, come avviene d’ogni scienza nella sua infanzia, nel segreto dei templi dai sacerdoti soli possessori e interpretatori dei libri sacri attribuiti ad Ermete Trismegisto; avversata, pare, da Diocleziano, quale fonte di lucro per quel popolo; seguitata dagli Alessandrini; trasportata e coltivata dagli Arabi in Ispagna, di là rapidamente si sparse per tutta Europa: onde fu presto dovunque un gran fervere di crogiuoli e di alambicchi. Sennonchè nel passare da paese a paese, da popolo a popolo, da civiltà a civiltà, anche lo studio dell’alchimia si venne mutando, e dove per gli egiziani altra cosa essa non era stata, salvo le differenze dei tempi e dei mezzi, di quello che la chimica per noi, loro servendo nella preparazione dei colori, degli inchiostri, delle stoffe, dei vetri, dei medicinali, e nei processi dell’imbalsamazione, trasportata in Europa, se trovò chi ancora la coltivasse in tutta la sua ampiezza, come scienza indagatrice della mirabile opera della natura, e, seguitando indefesso le ricerche, riuscisse a trovar nuovi sali e nuovi acidi, anche oggi riconosciuti e adoperati: fu dai più accettata e seguita in una sola delle sue parti, quella che certamente assai più delle disinteressate indagini scientifiche eccitava la cupidigia degli uomini, ciò è la ricerca del Lapis philosophorum, il quale, per il principio della tramutazione metallica, dovea valere a cambiar in oro e in argento i metalli ignobili. Ma come la ricchezza senza la salute e una lunga vita da poterla godere sarebbe un bene insufficiente, un’altra ricerca s’impose agli alchimisti, quella dell’Elixir filosofale, od oro potabile, il farmaco per eccellenza, che non solo avrebbe sanato l’uomo da ogni malattia, ma gli avrebbe assicurata l’immortalità.
Così la χημεīα degli Alessandrini diventò l’Alchimia; e questo nome restò a significare tutto quel misto di vero e di falso, di scienza e di aberrazione, che fu l’arte chimica del Medio Evo. Ma per le pazze ricerche di molti, non dobbiamo ridere di tutti gli alchimisti dell’ età di mezzo, poiché essi furono i precursori modesti e disprezzati dei grandi chimici dei giorni nostri. Ogni scienza in fatti procede per gradi nel corso dei secoli, ed ogni epoca si prefigge consciamente o inconsciamente quello speciale problema, la cui risoluzione maggiormente risponde ai bisogni o ai desideri, malsani anche, se malsana è l’epoca, da questa sentiti. L’alchimia un problema sopra gli altri si propose, quello della tramutazione metallica. A dare un’idea delle teorie sulle quali gli alchimisti lo fondavano, valgano le parole di uno dei commentatori di Dante, i quali chiosando il c. XXIX dell’Inferno, copiano l’uno dall’altro questa digressione sull’alchimia, così che si può risalire, con poche diversità, da Benvenuto, per il Buti e per l’Ottimo, al Della Lana (1). Scegliamo il Buti, che scrive così:
L’alchimmia è intorno ai metalli operazione d’arte, ad imitazione della natura: e però alchimmia non è al tutto inlicita; imperò il che sono due spezie d’alchimmia: l’una è vera, e l’altra è sofistica. La vera si può usare; la sofistica no, secondo che dicono li Teologi. Et a mostrare questo, s’induce questa ragione, che tutti i metalli per materia e per forma sustanziale sono una medesima cosa; ma sono differenti per accidentale forma: imperò che tutti si generano d’ ariento vivo e di solfo, secondo che dice il Filosofo in Mineralibus; e tutti sono uno coniunto d’ ariento e di solfaro, sicché non sono differenti per forma sustanziale, ma per accidentale. E questo avviene, perché la natura dal suo principio intende a dare perfezione a’ metalli nella sua generazione, e se avviene che dia perfezione, allora genera l’oro; e se manca da questa perfezione, è oltre all’intenzione della natura, e sono le specie de’ metalli, secondo che manca più o meno.
E questa imperfezione è per difetto della materia, ch’è insufficiente a ricevere la perfezione, o vero l’operazione della natura, sì come appare quando l’ariento vivo è purificato, e’l solfo rosso è mondo, allora la natura produce l’oro; ma quando il solfo è, bianco o rosso, corrotto, e l’ariento vivo è putrefatto in vena di terra putrida, allora produce altri metalli. Adunque la malizia della natura viene quando si producono li altri metalli, e non l’ oro; la quale malizia intende l’alchimista a sanare, reducendo quelli nelle sue prime parti; cioè ariento vivo e solfo. E quelli dispartiti intende poi a purgare, o per calcinazione, o per distillazione; e purgati, intende poi a conficere insieme con fuoco, o con certe acque o sughi d’ erbe ch’ alla detta arte fanno bisogno; sicché chiaro appare che possibile è a chi sa l’arte di far questa mutazione della forma accidentale; ma io non credo che alcuno sia che la sappia bene: imperò che gran maestria sarebbe a seguitare le opere della natura che in nulla fallisse; onde credo che sia meglio tale arte non imparare, né usare: imperò che ogni volta cadrebbe l’alchimista nella sofistica, che non è licita; anzi chi l’usa commette falsità e merita d’ essere arso, perch’ ella mostra quel che non è, come si conosce poi alle prove del fuoco. E perché li uomini non intendenti di questo riceverebbero gran danno, però è proibita; et ancora la medicina, che dà alcuna volta l’oro allo infermo o al malato, dando un altro metallo, potrebbe uccidere, e qui, ove l’oro potrebbe guarire.
Ma l’alchimia fu sfortunata: il cattivo e il brutto e il ridicolo di essa prevalse sul buono, e alchimia e alchimista entrarono nel vocabolario come sinonimi di inganno e di pazzia, di ciurmadore e di matto. Né all’alchimia mancarono, a dir vero, i ciurmadori, da Griffolino al Cagliostro; né mancarono i matti. Tali furono anzi i più; chè ogni uomo di debile cervello, all’avida mente del quale fosse balenato il luccicore dell’oro, ch’egli avrebbe potuto possedere in copia infinita quando fosse riuscito a comporre il Lapis famoso, abbracciata con frenesia quell’arte, i cui insegnamenti gli venivano porti da libri stranissimi; ritiratosi in luogo solitario e circondatosi di fornelli, di alambicchi, di crogiuoli, si dava ferocemente a fondere, a dissolvere, a distillare. Ma come il tempo passava e il Lapis non si formava nei crogiuoli, e vi si scioglieva invece rapidamente il patrimonio del povero pazzo; perduto il filo che solo reggeva le sue misere fatiche, senza più considerare le esperienze e le teorie, che, vere o verosimili, avevano guidato i suoi predecessori, sovraeccitato, maniaco, egli prendeva a gittare nei crogiuoli, a fondere e a stillare tutto che la mente malata gli poteva suggerire, che fosse giallo o ricordasse lontanamente l’oro: erbe, piante, animali, sangue, e fin ciò, di che, come dice il nostro capodistriano, è bello il tacere; e più e più insistendo nella pazza impresa, con l’ultimo tentativo finiva in uno di soffiare e di vivere. Benvenuto da Imola descrive vivacemente le abitudini di questi poveri illusi, trovando una mirabile rispondenza tra la vita degli alchimisti e la pena inflitta loro da Dante (2) :
Primo isti Alchimici stant sicut tegulae appodiati, quia tota die stant inclusi ad insufflandum in cineracium; et stant sociati simul, quia de rei veritate Alchimistae communiter colloquuntur, conversantur simul. Unde sicut videmus de facto, nulli sunt artifices ita inter se familiares sicut Alchimici: nam si duo sunt in terra, statim unus invenit alterum, et contrabit societatem secum. Ulterius isti habent maximum pruritum, idest insatiabile appetitum, sicut vidi in multis; et continuo se scalpunt, quia continuo se exercent ut possint adimplere appetitum suum, et excutiunt sibi crustas magnas et parvas, quia scilicet florenos anconitanos, bononinos et alios nummos expedunt et consumunt, et sic se expoliant et denudant el pauperantur infeliciter. Et aldverte quod recte accidit Alchimistae sicut scalpenti. Homo enim scalpit se cum’ delectatione, et quanto magis se scalpit tanto magis se intenditur, et incenditur pruritus, et ultimo, quando est bene fatigatus, quid consequtur ex hoc? certe dolorem et brusorem; ita recte est de Alchimista, quia post omnes labores, curas, impensas et damna, nihil lucratur nisi dolorem, angustiam, anxietatem; quia vivit in paupertate et calamitate, et efficitur Iudibrium omnium.
Altri invece, dotati di maggior ingegno e furberia, dopo aver consumato tempo e denaro in vani tentativi, comprendendo la pazzia dell’impresa, seppero fermarsi a tempo, e, a compenso quasi e a vendetta del danno e della disillusione sofferta, cercarono di rifarsi a spese degli sciocchi, fingendo abilmente in loro presenza false tramutazioni metalliche, e vendendo quindi a prezzi favolosi un pizzico della polvere con la quale dicevano di averle ottenute. Talvolta essi s’imbattevano in qualche signore di facile coscienza, che, compresili, e avendo bisogno di denaro, di loro si serviva a fabbricarne di falso; tale altra, scoperti, pagavano con la vita l’inganno. Né questi falsi alchimisti finirono con l’età di mezzo, chè tuttavia si spacciano monete false, e i Dulcamara vendono anche oggi alla folla attonita, dall’alto d’un carrozzone, il loro specifico, l’Elixir filosofale di un tempo, esaltandone le virtù, se non con la facondia che è nell’Erbolato di messer Lodovico, certo con non minore efficacia.
Ma accanto ai matti e ai ciarlatani non mancarono gli alchimisti seri; i quali, provando e riprovando indefessi, antesignani del metodo sperimentale, riuscirono a mirabili trovati e molti più ne intuirono. Sennonchè l’ignoranza, il pregiudizio, le superstizioni della società in mezzo alla quale vivevano, impedivano che si strappassero i veli onde la misteriosa opera della natura era coperta: onde, se non volevano finire, maghi e stregoni, nelle carceri o sul rogo, gli alchimisti si videro costretti ad occultare sotto un linguaggio simbolico i risultati cui arrivavano nel segreto dei loro laboratori. Per la stessa cagione, a meglio difendersi dai sospetti e a mostrare quasi la legittimità delle loro operazioni, essi vantarono loro, predecessori e maestri molti grandi poeti e filosofi, e santi e papi e re: Omero, Orfeo, Ovidio, Virgilio, Aristotele, Mosè e Salomone, S. Giovanni e S. Matteo, S. Tommaso, Giovanni XXII e Alessandro Magno: bastando un fatto nella loro vita, un accenno anche lontano nei loro scritti a tramutazioni o a metalli, perché gli alchimisti li considerassero subito compagni di indagini e fratelli in arte, e li citassero, esaltandoli, quasi scudo contro le mormorazioni e i sospetti dei contemporanei; in tutto, fin nei romanzi di cavalleria, vedendo alchimia e alchimisti.
Cosi l’alchimia durò e procedette pei secoli, conosciuta dai più e derisa nella parte sua falsa, ma avendo sempre fino a tutto il quattrocento grandi e seri cultori, e scopo supremo la soluzione del problema della tramutazione metallica: onde da Zosimo a Geber, a Rasi, a Ruggero Bacone, a Michele Scoto, ad Alberto Magno, ad Arnaldo da Villanova, a Raimondo Lullo, agli olandesi Isacco e Giovanni Isacco, a Bernardo Trevisano, a Basilio Valentino è una serie di nomi rispettabili per ricerche indefesse e trovati importanti. E la ricerca dell’oro continuò per tutto il cinquecento ad agitar le menti anche di uomini culti; onde vediamo l’Augurelli, fattosi alchimista, dettare la sua Chrysopoeia, il più lungo ed elegante componimento metrico d’alchimia; e fin Benedetto Varchi scrivere ad istanza di don Pietro di Toledo la sua Questione sulla verità o falsità dell’Archimia, nella quale quattro capi principali egli si propone di disputare distintamente pro et contra: se l’arte dell’Archimia è possibile; se l’arte dell’Archimia si può sapere e fare; se l’arte dell’Archimia è stata saputa e fatta mai; se l’arte dell’Archimia si debba permettere dalle Repubbliche e da’ principi nelle città loro; ma un solo capo, il primo, è largamente esaminato nella sua scrittura, rimasta inedita fino al 1827 (3).
La ricerca dell’oro, aveva però fatto il suo tempo: i soffiatori, derisi oramai dai più, venivano messi in ridicolo fin sulla scena (4); e all’alchimia e al suo problema della tramutazione metallica succedettero via via la iatrochimica, la chimica metallurgica, la tecnica, la farmaceutica, la flogistica, la pneumatica, sostituendosi in fine per opera del Lavoisier una nomenclatura razionale a quella confusa e strana di Alberto Magno e di Arnaldo da Villanova. In tanto progresso di studi e di ricerche positive non mancarono però anche nei tempi più recenti i prosecutori delle stranezze alchimistiche; ritorni che non hanno oramai altro valore che di curiosità (5).
Non altrimenti dagli altri reami della scienza, anche l’alchimia ebbe le sue poesie didattiche, scolastiche e oscure non meno dei trattati in prosa. Ne abbiamo parecchie nel latino medioevale; ma già di buon’ora anche nelle lingue volgari, specie nella francese. Più tardi a scrivere di questa materia furono gli italiani, i quali come da principio poco pare abbiano impazzito per l’alchimia, che seguirono invece con molto fervore nei secoli XV è XVI, poco anche dettarono, e pochissimi in volgare e in poesia; tanto pochi questi ultimi, che i conosciuti si riducono a tre: frate Elia, Cecco d’Ascoli, e il nostro capodistriano.
Del primo fu scritto avesse lasciato alcuni sonetti sulla composizione del Lapis: G. B. Nazari nell’elenco di scrittori d’alchimia che dà nel suo curioso libro Della Trasnutatione metallica (6), ricorda F. Heliae haec: I. ad componendufn lapidem; 2. de lapide philosophico; 3. Vade mecum. E il Borelli nella sua Biblioteca chimica (7): Fratris Heliae ordinis minorum speculum Alchemiae. – Ejusdem Carmiina Chimica cum antiqua Gebris Summa. -Ejusd. Epistola Solis ad Lunam. -Ejusd. Dispulatio contra Hagelium et Perrerium, Marburgi impressa. -Ejusd. Vade Mecum Ms. – Frater Helias de antinonio minerali, seu lapide Saturni. -Heliae Monachi speculum Alchimiae, Francof. 1614, in 8°, cum quibusdam aliis opusculis chimicis –e infine Helias ab. Assizia Author Chimiae ex Conbachio 12 capit. de lapide fecit cum fig. Dove è facile vedere che si fa molta confusione di persone e lavori diversi.
Il Crescimbeni (8) sapendo degli accenni degli alchimisti a un Frater Helia, ordinis Minorum, autore di un trattato intorno al modo di comporre il Lapis philosophorum, e vedendo in lui il celebre compagno di S. Francesco, trovato il detto trattato «manoscritto, di carattere moderno, appresso il celebre Ippolito Magnani Filosofo e Maestro insigne in Cirugia, il quale, dopo aver serviti tre Pontefici nella sua Professione, morì, essendo al servigio d’Innocenzio XII, a’ 20 di gennaio dell’anno 1699», vi riscontrò anche «alcuni Sonetti di esso Frate Elia, contenenti come ricette in gergo per la composizione suddetta, uno de’ quali», egli dice, «metteremo per saggio nel presente volume; ed eglino se pure non sono stati ritoccati da qualche moderno Professore di Chimica, del che forte dubitiamo, ci paiono molto purgati e assai superiori alla maniera che nel rimare usava in quei tempi che detto frate Elia viveva, cioè nel 1226; contuttociò noi lasceremo il suo luogo alla verità».
Il Quadrio (9), riportate queste notizie, presso a poco con le parole del Crescimbeni, aggiunge di suo: « ma noi crediamo sicuramente che sia il predetto trattato un’impostura de’ Chimici fatta ad Elia, come tante altre opere da essi furono ad illustri scrittori supposte per accreditar la loro arte».
Ed anche meglio il Tiraboschi (10) : «che un trattato d’ Alchimia attribuito al celebre Fra Elia da Tortona gli sia supposto, confermarsi da un codice di un somigliante trattato, che conservasi presso il P. Affò, che ha per titolo: Opusculum acutissimi celeberrimique Philosophi Aeliae Canossae Messinensis in Arte Alchimica 1434. Nella prefazione egli si sottoscrive: Datum Mediolani ex Aedibus nostris jamdudum per nos redactis annoo millesimo quadringentesimo trigesilllo quarto; die quarta ]ulii Frater Elias Canossa Messinensis ordinis minorum. Non è dunque inverisimile che si sia attribuito a frate Elia da Tortona l’opera di fra Elia da Messina, benché in questo codice non si trovino i sonetti indicati dal Crescimbeni».
Lo Speculum Achemiae, chè tale sarebbe l’opusculum di Elia, viene dunque ad essere così opera di un quattrocemista. E che al famoso francescano non sia da attribuire nemmeno la Disputatio, è dimostrato dal trovarla nel Theatrum Chemicum (11), ampia raccolta di trattati alchimistici, detta chiaramente opera di un Heliophius a Percis Philochemicus; ed è una difesa dell’arte chrysochimica contro i gesuiti Hagel e Perrer, i quali ne avevano sostenuta la falsità; e con Elia ha solo da fare in quanto in essa si discorre di un omonimo, personaggio simbolico, nel quale (forse da Helios, segno alchimico dell’oro) l’arte dell’alchimia fu adombrata. L’ Epistola solis ad lunam, il Vademecum, il trattato de antimonio hanno titoli che san poco di antico, e si possono facilmente ritenere scritture quattrocentiste. Ad autore discretamente antico si può invece attribuire il sonetto (non si sa dove sia andato a finire il codice che conteneva gli altri); chè quei quattordici versi possono essere benissimo di un vecchio alchimista italiano, fosse o no frate, e si chiamasse o no Elia, come l’aspettato discovritore del Lapis philosophorum. Ad ogni modo, questa attribuzione di sonetti alchimistici al famoso ministro generale dei Francescani non deve maravigliare chi pensi alle abitudini dei seguaci di Ermete; ma a togliere del tutto la meraviglia, e a spiegare come quelli potessero poi essere a lui attribuiti giovano ottimamente alcune delle parole che fra Salimbene dà nella sua celebre cronica a frate Elia, e che ce lo mostrano chiaramente alchimista, e dei più caldi (12).
Al codice conosciuto dal Crescimbeni, e nel quale al sonetto di frate Elia si trovano stranamente aggiunti quattro versi della canzone del nostro capodistriano, altri tre ne possiamo aggiungere, che lo contengono, e sono: il Riccardiano 984, raccolta di vari estratti dagli scritti di Raimondo Lullo e di altri alchimisti, nel quale il sonetto è ricopiato sul recto dell’ultima carta, di mano, sembra, diversa da quella del trascrittore del codice, ch’è del sec. XVI, ma contemporanea; e vi sta con poche varianti dalla lezione crescimbeniana; – un altro riccardiano, il 689, zibaldoncino di tre opuscoli astrologico-alchimici, il terzo dei quali, di mano del principio del sec. XVI, a tergo della prima carta, reca il sonetto, ma anonimo, e curiosamente ridotto e storpiato, sì che non serba più alcuna struttura metrica né legame di rima; – un codice della Comunale di Siena, segnato L. X. 29, miscellaneo, di varie mani dei sec. XV -XVI, nel quale a c. 142 sta il sonetto alchimistico di Frate Elia di sancto Francescho. Ma anche prima che in questi tre codici, il sonetto era apparso in luce in un raro libretto, stampato non si sa precisamente in quale anno, ma certo sulla fine del sec; XV (13), nel quale alla Summa perfectionis Geberi seguono, in appendice, due componimenti latini e alcuni volgari di argomento alchimistico, i quali ultimi sono appunto il sonetto di frate Elia, in due lezioni, un sonetto di Cecco d’Ascoli, e la canzone del nostro Capodistriano. per la rarità del libretto, sfuggito ai bibliografi della poesia volgare dei primi secoli (14), e perché si possa, veduto quali predecessori avesse, dare a maestro Daniello la lode che pure si merita, di aver trattato il suo argomento con maggiore abilità e chiarezza, riproduciamo tali e quali dalla stampa i tre sonetti.
Solvete li corpi in acqua questo dico
voi che volete fare sole o luna
delle doi acque prendete l’una
qual più ve piace & fate quel che dico.
Datela a bere allo vostro inimico
senza mangiare dico cosa nisuna
Poi lo mettete in la sua sepultura
dentro lo corpo del lione antico.
Si & per tal modo che tucto se desfaccia
la polpe e l’ossa & ogne sua iuntura
& de po questo fate che se faccia
dellacqua terra che sia necta & pura.
Et della terra & dell’acqua se uol terra fare
così la preta fai multiplicare.
CICCO DE ASCOLI
Chi soluere non sa ne assoctigliare
corpo non tochi ne argento uiuo
perche non po el fisso & lo uolatiuo
tener ad chi non sa de doi un fare.
Fatelo adunche strecto abracciare
con aqua uiva & sal dissolutivo
tere bene coque piane in modo che sia privo
dela terra mamma la qual lo fa celare.
Allora vederai fugire la nocte oscura
tornare lo sol lucente & bello
con molti fiori ornato in sua figura
questo e la preta questo e quello
delli philosophi lantica scriptura
chen su lancudine bacte lo martello.
FRATE HELIA.
Solvete li corpi in acqua ad tucti dico
voi che cercate fare sole & luna
delle doi acque prenderete luna
qual più ve piace fate quel hio dico.
Datela a bere a quel uostro inimico
sensa mangiare hio dico cosa alcuna
muorto lo trouarai el vero ue dico
dentro de lo corpo del lione antiquo.
Possa li date la sua sepultura
si & in tal modo che tucto se desfaccia
la carne & le ossa & tucta sua iontura.
Et facto questo fate che si faccia
de lacqua terra che sia necta & pura
& della terra & de l’acqua se uol terra fare
così la preta vole multiplicare.
Se tu me scolti & pratichi el sonecto
serrai signor de quel che si sogiecto
El vostro fratre Elia (15)
Migliore di questi sonetti, la canzone del maestro capodistriano ebbe anche miglior fortuna presso gli alchimisti del quattro e del cinquecento. La prova di questa passeggera celebrità ci è data dalla relativa abbondanza di riproduzioni che essa ebbe in codici e in istampe di materia alchimistica: quattro ne conosco dei primi, e due delle seconde. I codici sono:
1. Marciano lat. CCCXXVI, in 4°, cartaceo. Contiene: I (c. 1-43) Theoria in lapide philosophico, quae intitulatur mare magnum; II (c. 44-47) la nostra canzone; III (c. 48-49), Metaphora quaedam regis, che è la nota allegoria del Re Merlino nella quale è adombrato il processo della tramutazione metallica e che fu riprodotta in più codici e stampe.
2. Riccardiano 3247, miscellaneo. L’ultimo dei fascicoli che lo compongono} consta di 28 carte e due guardie non numerate. A tergo della seconda di queste è una breve tavola del contenuto: I. Ex Ortolano extractum (c. Ib); 2. Lumen Iuminum Galieni sive Rasis (c. 2a.- 14a); 3. Rosarius medirts Johannis Anglici (c. 15a.-23b); 4. Rithmus sive carmen vulgare Danielis de Justinopoli (C. 24ª-25ª, scritte a due colonne); 5. Modus faciendi salem ex onmibus rebus et etiam ex metallis ex Gebro: de investigatione perfecti magisterii (C. 25b-27b) ; 6. De septem, proprietatibus necessariis medicine nostre (c. 27b-28b). – Tutti questi trattati o estratti, meno il terzo, paiono scritti da una stessa mano della fine del sec. XV, e tutti portano nei margini postille, alcune della penna che li copiò, altre di penna differente: a questa sono dovute anche le note e le correzioni al testo della nostra canzone. Evidentemente il codice appartenne a qualche diligente alchimista.
3. Cod. 173 della Bibl. Landau di Firenze; cart. della fine del sec. XVI, contenente varie scritture alchimistiche. La canzone vi si legge, tutta ammodernata, a carte 75 e 76, ma si arresta a metà della strofe ottava. Potrebbe essere una copia della stampa del Nazari, che più sotto descriviamo.
4. Cod. L. X. 29 della Comunale di Siena, cartaceo in 4° piccolo, scritto da più mani dei secoli XV e XVI. Miscellanea di più cose alchimistiche. A c. 142 sta, come si è avvertito. il sonetto di frate Elia; indi comincia la canzone di Daniello che va fino alla c. 141ª ma in lezione scorrettissima, e mutila.
Si aggiunga che quattro versi della nostra canzone, e precisamente gli ultimi della strofe ottava, si trovano accodati, come notammo, ad uno dei sonetti attribuiti a frate Elia nel codice contenente il trattato di lui, ch’era presso il fisico Magnani, e furono stampati dal Crescimbeni nei suoi Commentari.
Le stampe della canzone, come abbiamo detto, sono due. La prima è nella Summa perfectionis Geberi descritta più sopra: ivi la canzone segue i sonetti, e va dal verso della c. 116 al verso della 120, arrestandosi alla strofa sedicesima. Una ignota mano del sec. XVI aggiunse nell’esemplare ch’io ne potei vedere. nella Comunale di Verona, le ultime due.
La seconda stampa è nel libro : «Della Tramutatione metallica, sogni tre di Gio. Battista Nazari, bresciano. Nel primo d’i quali si tratta della falsa tramutatione sofistica: Nel secondo della utile tramutatione detta reale usuale: Nel terzo della divina tramutatione detta filosofica. Con un copioso Indice per ciascun sogno degl’ Auttori & Opere c’ hanno sopra ciò trattato. In Brescia, appresso Francesco et Pier. Maria Marchetti fratelli. M.D.LXXII. » (16); e di nuovo « In Brescia | Appresso Pietro Maria Marchetti. M.D.XCIX. | Con licenza de’ Superiori » ; « Agiontovi di nuovo | la Concordanza di Filosofi , & loro | Prattica; | Nella quale si vede i gradi & termini della Filosofia Naturale », ecc. (17).
Curioso libro, dove il Nazari narra tre sogni o visioni, nelle quali, guidato da tre donzelle, percorre i regni Achimistici; e precisamente nel primo quello della falsa alchimia o sofistica, nel quale vede e descrive le aberrazioni dei poveri matti soffianti e stillanti le più pazze cose del mondo, e dove, incontratosi col conte di Treves, famoso alchimista, da questo gli sono dimostrate anche più chiaramente le pazzie dei falsi alchimisti e narrate le vane fatiche da lui stesso sostenute, e il tempo e i denari gettati prima di trovare il vero processo; nel secondo è descritto il regno della vera alchimia, dove il Nazari ritrova il conte, che gli spiega il processo naturale del Lapis dei filosofi; nel terzo infine è trattata la parte filosofico-scolastica della tramutazione metallica, e raccontato come l’autore, dopo aver avuto spiegazione dalla donzella che lo guida, di uno stranissimo albero simbolico rappresentante la genealogia di un re che è poi il Lapis filosofico pervenisse ad un laghetto, sulla cui riva è il monumento di Geber, e sul piedestallo alcune iscrizioni, che avvertono il fortunato viandante come l’isoletta che si trova nel mezzo del lago sia l’isola del perfetto magistero, della quale Geber è signore. Il Nazari in una navicella, che da sola viene a prenderlo, passa sulla divina isoletta, ove fra molte altre cose bellissime, trova un chiostro, e in giro ad esso moltissime nicchie, in ognuna delle quali è una statua togata con un cartello scritto in mano: guarda, legge, nota, e forma così una piccola bibliografia alchimistica che contiene i soliti nomi, i soliti anonimi, il nostro Daniello e fin Dantes Philosophus (18). Dopo aver visto altre cose mirabili, l’autore trova per la terza volta il conte, il quale con la solita Allegoria del re Merlino gli espone l’opera filosofale. Così ha termine il terzo sogno, al quale tiene dietro (pag. 159-167), tanto nella prima che nella seconda edizione, la Canzone di Rigino Danielli | Justinopolitano | Nella quale si tratta tutta la Filosofica arte del precioso | Lapis de Filosofi, manchevole però delle due ultime strofe. La lezione è identica a quella del codice Landau, così da farle ritenere attinte entrambe a una fonte comune; se pur la stessa stampa non fu l’esemplare del codice, che s’arresta prima della copia del Nazari.
Notevole diffusione ebbe dunque la canzone del nostro Daniello, e dello studio messovi dagli alchimisti testimonia pure il fatto che più di un esemplare di essa ci pervenne postillato. Particolarmente curiose per la mano che le vergò sono le note esplicative che si leggono nei margini dell’esemplare del Nazari, che si conserva alla Nazionale di Firenze; quelle postille sono infatti di Cosimo I, « nel quale », come dice il Varchi nella sua Questione sull’Alchima. che lesse alla presenza di lui, cui dedicava il libro dei principi delle Meteore, «insieme con tante altre singolarissime doti, quasi chiarissimi fregi della incomparabile bontà et ineffabile virtù sue, risplende ancor questa della cognizione e dello studio dei Metalli ». E il nome di Cosimo è infatti anche nell’elenco del Nazari.
La canzone del maestro capodistriano è composta di 18 strofe regolari, di 14 versi ciascuna; le leggi della rima sono sempre osservate, tranne in due versi della quindicesima strofe, che non sono medicabili; è relativamente chiara, e a ciò forse deve la sua diffusione: gioverà ad ogni modo esporne qui l’argomento.
Fatta la proposta, che è di dire brevemente tutti i secreti dell’alchimia, e invocata da Dio la grazia di saperlo fare, Daniele avverte che il vero alchimista deve seguire la natura: Sole, Luna e Mercurio, ciò sono oro, argento e mercurio, bastano a far la bona pasta (str. I). I maggiori vi riuscirono per diverse vie, che l’autore rassegna: ma la prima è quella della putrefazione (str. II). Seguono alcuni avvertimenti sui corpi che bisognano a formare la pasta (str. III): come a fare il pane occorrono acqua e farina e lievito, così al Lapis filosofale bisogna il mercurio, non però il comune (str. IV). Indicato il procedimento da altri seguito, Daniello avverte che molto è da badare al fuoco, e che tutto si produce adoperando un solo vaso (str. V). Il Lapis, fatto di cosa animata, è assai prezioso, ma costa pochissimo, considerata la sua virtù. Difficile arte è però quella di fabbricare codesta medicina, e ben nove mesi occorrono a ciò. Essa assume al fuoco più colori, poi annerisce, poi si fa bianca (str .VI); da ultimo prende il color dell’oro, e allieta ognuno che la vegga. Un altro segno che la decozione è finita, è il fumare o il cigolare, o il restar da ogni bollore e sussurro. Daniello passa quindi a dire della proiezione, ch’è il moltiplicare l’oro e l’argento, gettando sopra una data quantità di metallo, un’altra di Lapis (str. VII). Ma la riuscita è difficile, si badi quindi alle parole dell’autore: si prendano dieci dramme di mercurio mondo, e, messele al fuoco, vi si getti dentro una dramma di medicina, e il tutto si convertirà in altrettanta medicina perfetta, della quale basta poi adoprare l’un per cento per raggiungere lo scopo (str. VIII). Gli antichi distesero codesti insegnamenti in volumi assai strani, nascondendo l’arte, sotto vari nomi più strani ancora, presi altri al regno animale, altri al vegetale, altri cabalistici, che l’autore rassegna (str. IX), e dai quali molti vennero ingannati, onde operarono in vari modi (str. X); giova quindi ripetere di non partirsi dalla natura. L’oro non si fa che con l’oro, che seminando fagiuoli e fave non si può raccoglier che fave e fagiuoli (str .XI). Segue una rapida rassegna delle aberrazioni e dei matti procedimenti, ossiano inganni e ribaldarie, come li chiama Daniello, dei falsi alchimisti: i quali così, col capo insano, Con tal oprar sofistico e fallace Fanno parer l’arte vile e mendace (str. XII-XIII). Ancora: il fuoco non sia eccessivo, chè allora fa vetrificare; la pasta abbia sempre il mercurio necessario, ma non troppo: el draco, la medicina, sia insomma governato come va. Nè l’operante si stanchi di putrefare (str. XIV). La medicina così ottenuta ha grandi virtù e per la tramutazione metallica e sui corpi umani (XV), chè Daniello comprende sotto un solo nome e il Lapis e l’Elixir. Ora non gli resta più a dire che della misura e del peso (v. str. XI), ma è incerto se parlarne, chè li cercò con molte fatiche per più di 25 anni, e una sola volta li trovò, come descrive nebulosamente « per figura », onde parrebbe d’intendere che il vaso dovesse aver la forma della Luna e il peso essere di sette dramme, quanti credeva si fossero i pianeti (str. XVI). Invocato Gesù latinamente (str. XVII), il poeta congeda (str. XVIII) la Canzone: vada essa a ciascuno che ha l’animo gentile, e gli dica che sia umile, se vuol riuscire nell’arte, e che, scacciati i vani pensieri, si rivolga tutto a Dio, che solo soccorre, quando vede perfetto il pensiero. Infine, come abbiamo veduto, l’autore si nomina.
Il maestro capodistriano fu dunque alchimista serio, i quale, dopo aver per venticinque anni faticato alla ricerca del Lapis senza riuscirvi, stanco e stizzito contro i falsi seguaci dell’arte, volle brevemente riassumere, ad altrui insegnamento, i metodi seguiti dai vari alchimisti, aggiungendovi il frutto delle sue esperienze, e sferzare i pazzi che contribuivano a tener l’arte fuor del retto sentiero, mettendola in discredito e in ridicolo.
Non fu però egli il primo ad alzare la voce contro questi ultimi e a fermare così la differenza tra la falsa e la vera alchimia. In fine al Roman de la Rose (19), ad esempio, si era già introdotta la Natura a rimproverare ad un alchimista, con vivacità di descrizione, le pazze imprese dei suoi compagni:
Je parle a toy, sot fanatique,
Qui te dis et nomme en pratique
Alchimiste et bon philosophe:
Et tu n’as sçavoir ny estoffe,
Ne theoriqu, ne science
De l’art, ne de moy cognoissance.
Tu romps alambics, grosse bete,
et brusles charbon qui t’enteste;
Tu cuiz alumz, nitre, atramens,
Fonds metaulz, brusles orpiments;
Tu fais grands et petit forneaux,
Abusant de divers vaisseaux
Mais au faict je te notifie
Que j’ay honte de ta folie.
Qui plus est, grant douleur je soufre
Pour la puanteur de ton soufre.
Par ton feu si chault qu’il ard gent,
Cuides tu fixer vif argent?
Cil qu’est volatil et vulgal,
Et non cil dont je fais metal.
Povre homme, tu t’abuses bien!
Par ce chemin ne feras rien,
Si tu ne marches d’autres pas;
e il povero alchimista a scusarsi adducendo il disaccordo dei libri dell’arte:
Et commment me pourray-je guider,
Si vous ne me voulez aider?
Puis dictes que vous doiz ensuivre.
Je le veule bien, ma par quel livre?
L’ung dict: Prens cecy, prens cela.
L’autre dict: Non, laisse-le la!
Leur mots sont divers et obliques,
Et sentences parabolique.
Ent effet, par eulx je voy bien
Que jamais je n’en sçaurais rien.
Ma per trovare chi prima del maestro capodistriano spezzasse una lancia per la vera alchimia, separando da essa la falsa con le sue ribalderie, non c’è bisogno di andar tanto lontano. Nella stessa Istria, a Pola, un fisico ferrarese, Pietro Buono Lombardo, là stipendiato, componeva nel 1330 un lungo trattato d’alchimia, intitolato Preciosa Margarita Novella seu Introductio in artem alchimiae (20), nel quale con gli artifizi della scolastica si fa a dibattere la questione della verità o falsità dell’alchimia, provandone prima la falsità, poi, ribattendo ad una ad una le ragioni proposte, la verità. Anche Buono si scaglia contro i falsi alchimisti e insiste non doversi per le loro pazze imprese dir falsa tutta l’alchimia. E Daniello avrà avuto certamente e studiato il trattato del ferrarese, anzi forse nella Margarita Novella del Boni è da ricercare l’origine della canzone del capodistriano. Infatti son qua e là, nel lungo trattato del fisico di Pola frasi che Daniello adoperò poi nella canzone, e anche in una breve poesia latina frammessa alla prosa del trattato è, ad esempio, detto esser l’arte precio quoque vilis, parole che possono far pensare a quelle Ma pur nel prezzo è vile (str. VI, v. 3) del nostro Daniello. E più di un raffronto si potrebbe anche fare tra la sua e altre poesie, latine, sparse nelle raccolte di scrittori d’alchimia stampate nel seicento, se la mancanza di ogni indicazione del tempo in cui furono composte, non togliesse di accertare di chi sia l’imitazione, se del capodistriano, o degli anonimi compositori di quei carmi. Certo il movimento è lo stesso, presso a poco in tutte le poesie alchimistiche dalle più antiche alle più recenti, e notevole è in tutte, come nella nostra, l’invocazione di Gesù Cristo (str. XVII), che gli alchimisti avevano cura di affermare loro protettore e signore.
E con ciò ho finito, ché pur troppo, come si è già notato, nessuna notizia potrei raccogliere intorno al nostro, oltre alle due ch’egli stesso ci dà, il nome cioè e la professione: Daniele de Justinopoli, professor gramatice, e quella di aver lavorato per venticinque anni alla ricerca del lapis filosofale. Né i codici aggiungono maggior luce. Solo quello della biblioteca Landau, e la stampa del Nazari (1572) della quale molto probabilmente quel ms. è copia, tardi ambedue, aggiungono a quello di Daniele un altro nome: Rigino, e il tutto riducono malamente a Rigino Danielli, ove, contro le parole stesse dell’autore, Danielli diventa cognome o patronimico. Invertendo, avremmo un Daniele Rigini, chè intendere Rigino per da Reggio ripugna per molte ragioni; fra le quali la scorrezione grossolana che se ne avrebbe, e il dialetto veneto proprio dell’autore della canzone. Nella scarsità delle notizie è però necessario tutto osservare, e il dirsi Daniele fedele de Justinopoli potrebbe in vero far pensare ch’egli non ne fosse nativo, ma, dopo aver forse anche altrove esercitata la sua professione, dimorasse a Capodistria in qualità di maestro, chiamatovi da quel Comune, sempre curante della pubblica istruzione: il suo nome non è però fra i conosciuti. Ad ogni modo, anche se non di nascita, maestro Daniele fu capodistriano di elezione: tale si dichiara egli stesso, e come tale il nome e l’opera sono legati a Giustinopoli.
I. – El me dilecta de dir brievemente
Tuct’i secreti dell’arte felice,
Del summo a la radice.
Non sincopando nel mezo niente;
Però ne prego la summa clemenza
Che me conceda grazia d’aperire
Ogni secreto dire
De quelli che han parlato in questa scienza.
Chi vol seguire adonca el dritto cale,
Non torza l’arte for del naturale:
Sole, Luna e Mercurio si te basta
A far la bona pasta;
E non vi poner dentro seme vario,
Chè la natura non gionge ‘l contrario (1).
II. – Li nostri padri per diverse vie
Son venuti tutti ad un effetto,
Chè ogni corpo imperfetto
Hanno sanato in varie malattie.
Alcuni hanno divisi li elementi,
L’acqua da l’aere, dico, e quel dal foco;
Poi, a poco a poco,
Rettificando li han fatto lucenti;
Poi li han congiunti insieme in una essenza
Con la virtù della quinta essenza;
Alcun sublima, calcina e dissolve,
Poi cerando risolve,
Poi coagulando fa fixione:
Ma la prima opra è putrefazione (2).
III. – Ma nota ben, che non fussi in errore,
Che l’è una cosa sola in che son fitti
Gli elementi preditti,
L’anima e ‘l corpo e’l spirito e l’humore;
Ancora è in esso quattro, tre, uno
La quinta essenza, calce e fermento,
Mercurio, oro e argento,
Insieme tutti e diviso ciascuno,
Com’è nell’ovo lo chiaro col zallo,
La tela e ‘l scorzo e ‘l seme del gallo:
Più chiaro esempio ‘n te saprei trovare;
Però debi notare
A chi tu poni mane e cosa pratica,
Che alcun se tien maistro, che molto radica.
IV. – Quando componi non t’esca di mente
Che a far la pasta che sia bona e fina
Ce vole aqua e farina
E fermento alla pasta cumdecente;
E simelmente, se senza fermento
Lavorerai senza aqua over farina
La nostra medicina,
Te troverai le man piene de vento.
E, per ridurte ogni tenebra in fulgo:
Nostro mercurio non è quel del vulgo;
E non de cosa morta ma de viva
Se compie questa diva
E santa medicina, che reduce
Ogni corpo imperfetto a vera luce (3).
V. – Alcuno piglia la pietra rotente,
E senza farne altra divisione
In un vaso la pone
Ben sigillato con sigillo ardente;
E qui la cuose fin che l’è perfetta.
Ma nota ben la meta:
Che nel vulcano sta tutto l’effetto,
E tutta l’arte fanno en un vasello
Con lento foco in un sol fornello:
Qui se sublima solve e distilla,
Lava, descende e humila,
Incera, putrefà, calcina e fixa;
Qui se occide e suscita se ipsa (4).
VI. – La pietra nostra è di cosa animata,
Preciosa, zuave e zentile,
Ma pur nel prezzo è vile,
Considerando la virtù celata.
E’ non fazo però che non rammenti
Del tempo, nel qual molti son decepti,
Et anco altri defetti,
Che fanno li operanti tristi e lenti:
El minor tempo è di nove mesi,
Testanti li filosofi cortesi,
Ancora mostra de molti colori
Com’un prato di fiori,
Ma poi nel nigro ogni color si tacca:
Apresso al fine ti mostra di biacca.
VII. – Poi per decozione più lontana,
Deventa tutto quanto in color d’oro,
Con un sì bel lavoro
Che dà letizia ad ogni mente sana.
Un altro segno ancor te manifesta
Se la decozione toa è finita:
Ziò è se fuma o crita,
Over sta ferma senz’altra molesta.
Ancora dico de la proiezione,
In la qual ha falì molte persone:
Poi ch’el non fuma né fa più motto,
Fa che sia cauto e dotto,
E guarda ben che medicina alcuna
Non poni se non sopra Sol e Luna.
VIII. – Ma perché ‘l cade un pexo sopra mille
Se lo elixire tuo è perfecto,
fa che tu sia discreto,
E quel ch’io dico non tenere a vile.
Piglia una dramma de la medicina
E diese dramma de mercurio mondo,
e mettilo nel fondo
Del foco ardente dentro alla fucina:
Poi che ‘l servo comincia a frigire
Fumando, metti dentro lo elixire,
E tutto se converte in medicina,
Dico perfetta e fina,
De la qual butta un pexo sopra cento,
E trovaràti dell’opra contento (5).
IX. – Li nostri antiqui per celar quest’arte
L’hanno distesa in diversi volumi:
Chi la chiama Gumi,
E chi Mercurio, Solfor, Iove e Marte;
Alcun la chiama zaschadun metallo,
Alcun la chiama el nome di pianeti,
E ciascuno vi metti
Diversi nomi, fin a Risagallo,
Ovum capili, Lapis Mineralis,
Adhebesi, Rebis, Lapis Herbalis,
Arsinico e Orpimento e Draco
E Sal armoniaco,
Cuperoxa, Basilisco e Sangue,
Laton, Azoth, Zernech, Chilbrith et Angue (6).
X. – Per questi varii nomi son decepti
Molti operanti; che alcun piglia quello
De che ‘l tacer è bello
E vanno seguitando soi concepti;
Alcun’ fanno la dealbacione
Con risagallo, tartaro e calcina,
E fanno metallina
Con chiaro d’ovo et altro ch’i vi pone,
Alcuni son che piglian l’orpimento,
Alcun l’arsenico e non vi fa niento;
Alcuni piglian li quattro elementi;
Alcuni son contenti
D’alcuna limatura di metalli;
Chi de borace o de alume o di Sali (7).
XI. – Dico per questi nomi son decepti
Molti incliti savi e circumspicti,
Che questi nomi en scripti
Per diversi colori e varii effetti.
Però non ti partir de la natura,
Che tal semmenza qual seminarai,
Tal frutto coglierai;
Chè ogni animale fa so simel creatura.
Piglia adonca el mercurio mondo,
(E qui te manca la misura e ‘l pondo),
E dagli perfettissimo fermento,
Dico d’oro o d’ariento;
Ché chi semina fava over faxoli
Non può ricolier grano né pizoli.
XII. – Alxcuni cercan l’erbe venenoxe,
La tora, l’oliandro e la lunaria,
Secondo che gli varia
La mente huc illuc a varie cose;
Alcun lavora nel seme humano,
Chi piglia talco, e chi piglia sangue,
Sterco, chi buffo et angue,
Chi toglie exusto, chi vitriol romano;
Alcun cinaprio, alcun alum di piuma.
I’ non poria contar di tutti in summa,
Che ‘l seria gran volume e grandi affanni
A ricontar li inganni
E le ribalderie che fanno assai:
Però lo dico che già lo provai (8).
XIII. – Aliqui solvunt duo corpora sana
In aqua forte; alcun amalgamando
Et alcun dealbando
Fanno di rame bronzo di campana;
Alcun fa discensorio, alcun sublima,
Chi stilla per lambicco e chi per feltro,
Chi fa de stagno peltro,
Chi ne le marchexite fa so extima;
Alcun tinge cum tucia e zalamina
E mele e fighi e piuma di gallina;
Chi iunge croco, chi vetriol romano:
Così col capo insano
Con tal oprar soffistico e fallace
Fanno parer l’arte vile e mendace (9).
XIV. – Guardate molto dal foco excessivo:
Olio e carboni, poi del fimo, basta;
E guarda che la pasta
Mai non sia priva del mercurio vivo.
Lo troppo foco fa vitrificare;
Lo troppo humore se converte in laco:
Però governa el draco
Como ha bisogna de bere e manzare;
E de putrefare non te sia tedio,
Ché tutta l’opra dona gran remedio.
Ma pur lo troppo foco non ti vale
Com die fa el naturale
Le scorze d’ovo, i denti del leofanti,
E sol robini, balassi e diamanti (10).
XV. – Poi ch’è compita questa dolce manna
Non solamente e’ corpi de’ metalli,
Ma tutti i gravi mali
Rimove e scaccia da li corpi humani;
Poi che hai cacciato el morbo se defende
Che ‘l non ritorni più nel futuro,
E fa l’omo securo,
Per fin che’l vive, de star lieto e sano.
Conserva sanitate e zoveneza;
Senza peccato dona gran riccheza;
Conserva ancora el calor naturale
E lo spirto vitale
Sopra ogni medicina d’Avicenna,
Galieno, Ypocrate e Damascenna.
XVI. – Non so se debia dir li vasi e ‘l pondo
Quia quaesivi pluries quinque lustris
In novis et vetustis
Libris per diverse parte del mondo
Con molte fatiche, spese et affanni,
Semel dumtaxat repperi de vasis
Et pondus vere basis
Per spacio e ultra de XXV anni,
El vaso la fiola de Latona,
E li pianeti lo peso ti dona;
Quella in sua forma, e quelli in algorismo,
E questo no è sofismo:
Anche è descritto per vera figura
Lo vaso, la materia e la mesura.
XVII – Deus onnipotens qui cuncta cernis,
Quo sine nichil fit boni et mali,
Cui contingit falli
Eripuisti infimis avernis;
Tu cuncta fide Verbo redemisti
Spiritu Sancto et gratia caritatis;
Tu esse deitas
Humanitatem nostram induisti!
Si Virgo iam peperit non est mirum,
Quod negat genus ebreorum dirum.
Tu, qui cuncta potes, fac me dignum
Per passionis signum,
Ne moriar patris labe rei,
Perficere hoc opus, donum Dei.
XVIII. – Canzon destesa, và per tutto el mondo
A zascadun che ha l’animo zentile,
E dì che ‘l sia humile,
Se di quest’arte vol veder el fondo;
E non fondi i pensieri in cosa vana,
E non si pensi di far mondo novo,
Né cerchi el pel ne l’ovo,
Ma de exaltare la fede cristiana;
Ché Dio, che vede ogni nostro secreto,
Sempre soccorre lo pensier perfetto,
E s’alcun vol che ‘l mio nome gli panda,
Dì: quel che qui mi manda,
De Justinopoli è ‘l nostro fidele
Gammatice professor Daniele.
Laus altissimo.
NOTE:
(1) Str. I – È noto che secondo gli alchimisti i metalli erano sette, e che ciascuno d’essi portava il nome di quello fra i sette pianeti, col quale pareva meglio accordarsi nei caratteri. Così l’oro fu detto Sole; l’argento, Luna; il ferro, Marte; l’argento vivo o idrargiro, Mercurio; lo stagno, Giove; il rame, Venere; il piombo, Saturno.
(2) Str. II – «Rettificare, è far distillare i spiriti, a fine di separarne quello che hanno potuto haver portato seco in alto di parti eterogenee» (Corso di Chimica del signor Nicolò Lemery, tradotto dall’ultima edizione francese da Natan Lacy di Londra, Torino 1695: «Spiegatione di molte voci delle quali si serve in chimica» p. 23 e segg). – «Sublimatio est rei siccae per ignem elevatio cum adhaerentia sui vasis.- Sublimatio vere diversificatur propter diversitatem spiritum sublimandorum: quaedam enim fit cum ignitione, quaedam, vero cum igne mediocri, quaedam autem cum igne remisso» (Geberis | Philosophi perspicacissimi Summa per | fectionis magisterii in sua natura ex bibliotecae | Vaticanae exemplari undecumque emendatissimo | nuper edita… | Venetiis apud Petrum Schoeffer | Germanum Magunitnum | Anno 1542 || Apud Dominum Joannem Baptistam | pederzanum Brixiensem Anno 1542, pag. 26). «Sublimare è far ascendere col fuoco una materia volatile alla paerte superiore del lambicco overo al capitello» (Lemery, op. cit.) – Calcina : «… est ergo Calcinatio rei siccae per ignem pulverizatio ex privatione humiditatis partes consolidantis. Causa vero inventionis eius est, ut sulphureitas adustiva & corrumpens & defaedans per ignem deleatur, ecc. » (Geberis, Summa, L. II, cap. 13, De Calcinatione, c. 41 t.). Oggidì si direbbe ossidare per mezzo del calore, e i prodotti della combustione, allora calci, sono dette oggi ossidi (Casali, Dizionario delle denominazioni e dei sinonimi della Chimica, Bologna, Zanichelli, 1872). – Dissolve: «… solutionem, rei siccae in aquam esse reductionem, quoniam omnis solutionis perfectio adducitur cum aqui subtilitibus & maxime acutis, & acribus ponentibus, faecem nullam habentibus, sicut est acetum distillatum, & uva acerba, & pirae multae acritudinis, et mala granata similiter distillata, & his similia. Fuit autem causa inventionis eius subtilitatio eorum, quae neque fusionem, nec ingressionem habent, de quibus magna utilitas amittebatur spiritum fixorum videlicet, & eorum quae suae naturae sunt.» (Geberis, Summa, L. 2, cap. 15: De solutionibus, c.44). – Cerando: «Ceratio est durae rei non fusibilis mollificatio ad liquefactionem. Ex hoc ergo manifestum est, quod causa inventionis illius fuit, ut quod ingressionem ex privatione suae liquefactionis non habebat, in corpus ad alterationem mollificaretur ur flueret & ingressionem haberet, ecc.» (Geberis, Summa, L. II, cap. 18: De ceratione, c.50). – «Coagulatio est rei liquorosae ad solidam substantiam per humidi privationem reductio. Est autem duplex inventionis causa illius, Argenti vivi silicet induratio, altera vero medicinarum solutarum ab aqueitate illis admixta absolutio» (Geberis, Summa, L. II, cap. 16). – «Fixio est rei fugentis ad ignem conveniens adaptatio: causa vero inventionis ipsius est ut omnis tinctura omnisque alteratio perpetuetur in alterando & non mutetur ecc.» (Geberis, Summa, L. II, cap. 18: De fixione et modis eius, c. 48). – Putrefazione o fermentazione putrida, è una trasformazione della materia organica, mediante la quale questa si riduce in prodotti puramente minerari (Casali, op. cit.).
(3) Str. IV – Medicina: «Consideratio vero rei quae ultimo perficit, est consideratio electionis purae substantiae Argenti vivi, & est medicina, quae ex materia illius assumpsit originem, & ex illa creata est. Non est autem ista medicina Argentum vivum in sui natura, nec in tota substantia, sed fuit pars illius; non est autem naturae suae, cum lapis noster factus est pars eius, ipse enim illustrat & ab adustione conservat, quod perfectionis est significatio». (Geberis, Summa, L. II, Prohemium).
(4) Str. V – Ben sigillato con sigillo ardente, cio è col sigillo di Ermete (come nota in margine anche il codice Landau), e «sigillare Ermeticamente non è altro che chiudere l’imboccatura o collo di un vaso di vetro con tenaglie infuocate» (Lemery, op. cit). – Nel vulcano, cio è nel fuoco; il cod. senese, solo, ha pellicano, e potrebbe stare benissimo (ridotto il verso a Nel pellicano sta ecc.), chè pellicano era detto uno dei tanti vasi di forme e nomi stranissimi adoperati dagli alchimisti; «portava questo nome anticamente un alambicco che si usava nella coobazione (operazione che consiste nel distillare un liquido sulle stesse materie da cui fu ottenuto). Il capitello portava due tubi i quali rientravano nella parte inferiore dell’apparecchio» (Casali, op. cit.). � Distilla: «est ergo distillatio vaporum aqueorum in suo vase elevatio» (Geberis, Summa, L, II, cap. 12: De distillatione triplici, scilicet per Alembich, Chimiam, & filtrum, c. 39). – Lava: «Dicimus autem, quoniam Argentum vivum mundatur dupliciter. Aut per sublimationem, cuius attulimus modum (v. sopra: Sublimatio), aut per lavacrum, cuius modus hic est: Fundatur Argentum vivum in patella vitrea vel lapidea, & super ipsum aceti quantitas aspergatur, quae sufficiat ad illud cooperiendum. Deinde super lentum ignem ponatur, & calefieri permittatur in tantum ut digitis se tractari permittat. Deinde digitis agitetur quosque in partes minutissimas in pulveris similitudinem dividatur, & tam diu agitetur quousquem acetum totum quod in illo infusum est sit consumptum. Deinde vere, quod in eo terreitatis inventum est lavetur cum aceto & abiiciatur, & totiens super illud opus reitetur, quosque terreitas illius in caelestinum mutetur colorem perfectissimum, quod perfectae lavationis est signum» (Geberis, Summa, L. III, cap. 18: De mercurii lavacro, c. 68 t). – Descende: «Restat nos descensionis modum monstrare cum causis suis… Fuit autem causa inventionis illius triplex: una scilicet, ut cum medicina aliqua inclusa est in illo vase, quod vocatur Descensorium vel Chimia, post fusionem descendat per foramen eius: & tunc sumus certi fusionem suscepisse. Alia causa, ut corpora praeserventur a combustione debilia, per eam descensionem post reductionem a calcibus eorum:… necesse igitur fuit ingeniari, ut cuym statim reducta est pars, ab igne deponatur: hoc autem per descensorium fit. Est et tertia causa inventionis, corporum depuratio ab omini re extranea: descendit enim corpus fusum mundum & omnem rem extraneam in concavitate illius demittit. His igitur necessitatibus inventa descensione, …. dicimus quod forma eius (instrumenti, i. e. Descensorii) talis sit, ut fundus illius si acutus, & parietes illius aequaliter, sine scrupolo sint terminantes in fundi acuitatem, ut possit unumquodque libere sine adhaerentia ad illius fundi foramen desendere, ecc. (Geberis, Summa. L. II, cap. 2: De descentione, c. 37). – Sublima, solve, incera, putrefa, calcina, fixa, vedi la nota alla strofa II.
(5) Str. VIII – Servo: il mercurio. Molto probabilmente, anziché frigire è da leggersi fugire, ciò è il volatilizzarsi del mercurio; e così infatti hanno due codici e le due stampe.
(6) Str. IX – Gumi, gummi, Κόμμι, una delle varie sepcie di gomme conosciute dagli antichi. – Risagallo, lo stesso che realgar, è il bisolfuro d’arsenico nativo; si trova in cristalli d’un bel color rosso, nei crateri vulcanici e nelle solfatare (Casali, op. cit.) – Rebis; ritengo opportuno, meritandolo la parola, che può dare un’idea della stranezza del linguaggio alchimistico, riportare la spiegazione che di essa dà in un suo trattato un vecchio alchimista: «Sic lapis est unus, una medicina, quae secuncum philosophos dicutur Rebis, idest ex bina re, scilicet ex corpore & spiritu albo vel rubeo, in quo multi fatui erraverunt, diversimodo exponentes ilud Est Rebis in dictis rectissima norma figuris. Id est duae res, et hac sunt una res, id est aqua coniuncta corpori, qua corpus solvitur in spiritus, id est in aquam mineralem ex qua factum est ab initio, et sic ex corpore et spiritu fit una aqua mineralis quae dicitur elixir, id est fermentum: quia tunc aqua et spiritus est una res, ex qua fit tinctura et medicina omnium corporum purgandorum, quod multis fatuis videtur impossibile. Igitur ex una re aqua corporis et spiritus, medicina perficitur« (Richardi Anglici, Libellus utilissimus περì χημείας cui titulum fecit Correctorium; cap. XI: De differentia sulphuris vulgi et philosophorum, simplicis, non adurentis; nel Theatrum Chemicum, vol. II, pag. 4 : 8-29). – Orpimento, auri-pigmentum: porta questa denominazione il semisolfuro d’arsenico, tanto artificiale che nativo. Quest’ultimo è ora cristallizzato, ora amorfo e terroso, od in lamelle, ed è associato spesso col Realgar o risigallo (Casali, op. cit.). – Draco, basilisco. Oltre ai segni geometrici e alle lettere, entravano a far parte delle combinazioni mistiche, principi fondamentali dell’arte sacra, anche gli animali, le piante, i segni dello zodiaco, i prodotti di esseri viventi, il latte, l’uovo, il sangue, ecc.. E fra gli animali sacri erano il leone, l’aquila, il drago, il basilisco, la cicala, la salamandra, ecc.. Il leone giallo era simbolo dei solfuri gialli; il leone rosso del cinabro, e il leone verde dei sali di ferro e di rame. L’aquila nera significava i solfuri neri, e più particolarmente il solfuro nero di mercurio, sì che la frase, ad esempio che spesso si incontra nei trattati d’alchimia: «l’aquila nera si trasforma in leone rosso», significa che il solfuro nero di mercurio si trasforma per la sublimazione in solfuro rosso di mercurio, ciò è in cinabro. Ora, il drago e il basilisco, ricordati in questa strofe, , sostituivano spesso il primo il leone, il secondo l’aquila, o i loro simboli (Hoefer, Hist. De la Chimie, t. I, p. 237). – Cuperosa, «copparosa, denominazione che si fa derivare da cupri rosa, rugiada o acqua di rame, e con la quale si indicava un tempo la soluzione acquosa di solfato di rame » (Casali). � Sangue, Molte sostanze prendendo nel combinarsi il colore del sangue, anche questo penetrò nel vocabolario degli alchimisti (Hoefer, op. cit., p. 238). – Azoth; nei misteri dell’arte, le lettere, come i numeri, avevano gran parte. A, la prima lettera dell’alfabeto di quasi tutte le lingue conosciute, unita alle tre ultime degli alfabeti latino, greco ed ebraico (z ω th), forma il motto mistico Azoth, la chiave misteriosa della salute e della ricchezza (Hoefer, op. cit., p. 235). – Chibrit, di un liquiore acido di nome Kibrith, parla Bubacar, un alchimista arabo, nel suo Liber secretorum (Hoefer, p. 357). – Adhebesi, Laton, Zernech, altre denominazioni del famoso Lapis, al quale più altri nomi, non meno strani di questi, erano dati dagli alchimisti. Se ne possono vedere alcuni nel brano del Garzoni che abbiamo riportato più addietro, dove sono ricordate parecchie parole, e operazioni d’alchimia, che ricorrono pure nella canzone del nostro.
(7) Str. X – Tartaro, denominazione generica con la quale gli antichi chimici designavano i Sali ad acido tartarico, e più particolarmente il tartrato acido di potassio o cremore di tartaro (Casali). – Metallina: è detto così, o anche matta, il prodotto di fusione del minerale, prima torrefatto, nel quale si è concentrato quasi tutto il metallo di cui s’imprende l’estrazione (rame, piombo, ecc.). Le operazioni si ripetono fino a che la metallina ottenuta sia abbastanza ricca per poterla lavorare direttamente e ottenere il metallo (Casali).
(8) Str. XII – Buffo, è il latino bufus, rospo. – Exusto, aes ustum, adoperato anche nei secoli posteriori ad usi medicinali.
(9) – Str. XIII – Amalgamando: «amalgamare è mescolare del mercurio con qualche metallo fuso; questa operazione serve per render il metallo proprio per stendervi sopra qualche lavoro, o per ridurlo in polvere sottilissima, il quale si fa mettendo l’amalgama nel crocciòlo sopra il fuoco, perché il mercurio, sollevandogli in aria, lascia il metallo in polvere impalpabile; né il ferro né il rame si amalgamano» (Lemery, op. cit.). – Dealbando, v. Dealbazione, str. X – Fa discensorio, v. Descende, str. V – Peltro, la nota lega di stagno e piombo, ricordata anche da Dante e che fin poco addietro serviva a fabbricar piatti da cucina, detti ancora in qualche dialetto, come nel trentino, peltri. – Marchesite, marcasita, il bisolfuro di ferro nativo cristallizzato (Casali). Nel Theatrum chemicum (vol. III, pag. 161-66), si può leggere un «Tractatus de marchasita ex qua tandem cum aliis dicendis fia elixir ad album vivacissimum», nel quale sono indicate anche le miniere d’Italia, ove si trova. – Tucia, tuzia, denominazione antiquata dell’ossido di zinco impuro, detto anche tuzia alessandrina (Casali).
(10) Str. XIV – Fimo: «De’ luti: la violenza del fuoco fa spesse volte fondere le ritorte di vetro nel fornello di riverbero: e perciò e meglio di coprirli d’una pasta che, doppo sarà seccata, sia abile per sostenere e conservare la materia che vi si è posta per distillarsi. Questa pasta si chiama Luto, cioè fango (o fimo). Si farà nel seguente modo… ; della qual pasta o luto si coprirà d’intorno la ritorta sino alla metà del collo, poi si metterà a seccar all’ombra » ecc. (Lemery, op. cit.).
Varianti:
Nel cod. Marciano M) la canzone non ha alcun titolo, e così, pure nell’appendice alla stampa antica di Geber (G); il riccardiano (R) porta quello che mettemmo in fronte alla canzone, perché il più esatto; il cod Landau (l): Canzone di Rigino Danielli Iustinopolitano. Nella quale si tratta la Filosofica Arte del Lapis de’ Filosofi; il Senese (S): Opus Danielis philosophi. La stampa de Nazari (N), che procede sempre d’accordo col cod. Landau, ne riporta anche il titolo amplificandolo: … tutta la Fil. A. del precioso L. de’ Fil. – Seguo M, scostandomene solo nei pochi punti, che saranno indicati; Nel dar le varianti di S non tenni conto del disordine in cui esso ci presenta le varie strofe; le varianti di L sono proprie anche di N, quando non sia indicato il contrario; trascurai le grafiche, o senza importanza alcuna.
I, I: Io me diletto; 4: dal, S, nel; S e poi n.: 7: M Et o., L ed: 8: S Li tal sc.; 10: L tiri, S, tocchi, e a questo verso aggiunge: Ma segui eguale si che non sia alcuno intervallo; 12: R, L, G, Per; 14: M gionge c.
II, 1: L I padri nostri; 2: R S son pervenuti, L, tutti venuti, S, In uno; 3: s Et o; 4: M malicie, L di v., G sanato & varie m; 6: M dico q, S aere et la terra dal fuoco; 7: R L S G Et p.; 9: M inseme, L Et poi gionti ins., S poi hanno condutto ins., G gionti; 10: L la so v., manca in G; 11: M alcuni solima, S calcina soblima, L Altri s.; M corando, R S E cercando, G & cer.; 13: R Et p., L così congelando fanno, G fan fixatione; 14: M Opera, S E l., L la pu.
III, 1: M fosti, L fusti, S fusse S E n., G noto, fossi; 2: M consciste, R son siti, L ch’è G glie; 5: L Et anco in essa, S Anco è in essa, G Ancora in e.; 6: R la calce e ‘l f., G e calce con f., S calcina e f.; 8: L in c, S tutti hanno d.; 10: S tela la scorza col; 11; M esempio te seperj, R L S G non ti so tr.; 12: S tu d.; 13: R A che tu pon mano (et postea) e cosa pratica, L mano e poi pr.; S a che pon mano e poi pr.; G Al che e postea pr.; 14: S maistro e spesso r., G se te m. & m. r..
IV, 3: L gli vuol; 4: S al fermento pasta conducente; S si il f.; 6: L Lavori o s. a. bona f., S G lavori; 9: M tenebre, S redursi le tenebre in fulco; 10: R è di quel; 11: L ma ben di v.: 12. M compi, L si forma; 14: S in v.
V, 1, M. Algani p., R L G recente, S recente (over lucente), G alcuni piglian; 2: L farla in a., S Fare a. ; 3: M vase, L in margine: di ermete; 5; R S Et p.. , L Ponendolo poi, G E poi; 6: R E qui lachonze, S si cuoce, L per fin ch’è p., G glie perfecto; 8: S nel pellicano; 9: R S Et tutte l’a., M fano ne un v., L si fa in un, G in un vascello; 10: L sol in un; 11: M solima; M S dissolve e dist., L G et si dist.; 12: M descende, S descende et coagula ella, G & humido; 13; S In certa p.; 14: R Se issa, L per se stessa, S se stessa, G se essa.
VI, 2: R G E p., L Et p. et ; 3 : L sopra ogni prezo ; 4 : S sua v.; R Io n., L Già non farà p., S Non vo’ però che tu mi r., G Io non farò però ch’io; 6: L (non N) Nel t., S El t. n. q. son molti dicenti; 7: M Ancho et altri; 9: R S Lo, R, si è de; 10: M Ma pur n. n. o. color te piace, L nero o. c. s’attacca, S di p. il n. o. c. ti piace, G Ma da poi al nero o. c. te piacqua; 14: R di biacce, S E presso il f. si m., S Il fin dimostra biancore, G si monstra.
VII, 1: L la d.; 2: S tutta in c.; 3. S Un s.; 4: M letitia o, S che di lettitia o. ; L G ancora m., S ‘è manifesto; 6: S d. è f. ; 7 M la f. over; R Ciò è sel f., L la fumosità uscita, S Cioè si ferma o grida, G Tio è sel f. o crida; 8: R fermo, L Et f. se ne sta s.; S alcun moiesto, G O vero star fermo, 9: R Anchor ti, L dirò, S Anchor dirò, G anchi; 10: R La q. fallito ha già, L La q. ha già fallito assai, S che già han fallito, G La q. ha za fali; 11: R L Po che non f. & che non, S Per che non fum faccia più m., G & chel non fa; 12: R sie, L esperto e. d.; 14: M poi, R vi ponga sopra si non sole o l., S Ponga, G. proui.
VIII, 1: L S G perché c.; 2: R Et poi se l’elixir, L E più s’il tuo Elissir, S Et poi se ello, G & più se; 3: S sia esperto; 4: L per v.: 5: M Piglia u. dragma; 7: M mitillo; L qui si arresta, non così N; S Et mette nel profondo, G & metti nel prof.; 8: M detro; 9: R N Et poi… fuggire, S Et poi che comincia a fumare, G fugire; 10: M meti; 11: S Convertirassi t. in m.; 12: M dicto; 13: N getta; 14: M opera ben c., N E faratti quest’opra star c., S Allhora sarai della opera c..
IX, 2: S Lo scrissero in versi et vo., G l’andò dist.: 3: N gummi, G giumi, S Et chi; N o Marte; 5: M Alcuni, N Il ch. Per ciascun m., S la per ciascun m.; 6: M Alcuni, R in n., N Alcuni poi per n., S A ch. N.; 7: R Et ciaschedun li mete, N li m., S li mette, G et ciaschadun li metti; 8: R fino al risalgallo, N fin per risigallo, S fino a risargallo, G ad rosagallo, 9: S ogni capillo minerale; 10: S In diverse cose la pietra orbale; 11: M A. o., N auropigmento, S drago; 12 manca in S, N Et chi s.: 13: R N S Et c., M basilico, N S Basalisco, G basilisco; 14: R chermeth chibrich, N G azoch ernech, S Laton e zoh chi bric et serpente.
X, 1: G decepta; 2: M chi, N c’hanno preso q., G opranti, alcun; 3: S Dil.; 4: N i lor c., S lor c.; 5: M f. d., R so che f. d., S dealbationi; 6: R risalgallo, N risigallo, G rosagallo, S textaro; 8: R S che, N La chiara di uova un altro v., G che vi p.; 9-10 mancano in M, in G manca il 10 e il 9 dice Alcun pigli l’oropigmento, N ha invece: Alcun altro prende l’auropigmento, alcun altri arsenico non vi mento, e S Alcun piglia orpimento Alcuni altri arsenico nonnvi mento, seguo R, che però al 10 ha e ciò; 11: N Et alcun prende l.; 12: S stanno c.; 14: M boragie. R borrace de a. e., N boraci d’alumi, S Et di borrace allumi et sale, G de lumi.
XI, 1: manca in R; S P. q n.- altri hanno in dispetto; 2: M circumspecti, R M. jdioti et savi circum (scripti) specti, N Et molt’idioti e. s., S Di molti dotti et savi circumscritti, G M. idioti & savii circumscripti; 3: M Per q. n. sono s., N S Che q. n. han s., G che q. n. inscripti; 4: S c. et altri il defetto; 5: R N da n.., S dal naturale; 6: R semente che, N Che qual seme sia che, S sementa che,. G semenza che; 7: M tu recoglierai, S ricorrai; 8: R a sé simil, N fa simil genitura, S fa simil, G fa simile; 9: N prendi dumque, R N S G puro et mondo; 10: R N S Ma q.: 13: N o pur, S et se seminerai fave over fagioli; 14: R né gran n.
XII, I: M corcan, R Alchun ricercha, N piglian, G Alcun piglia; 2: M e l’erba e lu., R thora l’andra e alchun., N oleandro, S thora l’andro alcuni l., G landro; 4: R buc et i, N quinci quindi, S m. delli erranti a. v., G hinc illuc; 5: R Alchuni si lavoran in, N alcuni si l. il, S collo s. , G Alcuni si la el s. u.; 6: in G mancano; vv. 6-8; M pilgia, N chi capelli o s.; 7: N Chi s. b.o a., S Et s. et rospo et a.; 8: M tolgie esusco, R tolle esusto e N prende esusto o v., S Et tale metallo bruciato e v. 9; G Lume di p.I; 10: N cantar, S potrei. T.; 11: M effani, R i gr., N S Che sariam gr., G volumi & gr. affandi, 12: G l’ingandi; 13: S che sono a ; 14: R N S G Et io lo d.
XIII, 2: N Alii; 2: S, che qui presenta in versi in disordine, Acqua f.: 3: G Alcuni de.; 4: S del r. b. da campane, G del r.; 5: M dicensorio, S G fanno; 6: M lembicho, S distilla; 7: S feltro; 8: M marthaxite, N Et chi ‘n me fa sua st.. , G marchasite fanno st.; 10: M figi secchi e, R fiche in p., R Et con tale opre sophiste et, N Con tal opra sofistica, S Et con pen sofistica e f., G & con tale opre sophistiche & f.; 14: R l’a p., N G L’a f. p., S parere li altri vili et nondani.
XIV, 2: M nel f., R furmo, ma in margine la correzione del fimo, S carbon doppo il f. ti b.; 4. S M s.; 5: manca in M, N Il tr. f. f. verificare, S secco fa vinificare; 6: N il t., S lago; 7: S g. bene il drago; 8: M e da m., S ha di b. e di m.; R et mai di, N n. s., S E p.; 10: R c’ha, S Che a tutto l’opera; 11: R G fale, S n. si v.; 12: R Non fa ‘l n., G Non fa lo n., N Che non fa ‘l n., S che non è n.; 13: d’ova et i d., N la scorza d’o. e d. d’elefanti, S elenfanti, G Le scorzi d’ove denti de el.; 14: N Il sol, S El sol rubino balascio et deimante, e in margine: sale, G balastri e in margine fu corretto balasci.
XV, 1: S fornita q. d. mano, G poi che e completa; 2: M et c.; S Remove et scanza dello corpo humano; 5: R che è c., N che c., S ha c. el m. su destendi, G ch’à c.; 6: R mai più, N in el f., S che non vi torni, G che n. r. p. in nel f.; S come homo; 8: N che vive e sano chi la prende, S che vive sano se la prende; 9: N sanità; 11: S Anco il calore; 13: N m. di Galieno; 14: M Galieno, R Ip. G. N Avicenna Ip.; in S i vv. 13-14 suonano: Sopra ogni medicina augumentatione Chaleno Ipocrate ed Almansore.
XVI, I: N il vaso, S s’i’ debbo dire del v. et il p., N G plures, S Perché ho cercato di molti autori; 3: S Nelli vecchi et nelli nuovi libri; 4: S Per molte parti div. d. m.; 5: R fatighe et, G et con m. f. sp. & affandi; 6: M reperiri, N reperii, R una volta sola ho trovato de’ vasi, G de varis; 7: S Ma el peso di vasi; 8: M de XV a., S spacio oltra d.; 9: M de L. te dona, N il peso pur t., S E lo pianeto; 11: M quelli in s f. e q. in angorismo, R, questa, N quel in so f. et quel in a., S quello in suo fermo e quel malorismo; 12: M non è, R N S G non è; 13: R Anzi è discr., N anci d., S anco ho, G anchi ho; 14: R Et la figura, poi corretto in mesura. – Qui N e G si arrestano, ma nella copia G da noi esaminata l’ignoto possessore trascrive le due ultime strofe, e del manoscritto diamo egualmente le varianti, indicandole per Gm.
XVII, Questa strofe manca in S. – I. Gm Sed parcat o.; 2: M Quosum,l R Gm b. nec m., Gm Q. s. tibi; 3: M Qui, ma la correzione ci par richiesta e dal senso (sottinteso cum) e dal metro, R, Tu cui cont., Gm Tu cui non contigerit f.; 4: R ab i., Gm infirmos a vermis; 6; Gm sancto gratia; 9: M peperat, R Si v. p. iam n.,; 10: M Quio negat gravis; 11: R Tu c. verbo potes fac, Gm Tu c. p. me fare di.; 12: M paonis; 13: M Ut m. pa labey, Gm Ut merear veniam labe rerum; 14. R Et perficias L. , M hoc donum.
XVIII, I. Gm, dispersa; 2 Gm l’almo; R Et digli che el, S digli che s., Gm Et digli che sia; Gm vol trovare el; Gm el pensieri; 6: M ma peu, fare il mo. di n., Gm Neanche pensi di f. ; 7: S cercare il pelo, Gm, Né pensi di trovare el pelo in nel ovo; 8: S Né mai offender la f.: 9: S ché Iddio vede, Gm Et Dio; 10: M pensir, Gm Sempri securi; 11: Ho seguito R che, solo, rispetta il metro; M ha in luogo di questo due versi: Canzone mia se algun ti domanda Che’l mio nome gli panda; egualmente Gm (alchun la dim.), che manca invece del v. 13, S poi finisce malamente la canzone così: Canzone mia se alcun ti domanda Dì quel che già mi manda Che il mio nome si spanda Di Costantinopoli tuo fidele | Grammatico professore Danielle. El fine; 14: R è n., Gm è �l vostro fidelle Danielle.
NOTE:
(1) DELLA LANA, Bologna, 1866 vol. I, pag. 452-4. – OTTIMO, Pisa, 1827; voI. I, pp. 493-5. – BUTI, Pisa, 1858; voL. I, pr. 751-52. – BENVENUTO, Florentiae, 1887; voI. II, pp. 400-3.
(2) BENVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA, Comentum super Dantis Aldigherij comoediam. Florentiae. typ. G. Barbèra: t. II. p. 401.
(3) Questione sull’Alchimia di Benedetto Varchi: codice inedito, Firenze, Magheri, 1827; in 8°, di pagg. XXVIII-68. Ne fu editore il Moreni
(4) Così ad esempio ne L’Alchimista, comedia di M. BERNARDINO LOMBARDI comico | confidente | Al molto illustre sig. | il signor Giulio | Pallavicino || In Ferrara | Apresso Vittorio Baldini. .MDLXXXIII. | Con Licentia de Superiori. Anche fra le comedie di G. B. PORTA, citate come inedite dall’editore Bartolomeo Zanetti, ve n’è una intitolata L’ Alchimista. Ma a dimostrare lo scadimento al quale l’arte era ormai venuta nell’opinione quasi generale dei cinquecentisti, meglio che altro, serve la vivace invettiva che contro di essa e dei suoi seguaci fa Tomaso Garzoni nella sua Piazza Universale di tutte le professioni del mondo e nobili et ignobili ignobili, all’articolo Alchimisti. Cito dall’edizione di Venetia, Appresso Gio. Battista Somascho, MDLXXXV; pp. 143-44:
«Non si possono raccontar le fatiche, i travagli, i stenti, le vigilie, le compre, le vendite, i pegni, gli imprestiti, le spese disordinate, et estreme con la miseria, e calamità, che lor succede in fine, quando stracchi da tante prove, et isperienze vane, si vedono con le mani vuote ridotti all’ultimo esterminio della robba, e dell’hauere, e sforzati a gridar con quel verso del Salmo: ad niochilum, ad nichilum reductus sum, quia nescivi. Si consumano i miseri vanamente in cercar tutto il dì ricette, libri, e secreti, dandosi a capire di congelar Mercurio col Napello, con l’herba Thora, con la la cicuta, con la Lunaria maggiore, con l’urina, con la feccia di putto rosso lambicata, con la polvere d’Allocco, con l’infusione d’Oppio, con l’Arsellico, col salnitro, col salgemma, col grasso del rospo; e finalmente questo pazzo volatile [il Mercurio] piglia un salto, e quasi per arte di negromantia, lascia i crosoli vuoti a un tratto, i liquori bollir dentro per ira, i sali strider per rabbia, le polveri strepitar per furore, e i maestri bravar fra loro estremamente per vergogna, e confusione. Scola pazza, bottega insana, officina di materia più che di sapienza ripiena. Qui s’insegna di gettar via la robba, di perder il tempo, di stentar la vita, di privarsi della fama, di acquistar nome plebeo, di gabbar le persone, di far moneta falsa, e di provare un giorno un laccio d’oro, che passi per arte del boia alla copella. Qui s’ impara quella prattica furfantesca di Rodiano, e Rosino, di Turba, Alfidio, e Gioanniccio data solamente in figure, caratteri, linee, metafore, note, punti, profetie, similitudini, sincope, synonimi, enigmi, che a interpretarli non Valerebbono Edipo, né la Sfìnge. Qui s’impara quella grammatica insulsa di nomi stravaganti da fare impazzire il Diavolo, che ha posta il Panteo, nominando la virtù trasmutativa, polvere, Pietra Terra, onguento, Capo di corvo, Elixir, Quinta essentia, con infiniti altri modi diavolosi; l’arte che insegna questo, Alchimia, Chimia, Calcimia, Calcocumia, Voarchaumena, Vouarchadumia; i soggetti dell’arte, anima e corpo, denso e raro, forme e materie, fissi e volatili, duri e molli, puri e misti, occulti e aperti; i modi usati dall’arte, fumi d’Antimonii, arsenici, calcanti, ferretti di spagna, litargirii, marchesite, metalline, talchi, magneti, zelamine; gli ogli, di lino, di nitro, di solfore, di cinnabro; le terre tinte, di caledonia, di tutia, di sargalla; i sughi d’herbe, di saponaria, peonia, cardo santo, martegon; i sali diversi, il sal archali, sal pietra, salgemma, salnitro, sal catino, sale elembroth, sale indiano; l’urine d’huomo, d’asino, di bue, di donna menstruata, e tante altre pazzie che troppo longo sarebbe a raccontarle tutte. Qui s’impara di conoscere il corpo de’ sali coi nomi da inspiritato, essendo chiamati Baurach, Borace, Coagulo, Chomerisson, Hyle, pinguedine, elebroth, terra potentiale, vetro, di Faraone, Tincar, materia prima dell’arte. Qui s’impara di conoscer l’argento vivo, principio di questa disciplina, con nomi stranissimi, d’equato, d’azoch, di cor di saturno, d’eufrate, favonio, flegma, mercurio, occidente, bianco d’ova, sperma, onto, e mille altri epiteti insani, e ridiculosi affatto. Qui s’impara di chiamar i metalli purgati, incolumi, sani, remoti, calcinati, separati, disposti, secchi, e con più ascosi enigmi che trovar si possono. Qui s’impara di nominar l’argento perfetto, calcinationee, melancolia, incineratione, nigredine, luna, femina, bue, gallina, Hipostasi, e con tanti attributi lontani, che stupirebbono Diomede, Prisciallo, il Cornucopia, e il Calepino, s’havessero da far questa fatica per nomi tali. Qui s’ impara un’arte da lambicarsi il cervello a trovar tanti coagoli, elettioni, mundationi, mistioni, corruttioni, concottioni, alterationi, sublimationi, augmentationi, diminutioni, diseccationi, infrigitationi, e un rompimento di testa fra boccie, fra lambichi, fra bagni, fra crosoli, fra furnelli, il maggiore e il più grande, che possa al mondo imaginarsi. Qui s’impara un Chaos di faccende da trovare, come sachetti, pezze, camoscie, sedaci, pistoni, mortari, crosoli, soffietti, forcine, moiette, porfidi da mollare, olle di vetro, luti, fornaci, fuochi, craticole, copelle, cadini, carboni e denari sopra il tutto, che sono i primi a uscir di borsa sempre, e gli ultimi a tornare in cassa. E finalmente dopo tante fatiche e sudori, bisogna che ogni Alchimista si stringa nelle spalle, e con un occhio ai crosoli lutati, con l’altro al marsupio voto, dica quelle parole: Infixus sum, infixus sum in limo profundi, et non est substantia. Laonde è soavissima cosa lodar l’Alchimia di Raimondo, e quella d’Arnaldo con quella di Geber ancora, ma non mettersi punto a seguitarla; perché (come dice il proverbio) Paucis est adire ad Corinthum. Hor questo basti de gli Alchimisti de’ tempi nostri».
(5) Si vegga l’eccellente Histoire de la Chimie, par Ferdinand Hoefer, deux, édit. revue et augmenté, Paris, Didot, 1869, 2 voll. – Nell’Hist. des sciences mathem. en Italie di Guglielmo Libri sono solo pochi accenni alla scarsità degli scrittori d’alchimia italiani ne’ vecchi tempi; più ampiamente invece parlò dell’alchimia e dei suoi cultori secondo gliene porgeva l’occasione un codice del sec. XIV, compilato probabilmente da un Fra Domenico del Monastero di S. Procolo in Bologna, Isidoro Carini nel suo discorso Sulle scienze occulte nel medio evo, Palermo, Pedone Lauriel, 1872. – Mi duole di non aver potuto vedere i Poètes alchimiques dell’Ideler, che trovai citati, forse malamente, dal Berthelot nella prefazione alla bella Collection des anciens alchimistes grecs, della quale sono uscite le prime due grosse dispense (Paris, Steinheil, 1887); bel lavoro, ideato già dall’Allacci, in Italia, e dal Borel, in Francia, ognuno dei quali contava appunto di dare in luce un corpo di chimici o alchimisti greci, con la traduzione latina. Così non potei vedere le due opere del Kopp: Geschichte der Chemie, e Die Alchemie in älterer und neuerer Zeit, Heidelberg, 1886).
(6) Della tramutatione metallica, sogni tre di Gio. Battista Nazari, bresciano. In Brescia, Appresso Francesco, et Pier. Maria Marchetti fratelli. MDLXXII. L’elenco sta a pag. 135-144 così nella prima come della seconda edizione (Brescia, 1599); ma nella seconda, per errore di stampa, fu omesso il nome Heliae, si che si ha soltanto F. haec. ecc.
(7) Bibliotheca Chimica seu Catalogus librorum pbilosophorum hermeticorum ecc. Authore Petro Borellio castrensi Medico-Doctore. Parisiis, MDCLIV; e Heidelbergae, 1656. A pag. 107 della seconda edizione.
(8) Ist. d. Volg. poes., Venezia, Baseggio, 1730; voI. Il, p. II, pag. 22-23.
(9) St. e rag. d’ogni poesia, Milano, 1741; vol. Il, p. 156
(10) St. d. lett. it., Modena, 1788; IV, 404.
(11) Theatrum chemicum, praecipuos selectorum auctorum tractatus de Chemiae et lapidis philosophici antiquitate ecc. continens, Argentorati, sumptibus Lazari Zetneri, atque haeredum, MDCXXIII-XXII; 5 vol. in 8° picc. – Il trattato col titolo Nova disputatio de Helia artista theophrasteo, super metallorum transformatione, auctore Heliophilo a Percis Philochemico, sta, preceduto da una lettera dell’autore, a pagg. 241.276 del t. IV.
(12) « Undecimus defectus fratris Helyae fuit, quia infamaltus fuit quod intromitteret se de alchimia. Revera, ubicumque audiebat aliquos fratres esse in ordine, qui in saeculo aliquid de materia illa sive de artifitio illo scivssent, mittebat pro eis et retinebat eos secum in palatio Gregoriano (fecerat enim Papa Gregorius nonus magnum palatium fieri in loco fratrum Minorum de Assisio, tum propter honorem beati Francisci, tum etiam ut ibi habitaret quando veniret Assisium). In illo ergo palatio plures erant camerae et diverticula multa, in quibus Helyas retinebat jam dictos, nec non et alios multos, quod erat quasi Pythonissam consulere» (Cronica fr. Salimbene parmensis, Parmae, MDCCCLVII, pag. 411).
(13) È senza titolo. di c. 121 non num.; contiene: Summa perfectionis magisterii (Geberi); Liber trium aeerborum: Epistola Alexandri Magni: Geberi Liber investigationis magisterii, e le poesie latine e italiane. I trattati vanno dalla c. 1ª (Incipit liber Geber) alla 114ª (Explicit liber Geber foeliciter). Alla 114a e 115b stanno i due componimenti metrici latini (Est fons in limis cuius anguis latet in imis ecc.; Spiritum volantem capite ecc.) che con leggerissime varianti, e aggiunti al primo tre versi, si leggono anche a c. 55 del cod. Ricccardiano 1164, della fine del XV, contenente il trattato De Alchymia dello stesso Geber, al quale il Borel attribuisce appunto il primo dei due componimenti. Seguono i tre sonetti (c. 115b- 116a ) e la canzone (116b – 120b ). l’ultima carta ha nel recto il Registro. v. Hain, Repertorium, sotto Geber.
(14) Del sonetto dell’Ascolano, (anch’egli citato, come frate Elia e Daniele di Capodistria, dai vecchi bibliografi alchimisti, e che dell’alchimia dà alcuni pochi versi anche nell‘Acerba) era stata avvertita l’esistenza dal Cantalamessa (Memorie intorno i Letterati e gli Artisti della città di Ascoli Piceno, Ascoli, tip. di Luigi Cardi, MDCCCXXX, p. 62), ma così alla sfuggita da far dubitare nemmeno egli avesse veduto il libro in cui è contenuto. Così non riuscì a vederlo nella stampa geberiana il Bariola, che dà tuttavia il sonetto, togliendolo a un codice laurenziano (Felice Bariola, Cecco d’Ascoli e l’Acerba: saggio, Firenze, 1879; pp. 57-8). Nulla più dell’accenno del Crescimbeni conosce il Zambrini (Opere volgari a stampa dei sec. XIII e XIV, Bologna, Zanichelli, 1884, col. 385), e solo al dubbio sull’antichità del sonetto, e alla mancanza di codici che lo contengono, accennano nelle loro giunte allo Zambrini, il D’Ancona e il Molteni (Giornale di Filologia romanza, n. 4 p. 86)
(15) Ai tre poeti alchimisti, due se ne possono opporre contrari all’Alchimia: Gonnella degli Interminelli chiedeva in un sonetto a Bonagiunta Urbiciani la ragione
Ond’è che ferro per ferro si lima,
avvertendo nella seconda terzina:
D’ogni arte dell’Alchimia mi diffido;
Bonagiunta risponde, ma l’Interminelli, non soddisfatto, invia un secondo sonetto, al quale Bonagiunta replica:
……………………..
poiché natura dà ciò chè primero,
e poi l’arte lo segue e lo dicima,
ma ha più d’arte chi è più ingegnero,
e meno chi più sente dell’Alchimia.
Onde l’alchimia verace non crido,
perché formata di trasmutamento
di sì falsi color tra le metalla:
Ma s’è ver arte, non s’apprende; fido
che sia peccato contra parimento,
chè non e frutto se non è di talla.
Così nel Valeriani, I, pag. 530-533. – Anche il notaio da Lentini toglieva all”lchimia la materia a un paragone:
Come l’argento vivo fugge ‘l foco
così mi fa del viso lo colore (Val. I, 305)
(16) In 4° piccolo, di pag. 167, precedute e seguite da 8 altre n. n.; con alcune curiose figure, una delle quali ripetuta.
(17) In 4° picc. di pag. 16 n.n. e 231; con le stesse figure.
(18) Il Nazari cita anche ANTONII DE ABBACJA Epistolae duae de lapide philosophorum, e LUDOVICI DE TRIDENTO Rosarium. Se il primo fosse proprio di Abbazia istriana (presso Fiume) o d’altro luogo omonimo, non posso dire, ma solo aggiungere di aver visto ricordato altrove: ANTONII DE ABBATIA, Manuale Chymicum, germanice: extat cum Io. Ticinensis Processu de Lapide Philosophico, Hamb., 1670, in 8°. Nè altro posso dire, riuscita vana ogni ricerca, intorno al secondo, il quale del resto non deve meravigliare chi ricordi come anche il Trentino abbia un tempo partecipato agli entusiasmi alchimistici. Infatti, anche «sopra Ravina o Rovina, dentro a certo seno di monti, detto Margon, trovasi un Palaggio, ossia Castello fabricato già dalla famiglia Bassa, indi passato ne’ conti Fuggeri, che lo ridussero in miglior forma, e, a quel che intendo, vi faceano l’Oro, o disfacevano. Parlano perciò ancor i Vòlù sotteranei, dove si lambicava di fumo à forza d’Alchimia, o si lavorava d’Alchimia a forza d’Oro». Così il MARIANI nel suo Trento con il sacro Concilio, MDCLXXIII pag. 467
(19) Non posso citare che la Nouvelle édit., par M. Meon, Paris, 1814, t.IV.
(20) Se ne hanno varie edizioni. La prima è quella nitidissima procurata dal Lacinio, monaco calabrese, nel 1546, coi tipi manunziani: Pretiosa margarita novel | la de thesauro, ac pretio – | sissimo philosopho – | rum lapide ecc. (assieme ad altri trattati) Aldus | M.D.XLVI. Poi Basileae, 1572, in 4°; Montisbelg 1602 (citiamo queste due edizioni sulla fede del Mazzucchelli); Argentorati, impensis Lazar Zetneri bibliop., M.DC.VIII; e nel Theatrum chemicum. vol V, pp. 567-794; e nel Manget, Bibl. chimica curiosa, t. II. – Ecco per parole con le quali termina, e che la affermano composta a Pola: «Hanc questionem prolixam sic solemniter & exquisite investigatam, ventilatam, disputatam, determinatam & roboratam composuit & ordinavit magister Bonus Ferrariensis Physicus subtilis Anno a nativitate Chiristi 1330, qui tunc erat in Pola salariatus, de provincia Istriae, qua inseruit quod de cognitione speculativa, practica & operatione illius intelligit. Defendendo autem antiquorum authoritate & rationibus inhaerens, & propias sibi adiungens. Rogo autem & aiuvo unosquosque in his intelligente, ad quorum manus pervenerut haec praeciosa Margarita novella, ut communicent ipsam viris intentibus ad hanc questionem & artem exercentibus & naturalibus principiis eruditis; ab insipientibus autem & pueris ipsam occultent, cum sin indigni. Scripsimus prius similem quaestionem in civitate Tragurii in 23 anno, quam casamus propter magnam excellentiam eius». La quale ultima notizia è confermata da un codice estense, il quale contiene appunto questa prima redazione della Margarita, composta per Magistrum Bonumn Ferrariensem Physicum sub MCCCXXIII anuo salariatum in civitate Traguriae de provincia Dalmatiae secondo riferisce il Tiraboschi (Storia dei lett. It.., Modena. 1794. V, 124-6), il quale nel resto confonde, come il Mazzucchelli (Scrittori d’ltalia, II, III. 1637) e gli eruditi ferraresi da questo citati, il Buono del 1330 con un medico Pietro Antonio che viveva nel 1494, o con altro Buoni, professore nello studio ferrarese nella seconda metà del sec. XVI. Il Lacinio, che del resto rimaneggia a modo suo la Margarita, anzichè il 1330, dà il 1338 come anno della compilazione di essa.
Un altro ricordo alchimistico è legato a Pola, chè ad un suo vescovo, Altobello Averoldo, fu dedicato il trattato: Voarchadumia Contra Alchemiam ars distijncta ab Archemiam et Sophia, cum additionibus, cum additionihus, proportionibus, numeris & figuris opportunis JOANNIS AUGUSTUINI PANTHEI Veneti sacerdotis, il quale lo compose, parrebbe, per salvare in certo modo l’alchimia e renderla ancora possibile, cambiandole nome e teoria, dopochè il consiglio dei X l’ebbe nel 1488 proibita. Precede un pistolotto glorificatorio al doge Andrea Gritti, sotto la cui protezione il Panteo mette sè e l’operetta; segue la lunga lettera: (Reverendissimo in Cristo D. D. Altobello Averoldo, Dei et Apostolicae Sedis gratia Episcopo Polen. Sanctissimique D. N. Papae reven. Ac per totam dictionem Venetam, cum potestate Legati Cardinalis de latere, legato digniss., Johannes Augustinus Pantheus Venetus sacerdos, perennem salutem) nella quale l’Averoldo è detto fra l’altro Omnibus muysticae philosophiae candidatis patronus. La Voarchadumia, che è però sempre l’alchimia, è riprodotta nel Theatrum chemicum (vol. II, pagg. 533-599), preceduta da un altro trattato (Ars transmutationis metallicae) dello stesso Panteo, già stampato a Venezia, per il Tacuino, nel 1518.
Ancora il nome di un altro istriano si può ricordare: quello di Francesco Patrizio, in quanto si occupò di Ermete Trismegisto, cui gli alchimisti attribuivano l’invenzione dell’arte loro. Il Patrizio non parla però di Ermete come alchimista, ma come filosofo, dimostrandone l’esistenza, dichiarandone la vita e le opere, e pubblicandone alcuni trattatelli filosofici nel curioso libretto che ha per titolo: Magia Philosophica, hoc est Francisci Patritii summi philosophi Zoroaster & cius 320 oracula chaldaria, Asclepii Dialogus & Philosophia Magna Hermetis Trismegisti: Poemander. Sermo Sacer. Cvlavis. Sermo ad Filium. Sermo ad Asclepium. Minerva mundi & alia Miscellanea. Jam Nunc primum ex bibliotheca Ranzoviana e tenebris eruta & latine reddita. Amburgi, anno 1593, in 8° picc., di c. 253.