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© Massimo Marra – tutti i diritti riservati – Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo senza il consenso scritto dell’autore.

Versione emendata ed ampliata di un articolo apparso in prima publicazione in Anthropos & Iatria anno VII n° III, Luglio \ Settembre 2003, pp. 24 – 35 col titolo Gli amandti delle Silfidi: gli spiriti elementari di Paracelso, dell’abate Montfaucon de Villars e del medico ed avventuriero Borri.

Testo originale anche reperibile on-line su Airesis.

Paracelso


La figura gigantesca e potente di Paracelso (1494-1541), attraversa il rinascimento con la forza di un uragano. Mescolando alchimia, magia, medicina colta, tradizione filosofica e tradizione folklorica, l’immensa opera paracelsana crea una miniera, un bazar culturale sconfinato e rivoluzionario, di cui ancor oggi non sono ben chiari i confini. L’opera di revisione e ridiscussione delle concezioni scolastiche operata da Filippus Aureolus Theofrastus Bombastus von Hohneheim, travalicando l’opera del medico, alchimista e mago, sconfina nell’etica, nella politica, nella teologia, nella mistica, con il linguaggio provocatorio e vibrante del visionario, del folle, del profetico arringatore degli spenti rappresentanti di una cultura ufficiale che egli vive come asfittica e morente.
Il piccolo popolo degli elementi, il mondo dei salamandri, degli gnomi, degli ondini e dei silfidi, proveniente, in varie forme e coloriture, dalla cultura e dal folklore dei popoli centroeuropei, fa il suo primo ingresso nella letteratura magica proprio nell’opera di Paracelso.
Il De Nymphis, Sylphis, Pygmaeis et Salamandris et coeteris spiritibus (1), è stato più volte ristampato nelle opere del medico-mago, spesso mescolato o in appendice ai trattati filosofici e scientifici.
È questa la prima fonte in cui incontriamo, nella storia letteraria occidentale, il nascosto popolo degli elementi. Vediamo in dettaglio cosa ce ne dice Paracelso.
«Mi propongo d’intrattenervi sulle quattro specie d’esseri di natura spirituale, cioè le Ninfe, i Pigmei, i Silfi e le Salamandre (2); a queste quattro specie, per la verità, bisognerebbe aggiungere i Giganti e parecchie altre. Questi esseri, benché abbiano apparenza umana, non discendono affatto da Adamo; hanno un’origine del tutto differente da quella degli uomini e da quella degli animali… Però si accoppiano con l’uomo, e da questa unione nascono individui di razza umana».
Nella visione paracelsiana vi sono due nature: una è quella umana, spessa, palpabile e sensibile, mortale, l’altra quella spirituale, impercettibile, eterna. Tra queste due vi è la natura intermedia, partecipe delle altre due, che, in un assottiglimento progressivo fino all’invisibile, sembra collegare i diversi piani della creazione divina. « Quest’ultima natura partecipa di quella dell’uomo e di quella dello spirito, senza diventare natura né di questo né di quella: infatti gli esseri che appartengono ad essa non potrebbero essere classificati con gli uomini, perché volano alla maniera degli spiriti; ma neppure potrebbero essere classificati con gli spiriti, perché evacuano, bevono, hanno carne ed ossa alla maniera degli uomini. L’uomo ha un’anima, lo spirito non ne ha bisogno; le creature in questione non hanno affatto un’anima e tuttavia non sono simili agli spiriti: questi non muoiono, quelli muoiono. Queste creature che muoiono e non hanno un’anima, sono dunque animali? Esse sono più che animali: infatti parlano e ridono, cosa che questi non fanno. Di conseguenza, si avvicinano più agli uomini che agli animali. Però, esse si avvicinano agli uomini senza divenire tali…
Si può anche dire che sono superiori agli uomini, perché sono inafferrabili come gli spiriti; però bisogna aggiungere che il Cristo, nato e morto per riscattare gli esseri dotati di anima e discendenti da Adamo, non ha riscattato queste creature che non hanno un’anima e non discendono da lui.
Nessuno deve stupirsi o dubitare della loro esistenza. Si deve solo ammirare la varietà che Dio mette nelle sue opere. Per la verità di questi esseri non se ne vedono ogni giorno, ed, anzi, non se ne vedono che raramente. Io stesso non li ho visti che in una specie di sogno….
Esse sono prudenti, ricche, sagge, povere, folli come siamo noi. Sono l’immagine rozza dell’uomo come l’uomo è l’immagine rozza di Dio….
Questi esseri non temono né il fuoco né l’acqua. Sono soggetti alle malattie ed alle indisposizioni umane. Muoiono da bestie e la loro carne va in putrefazione come quella animale.
Virtuosi o viziosi, puri o impuri, migliori o peggiori, come gli uomini, essi ne hanno le abitudini, i gesti, il linguaggio; come loro differiscono per la taglia e l’aspetto, vivono sotto una legge comune, lavorano con le loro mani, tessono i loro abiti (3), si governano con saggezza e giustizia, danno prova di raziocinio in tutto… E poiché sono privi di anima non pensano a servire Dio né a seguire i suoi comandamenti; soltanto l’istinto li spinge a comportarsi onestamente. ».
Dotati di organizzazione sociale e di naturale orizzonte etico, i diversi popoli vivono naturalmente nel proprio elemento di pertinenza, in un infallibile equilibrio cosmico. Gli ondini, vivono nell’acqua, i salamandri nel fuoco, gli gnomi nella terra e i Silfidi nell’aria. Così come noi possiamo meravigliarci di pensare agli ondini che vivono nell’acqua, o agli gnomi che vivono nella terra, così essi si sorprendono nel guardare noi, le nostre abitudini ed i nostri costumi. L’armonia perfetta di ogni popolo con il suo Caos, fa si che queste creature possano, nell’ambito del proprio elemento, muoversi senza difficoltà alcuna. Anche gli gnomi, che vivono nella terra, e che dunque, risiedono in un caos spesso, essendo sottili, la attraversano senza alcuna difficoltà. Gli uomini, al contrario, che vivono in un caos sottile, come è l’aria, sono assai più spessi. È evidente che il caos delle diverse specie, confina con quello delle altre. Così gli Gnomi, che hanno come caos la terra, avranno sotto di sé la terra, e sopra l’acqua. Gli ondini hanno sopra di sé la terra e sotto il cielo. E così via.
Le specie elementali possono vivere senza difficoltà nel caos dell’uomo, poiché esse sono di natura sottile. L’uomo, di natura troppo spessa, non potrebbe sopravvivere in elementi anch’essi spessi come l’acqua e la terra.
Ognuna delle specie ha un proprio firmamento:
«Gli Gnomi vedono il sole, la luna e le stelle attraverso la terra, parimenti, le Ondine scorgono il sole attraverso l’acqua, le Salamandre lo vedono fecondare e riscaldare il loro caos, e riportare l’estate, l’inverno, il giorno, la notte…».
La specie più simile all’uomo – e, a partire dalle affermazioni di Paracelso, si direbbe, la più rozza – è quella dei Silfidi, che condivide lo stesso caos della razza umana, l’aria.
L’apparente somiglianza con l’umanità, tuttavia, non tragga in inganno sull’apparenza prodigiosa e straordinaria di queste diverse specie di esseri. Infatti, in genere, gli gnomi e i salamandri sono scambiati per spiriti, poiché appaiono in una forma brillante e splendente. Essi sono tenui ed agili come gli spiriti incorporei. Il loro sangue e la loro carne sono di sostanza luminosa. Per Paracelso, le fiammelle che alle volte si vedono danzare di notte sui campi, sono proprio gnomi, e non fantasmi e spiriti vaganti, come pensa il volgo.
Gli Ondini spesso, lasciano il loro elemento per contattare l’uomo, parlargli ed unirsi carnalmente a lui. Essi condividono lo stesso linguaggio con gli Gnomi, i quali a loro volta, talvolta contattano l’uomo, ma si contentano di servirlo, e, se l’uomo si comporta con loro onestamente e se mantiene le promesse fatte, non esitano a coprirlo dei tesori e delle ricchezze di cui essi sono custodi nelle viscere della terra. Ma la ricchezza dispensata dagli gnomi deve essere sperperata, non tesaurizzata, o le piccole entità cesseranno la dispensazione dei loro preziosi favori.
I silfidi, che non conoscono il nostro linguaggio, sono il popolo più timido. I Salamandri parlano poco, frequentano poco l’uomo e preferiscono le vecchie e le fattucchiere. Chi salisse sul monte Etna, potrebbe facilmente sentire le grida ed i rumori delle loro attività, l’inquieta operosità che agita il loro elemento. Possono essere infidi, e, talvolta, ricettacoli del Maligno. Questi, infatti, alle volte penetra nel corpo di gnomi e silfidi, specie delle femmine, inducendo parti abortivi e provocando nascite di bimbi malati.
Gnomi ed ondine servono bene l’uomo, e volentieri entrano in contatto con lui, ma se maltrattati in vicinanza del loro elemento, spariscono prontamente. Lontano dal loro elemento, invece, subiscono anche i maltrattamenti che l’uomo può voler infliggere loro.
Ma per quale ragione, talvolta, questi esseri nascosti si palesano all’uomo, cosa li spinge ad entrare in relazione con i figli di Adamo? Per qual ragione, soprattutto, essi ricercano l’amore dell’uomo? Paracelso continua:
«Abbiamo detto che questi esseri potrebbero avere rapporti carnali con gli uomini ed averne dei figli. Questi figli sono di razza umana, perché il padre, essendo uomo e discendente di Adamo, dà loro un’anima che li rende somiglianti a lui, e sono eterni. Io credo che la femmina che riceve quest’anima con il seme sia, come la donna, riscattata dal Cristo. Noi non perveniamo al regno divino se non quando comunichiamo con Dio. Similmente, questa donna non acquista un’anima fino a quando non conosce un uomo. Infatti, chi è superiore comunica la sua virtù a chi è inferiore. Ecco, quindi, un’altra ragione dell’apparizione di questi esseri; essi chiedono il nostro amore per elevarsi, come i pagani chiedono il battesimo per acquisire un’anima e rinascere con il Cristo.».
Ma il rapporto con le ondine non è privo di rischi. Se tradite senza permesso, esse ricompaiono all’improvviso ed uccidono senza pietà l’amante umano infedele. Inoltre, il legame che instaurano con i loro amanti è talmente profondo e forte, che il loro destino si riflette prontamente su quello dell’amante. Se esse soffocano o patiscono, anche il loro sposo soffocherà e patirà. Se esse muoiono, anche lo sposo morirà. Il legame si scioglie solo con il consenso unanime delle due parti.
Gli elementali di Paracelso, emersi dalle nebbie del folklore e dignificati da considerazioni e rivelazioni al confine tra filosofia ed immaginazione pura, dispersi nella vasta e variegata produzione attribuita al grande mago rinascimentale, non sembreranno riscuotere rilevante attenzione per ancora un po’ di tempo. Bisognerà attendere, più di un secolo dopo, l’immaginazione e la brillante sornioneria di un travagliato sacerdote francese, perché salamandri, gnomi, silfidi e ondini ritornino alla ribalta, divenendo un fenomeno culturale di cui troviamo tracce anche nella successiva letteratura europea.
L’abate Nicholas Henry Montfaucon de Villars, fu, stando alle testimonianze pervenute in nostro possesso, se non uno degli spiriti più alti, ascetici e filosofici dei suoi giorni, senz’altro uno dei più divertenti e brillanti. Pur circondata da un alone di dissolutezza e disordine, la breve vita di questo strano personaggio, così come ci è pervenuta negli scorci biografici offertici dai suoi contemporanei, è tutt’altro che monotona e prevedibile.
Nicholas sembra, anzi, far di tutto perché ogni previsione sul suo conto naufraghi miseramente.
Discendente di un antico e nobile casato, che non ha mancato di offrire nomi illustri alla storia di Francia, nato nel 1635 nei possedimenti di famiglia, nei dintorni di Tolosa, la vita di De Villars sembra da subito felicemente preordinata ad una serena e soddisfacente riuscita.
Frequenta il seminario, e poi si addottora con profitto in teologia alla facoltà di Tolosa, città in cui, tra parentesi, inizia con successo la sua attività pastorale di sacerdozio e predicazione.
Ben presto, intorno al 1667, egli si trasferisce a Parigi, dove ha in animo di portare a profitto le sue doti di uomo di cultura e di studi nel sacerdozio. Sfortunatamente però, la cultura e l’intelligenza vivida di De Villars, si fondono ad un carattere di incostanza, frivolezza, mondanità. Il successo mondano negli ambienti nobili e non della società parigina, mal si concilia con la vocazione e l’abito sacerdotale. Il giovane prelato si trova così alle prese con dei superiori poco inclini alla benevolenza nei confronti di un ecclesiastico che gira per i salotti frivoli, ed al riguardo della cui condotta morale circola già più di un pettegolezzo. La vita dissipata, il gusto per la critica ardita e per la letteratura frivola e romanzesca, l’immaginazione ardita, l’imprudenza e l’irruenza, sorrette da un temperamento brillante che lo porta di sovente al centro dell’attenzione della vita parigina, sono tutte caratteristiche – o se si preferisce, dato il ruolo sacerdotale, limiti – che portano comunque il Villars ad applicare i propri mezzi intellettuali e culturali al servizio di cause e produzioni non sempre consone alla gravità ed alla serietà dell’impegno religioso.
Così nel 1670 egli debutta col suo primo e più fortunato romanzo, Le Comte de Gabalis, ou entretiens sur les sciences secrètes (4). Il testo, piacevole ed arguto, non manca di assicurare pronta ed ulteriore fama all’autore. Per dirla con il compilatore della voce dedicata al nostro Villars nella Biographie Universelle di Michaud «…nulla di più amabile che il carattere dato dall’abate de Villars a questo naïf ma sapiente e spirituale apostolo della magia. La parte che lo stesso autore sostiene nella conversazione è sul tono di un’ironia talmente fine che dopo avere letto il libro molta gente non sa se egli abbia voluto celiare o se abbia invece parlato seriamente … » (5).
In realtà de Villars, nel descrivere i suoi elementali, non fa che saccheggiare a piene mani il trattato paracelsano. Le creature descritte nel Conte sono né più, né meno di quelle che l’arguto sacerdote ha avuto la possibilità di leggere nell’opera del grande medico-mago. Nell’entusiasmo del successo dell’opera, però, nessuno sembra accorgersi del prestito, e la cabala (6)del Conte appare la genuina ed originale satira di dottrine segrete e di credenze inedite.
Pure, la fama dell’opera nuoce a quella dell’autore. Come annota in seguito il compilatore della Biographie Universelle:

«…I credenti zelanti gli erano avversi poiché si era burlato di loro ed aveva parlato con irriverenza del terribile impero degli gnomi, dei silfidi e dei salamandri. Gli spiriti gravi pensavano che egli avrebbe dovuto refutare seriamente la cabala, i cui errori attaccavano le basi stesse della fede. Essi non perdonavano ad un ecclesiastico qualche gaiezza un po’ vivace sugli amori di silfidi e di demoni incubi con i saggi e con i santi: sulle disavventure di Noé reso eunuco da suo figlio Cham “… mentre che il buon vegliardo era preso dal vino…”. Infine i devoti scusavano ancor di meno qualche tratto assai piccante contro i monaci e i dottori togati, senza parlare di due o tre passaggi che suonavano molto male, in odor di deismo, come le parole a proposito del giansenismo: “noi non sappiamo cos’è, e disdegniamo di informarci in cosa consistano le sette differenti e le diverse religioni di cui si infatuano gli ignoranti: noi ci atteniamo all’antica religione dei nostri padri filosofi…” ».

L’incontro tra Gabalì ed il misterioso interlocutore in un’incisione tratta dall’edizione del 1788 del Comte de Gabalis curata dall’editore Charles-Georges-Thomas Garnier nell’ambito della raccolta Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1888.


Come si vede il Villars fu assai abile nel confezionare un prodotto che dispiacesse ad una quantità di categoria diverse e potenti, tutte in grado di screditarlo presso l’attenta autorità religiosa. Così, non ci si stupirà nel sapere che di lì a breve, il libro venne messo all’indice, ed il Villars stesso fu interdetto dalla predicazione. Questo, tuttavia, non sembra minimamente frenare l’attività letteraria del giovane scrittore (7).
Ma se l’attività letteraria e filosofica, stando al rapido succedersi delle date di pubblicazione ed al volume degli scritti del Villars, farebbe pensare ad una attività intellettuale se non sostenuta, almeno abbastanza intensa, e tale da non lasciare all’autore spazio per altre gravi preoccupazioni, nel seguire gli sviluppi della biografia dell’abate, non si può fare a meno di rimanere ulteriormente stupiti.
Nel suo soggiorno parigino Nicholas, infatti, si era già distinto agli occhi della polizia per la sua vicinanza ad ambienti di giovani irrequieti, dediti allo sbeffeggio del potere regale attraverso la composizione e distribuzione di libelli contro il re e lo stato. Il giovane ha già subito un arresto ed ha già scontato qualche mese alla Bastiglia nel 1661, ma tutto ciò appare davvero poca cosa se si tiene conto che, a pochi mesi di distanza, i magistrati di Tolosa emettono un mandato di cattura per il brillante abate delle serate parigine, con un’infamante accusa di omicidio (8).
Le eccellenti coperture che consentirono al Villars di sottrarsi all’arresto e di continuare, paradossalmente, la sua vita pubblica di intellettuale e polemista, non poterono però difenderlo da nemici meno prevedibili e controllabili della regia magistratura.
Nel 1673, lungo la strada per Lione, ad appena 38 anni, Montafaucon de Villars viene assassinato da ignoti. Forse briganti, forse conseguenze nefaste e vendette dell’affaire de Ferroul, forse altre inimicizie procurate nei movimentati anni di soggiorno parigino. Il delitto rimarrà impunito, e qualcuno, inevitabilmente, non mancherà di ipotizzare, tra il serio ed il faceto, che forse il buon de Villars aveva incontrato lungo quella solitaria strada, quei popoli elementari in collera per il suo scritto, o i misteriosi adepti della Rosa-Croce decisi a punirlo per aver divulgato i loro segreti….
Ma la fortuna del Conte di Gabalì e dei popoli elementari descritti nei suoi dialoghi, sopravvivrà alla morte dell’autore.

Ancora un’incisione tratta dal vol XXXIV di Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1888,
ad illustrazione di Les Ondines di Madame Robert.


Per avvicinarci alla struttura ed alla trama del libro, leggiamo cosa ne dice il prefattore dell’edizione del 1788 (9), l’editore Charles-Georges-Thomas Garnier:
«… La favola del romanzo del Conte di Gabalì è semplice: si suppone che un famoso adepto che si chiama Conte di Gabalì, venga a trovare l’autore dall’interno della Germania, dove era abitualmente residente; egli crede di aver scoperto nell’autore delle disposizioni naturali ai grandi misteri della cabala, e questa scoperta determina il nostro cabalista, non solo a fare un lungo viaggio per venire a trovare questo nuovo saggio, ma a sviluppare nel neofita le conoscenze di questa scienza sublime e segreta fin nei suoi più intimi dettagli. Con questo presupposti, il conte di Gabalì ha cinque conversazioni con l’autore, in cui spaccia al suo interlocutore, con un tono dogmatico e sentenzioso, delle vere e proprie stravaganze. Talvolta la testa del cabalista si scalda, e delle vivide apostrofe alla divinità ed agli spiriti elementari provano un’immaginazione esaltata con barlumi di ragione e di fondata filosofia che appaiono di tanto in tanto, provano che il visionario aveva originariamente un buono spirito, che si è lasciato sedurre e guastare dall’amore disordinato per il meraviglioso…».
La cabala del Conte, consiste essenzialmente nell’entrata in relazione con le creature invisibili che popolano ed affollano gli elementi, gli elementali, i quattro popoli degli Gnomi, degli Ondini, dei Silfidi e dei Salamandri. Di questi popoli e delle loro meraviglie, che poi, come già detto, sono essenzialmente prelevate dal trattato paracelsano, ma di cui nel racconto di Villars apprendiamo altre ed inedite precisazioni e notizie, vediamo cosa emerge dal commento riassuntivo di un altro commentatore:
«… È a Rueil, nel labirinto che Villars apprende da Gabalì i segreti dei geni cabalistici; fino ad allora egli aveva ignorato che l’aria “ha degli abitanti ben più nobili degli uccelli e dei moscerini”, e che i mari “ben altri ospiti che i delfini e le balene”; che “le profondità della terra non sono solo per le talpe” e che il fuoco, il più nobile degli elementi, non è fatto “per restare inutile e vuoto”. Gli spiriti dell’aria, o Silfidi, sono “di figura umana”, “assai amanti delle scienze”, “nemici degli sciocchi e degli ignoranti”. Le Silfidi, loro donne e figlie, hanno la “bellezza mascolina” delle amazzoni. Nei mari e nei fiumi abitano gli Ondini, di molto inferiori per numero e grazia alle loro compagne, le Ondine. Nelle viscere della terra “verso il centro”, vivono gli “Gnomi, gente di piccola statura, guardiani di tesori, miniere e pietre preziose”; essi hanno per spose le Gnome, il cui “abbigliamento è assai curioso”. Gli “abitanti infiammati della regione del fuoco” sono i Salamandri; li si vede raramente, e le loro mogli e figlie più raramente ancora; ma i pittori e gli scultori che rappresentano le salamandre come “laide bestie” sono degli “ignoranti”.
Tutti questi popoli elementari possono morire, come “le parti più pure dell’elemento che abitano” può dissolversi; ma frequentando la razza umana, essi possono acquisire l’immortalità. Essi sono, dice Gabalì, nemici dei diavoli e dei folletti, ed adoratori dell'”Essere Supremo”. Erano loro, secondo lo stesso interprete dei “Saggi”, “i Silfidi, i Salamandri, gli Gnomi o gli Ondini”, che rendevano gli oracoli a Delfi ed a Dodona.» (10).
Attraverso il commercio carnale con uomini e donne, nella più pura tradizione paracelsana, le entità elementari, acquistano l’immortalità, e per questo fine ben volentieri si sottomettono al volere dei sapienti e li aiutano nel loro fine. La costruzione immaginifica del Villars, coglie un’atmosfera propizia. La Francia di Luigi XIV parla dei misteriosi fratelli della Rosa-Croce, dei loro misteri e delle loro dottrine segrete. Sulle queste, in particolare, si favoleggiano le cose più diverse. L’alchimia e l’astrologia sono al centro degli interessi delle accademie culturali, ed anche dei più frivoli salotti di corte (11) .
Immediatamente il tono satirico ma l’accuratezza di riferimenti e la competenza del Villars, inducono all’equivoco. Si tratta di arguta satira ai fautori delle scienze segrete, o piuttosto, sotto la maschera della satira, si nasconde un cultore e volgarizzatore della cabala magica e delle sue dottrine più segrete? Villars, alla fine del libro, non manca di ricusare ogni sospetto in merito ad una sua presunta condivisione delle idee magiche esposte nel libro. Ma una mossa del genere, prevedibilmente, non fa che accrescere i sospetti in questione, ed il Villars, per molti, è un seguace delle stesse dottrine che nel libro egli mette in ridicolo (12).
Tuttavia, qualunque sia il più intimo pensiero dell’autore in merito, fatto sta che gli elementali di Montfaucon danno luogo ad imitazioni ed ispirazioni letterarie molteplici. Ce ne parla il Delaporte (13), con una rapida elencazione che forse, per render conto delle dimensioni dell’impatto del Conte nell’ambito letterario francese del XVII e XVIII secolo, conviene riportare nei suoi passi salienti:
« …Le Génies assistans, imitazione miserevole del Gabalì (14). Questi geni sono “degli angeli, ed angeli potenti” che “si pongono a nostri assidui direttori e vigilanti nell’ordine naturale e nella Politica”, grazie ai quali si riesce “nella guerra, nei negozi e nelle arti”. L’autore cita una moltitudine di fatti bizzarri, attribuiti da lui a questi geni che rassomigliano abbastanza al demone di Socrate ed ai folletti del Mogol….
… Le Gnome irreconciliable. Questo opuscolo contiene un trattato abbastanza strano sull’anima umana; uno gnomo vi profferisce una sequela di proposizioni poco ortodosse, ed il tutto viene poi interrotto dall’arrivo di “un inviato dai Saggi della Cina”; vale a dire da un Silfide che si è fatto partire “… da Tonchino”, e che “ivi deve rientrare in pochi minuti”. (15) ….
… Nel 1681, Thomas Corneille e de Visé provarono ad introdurre questi geni degli elementi sulla scena comica. L’argomento impresso alla loro commedia, in prosa, la Pierre Philosophale, riporta infatti tra i personaggi i popoli dei quattro elementi…anche il conte di Gabalì vi giocava il suo ruolo…
Alle soglie del XVIII secolo, grazie probabilmente ad un generale ritorno alle fiabe, i geni dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco riappaiono nelle pagine letterarie. Uno dei racconti più curiosi che conosciamo è del certosino che si firma Vigneul de Marville. E’ il racconto di una serata presso il cartesiano Rohault. Lì, di fronte a Rohault, di Clerselier, suo padrino, e di Pecquet, altro amico di Descartes, un personaggio che Vigneul de Marville non nomina, “rallegra la compagnia” spiegando come, attraverso i meravigliosi elementali, le bestie sono mosse come automi. Vi sono, dice, i piccoli popoli degli elementi che “fanno funzionare tutte queste macchine… secondo le regole della meccanica”. Perché le volgari salamandre non si bruciano nel bel mezzo del fuoco di un braciere? È perché lo spirito del fuoco “fa funzionare” molto delicatamente “la macchina della salamandra”. I Silfidi, allo stesso modo, animano e muovono gli uccelli, ma ciascuno secondo il suo carattere e seguendo la disposizione degli organi, la diversa configurazione delle specie volatili: “Un silfide meditabondo si alloggerà nella macchina di un gufo, di un barbagianni o d”una civetta: al contrario un silfide di umore gaio e che ami cantare canzoncine, si insinua in un usignolo, in una capinera o in un canarino”.
Lo stesso per gli spiriti acquatici: “Un ondino che si compiace di nuotare nelle grandi acque, non manca di alloggiarsi in una balena e di condurla per tutto l’oceano. Un altro che ami fare prodigi e conseguire grandi risultati attraverso piccoli mezzi, si piazzerà in una remora, il più piccolo di tutti i pesci, che è però in grado di fermare un Galeone, che è il più grande di tutti i vascelli”. Gli ondini di umor dolce abitano nei laghi e nei fiumi….
…E gli gnomi? “Uno gnomo fiero si impadronisce di un corsiero di Napoli o un cavallo di Spagna”; uno gnomo crudele alloggerà una tigre o un leone; “uno burlone e faceto in una scimmia o un gorilla”. Vi sono dei nani più sottili e più abili tra gli gnomi; costoro fanno muovere “la macchina di una formica, di una tarma, di un acaro”. I loro fratelli che risiedono nei corpi delle “bestie più grandi”, sono gelosi di questi microscopici motori; da ciò vengono le guerre tra gli insetti e gli animali superiori…»
Confessiamo, nel leggere il commento riassuntivo del Delaporte per lo scritto del Vigneul de Marville, uno sbarazzino desiderio di leggere uno scherzo letterario tanto gustoso, che ripropone provocatoriamente al meccanicismo cartesiano l’armamentario mitico e folklorico degli spiritelli elementari, applicato alla tanto discussa questione dell’anima delle bestie. Purtroppo non siamo riusciti a reperirlo. Comunque la rassegna del Delaporte non si ferma certo qui. Gli spiritelli elementali fanno capolino ne Les blue devils di Alfred de Vigny, nei Contes de Fées e nei Noveaux contes de Fées di Madame de Murat.
Ed ancora: «Hamilton adorna i suoi racconti di questo piccolo mondo invisibile. Il “piccolo gnomo” Poinçon è uno degli attori principali del suo Bélier. …La Motte fu probabilmente il solo poeta che ospita nelle sue rime questi geni, immagini diafane dell'”umano animale”….».
L’elenco di Delaporte si conclude con il Rape of the lock, il poema di Alexander Pope che, non a caso, in traduzione italiana fu allegato dal Principe de Sangro all’edizione italiana del Conte di Gabalì. Ma il XVIII secolo conosce almeno uno scrittore che sembra sfuggito all’attenzione del Delaporte (16), ovvero il marchese D’Argens, uomo dalla vita avventurosa e dalle vicende complesse, che meriterebbe almeno, se lo spazio ce lo consentisse, altrettanta attenzione di quella che abbiamo dedicato al Montfaucon de Villars (17). Anche nelle sue Lettres cabalistiques (1769), che pure ebbero discreta diffusione e successo, gnomi, ondini, silfidi e salamandre, sono protagonisti di primo piano. Il d’Argens, infatti, intreccia le trame delle sue lettere proprio intorno a maneggi di gnomi, silfidi e salamandre. Le creature elementali, con i loro peculiari poteri, tuttavia, non costituiscono che lo spunto, il pretesto per sbeffeggiare l’ambizione sfrenata, la cupidigia, l’avarizia, la meschinità d’animo, l’egoismo e, in una parola, i vizi, della società umana. Sotto la satireggiante ed irriverente penna del D’Argens, tutti mostrano la propria mediocrità, nobili, cavalieri, principi, prelati (specie gesuiti), papi, filosofi. E la narrazione diviene, nel contempo, spunto per feroci critiche politiche, e rivisitazioni storiche, naturalmente rivolte soprattutto alla storia recente della Francia. Gli autorevoli elementali, di cui l’autore presenta i carteggi epistolari, discorrono amabilmente, ma anche ferocemente, delle materie politiche, non esimendosi dal lanciare talvolta accuse precise e circostanziate, rispondendo ai contraddittori di potenti del recente passato. Mettendo alla berlina i personaggi in vista ed i loro lacché, D’Argens fa attaccare ai suoi sinceri e giusti elementali, istituzioni e potentati a lui invisi. Ed il lettore apprende così che, nelle più oscure dimore sotterraneee degli gnomi, dimorano folle di anime disincarnate di prelati, condannate ad espiare le colpe e le dissolutezze accumulate in vita. Perfino il demonio Astharot, anch’egli protagonista del carteggio, ed in corrispondenza con il cabalista Abukibak, offre ad D’Argens l’occasione irripetibile per piazzare direttamente all’inferno qualche nome noto (tra cui Spinoza). Dagli ondini apprendiamo che nel fondo dell’oceano sono condanate le anime dei filosofi di Port-Royal, che sono peraltro costrette, per decreto divino, a bere diciotto coppe al giorno di the elementare, un liquido potentissimo di cui gli ondini stessi consumano a malapena due coppe la settimana, talmente freddo da temperare “l’ardore smodato di questi bibliosi teologi…”. Il the elementare, del resto, per il D’Argens, è una condanna cui debbono sottoporsi diversi filosofi, apparteneneti alle correnti più disparate, e perfino qualche santo, secondo i corrispondenti imprudentemente e frettolosamente santificato dai papi, ma prontamente condannato dalla divina provvidenza. Insomma, nessuno è riparmiato dalla penna del D’Argens, che usa la moda letteraria ormai consolidata degli elementari del Conte di Gabalì, per i suoi strali satirici e per le sue critiche della politica, della cultura e della società del tempo.

Ma la eco più importante degli elementari del Villars, quella proveniente da un nome, in quegli anni, di risonanza europea, proviene dall’Italia, da un personaggio la cui vita avventurosa ed il cui nebuloso profilo, sembra far impallidire perfino quello agitato ed irrequieto dell’abate francese.

Il signor Nicholas Lefevre, alchimista e chimico reale, dimostratore di chimica presso il Giardino Botanico di Luigi VIV, a Parigi, poi chiamato da Carlo II d’Inghilterra a dirigere i reali laboratori di Saint.-James, membro illustre della Royal Society di Londra, nel quarto tomo del suo Cours de chymie, pour servir d’introduction à cette science, [Paris, chez Jean Noel Leloup, 1702 (18)], nel trattare diffusamente diversi tipi di acque, dopo aver parlato della rugiada di Maggio e delle sue proprietà, intrattiene il lettore sull’acqua piovana. Ecco cosa ce ne dice l’illustre uomo di scienza: «L’acqua piovana, soprattutto quella del mese di Marzo, reclama qui il suo giusto posto. Essa è pregna di virtù femminili, tanto delle piante che degli altri corpi terrestri: è fortificata dal sale volatile che esala dai corpi terrestri…..Qualcuno ha anche preteso che fosse un mestruo universale, ed il famoso cavaliere Borri si è spinto tanto lontano che ne ha voluto fare ingrediente della Pietra Filosofale, sostenendo che essa contiene in sé tutta la sostanza degli astri, e che è carica dello spirito universale del mondo, o mercurio dei Filosofi. Ma quest’artista non è riuscito, poiché i più abili filosofi convengono sul fatto che non occorre un mestruo universale, ma piuttosto un mestruo salino per risolvere l’oro e trarne il germe o semenza…».

Non ci occorre, in questa sede, mettere a confronto le opinioni riportate dall’illustre maestro, contemporaneo e collega di Boyle, quanto piuttosto interrogarci sul quel famoso cavaliere Borri, l’artista di cui viene riferita la rilevante opinione, figura che, pur notissima ai suoi contemporanei, ci lascia oggi moltissimi dubbi, e, soprattutto, pochi scritti scientifici di certa attribuzione, comunque poca cosa per legittimare una tal notorietà europea. Sembra quasi che la storia letteraria degli gnomi e dei popoli elementari, si sviluppi interamente nelle produzioni di avventurieri e personaggi dalla storia complessa e travagliata.

Nel caso del Borri, è praticamente impossibile sintetizzare un percorso biografico che renda giustizia della travagliata ed in gran parte ancora indecifrabile esistenza di questo eretico ed alchimista errante. Proviamo tuttavia a dare comunque qualche notizia sintetica, che ci aiuti ad inquadrare lo scrittore Borri e la sua vicenda. Ciò ci sarà soprattutto utile e definire l’immaginario creatosi intorno a questo complesso personaggio, un immaginario in cui si va ad inserire un plagio apocrifo che, pur essendo del tutto estraneo alla penna del Borri, contribuirà non poco alla successiva costruzione del suo mito.

Giuseppe Francesco Borri nasce a Milano nel 1630, figlio di una Savinia Morosini, che muore di parto dandolo alla luce, e di Branda Borri, noto e valente medico milanese.

Difficile e controversa figura di alchimista, medico e profeta messianico, il Borri, dopo una turbolenta formazione giovanile in quel seminario romano in cui aveva insegnato il grande gesuita, neopitagorico e cabalista Athanasius Kircher, inizia, parallelamente ad una fortunata carriera di medico e di studioso di alchimia, una fervida attività di predicazione e politica messianica – prima a Roma, poi a Milano – che lo porterà rapidamente ad essere incriminato dall’inquisizione. Vicino agli ambienti quietisti che in quegli anni si diffondono in Italia, fautore di una teocrazia universale retta dal papa, egli, condendo la sua predicazione di toni profetici ed estasi visionarie, si autonominava prochristus, annunciatore e paladino dell’avvento di questa era felice di dominio universale del papato che avrebbe riportato il mondo alla purezza del messaggio evangelico. Pare che ai suoi seguaci, che tra Roma e Milano spesso ne seguirono le sorti giudiziarie, egli mostrasse una spada che gli era stata donata da S. Michele, a simbolo della sua investitura a paladine del nuovo avvento dell’era del Cristo.

Costretto a fuggire inizia una peregrinazione che lo porterà nelle principali corti d’Europa, dove tra un continuo alternarsi di fortune e improvvisi rivolgimenti, di potenti amicizie ed altrettanto subdole inimicizie, consoliderà una solida fama europea di medico ed alchimista. Conobbe e frequentò a lungo, ed in diverse occasioni, il milieu di intellettuali raccolto intorno alla corte romana di Cristina di Svezia, fu stimato amico di scienziati di grande fama, come il danese Borrichius.

Nel 1670, egli viene arrestato in Moldavia, diretto verso la Turchia, e viene consegnato nelle mani dell’inquisizione romana, che già nel 1661 lo aveva condannato in contumacia ed aveva pubblicamente appiccato e bruciato la sua effige ed i suoi scritti in Campo de’ Fiori a Roma.

Incarcerato a Castel S. Angelo, grazie alle sue abilità di medico ed alle sue potenti amicizie, riesce per alcuni anni ad ottenere una sorta di regime di semilibertà che gli consente di esercitare la sua professione, studiare e frequentare i salotti romani, in cui, a dispetto della ignominiosa condizione di condannato, la sua stella continua a risplendere, ma con l’elevazione al trono di Innocenzo XII nel 1691, ogni privilegio viene annullato, ed il Borri si ritrova nuovamente in regime di carcere duro. Morirà pochi anni dopo, consumato dalle febbri, il 16 agosto 1695 nella sua cella a Castel S. Angelo.

L’avventuriero, il profeta, l’alchimista e guaritore, sono stati definiti, per complessità e vicissitudini, precursori della figura misteriosa di quel Cagliostro che, pochi decenni dopo, attraverserà con ancora più fulgida ed universale notorietà l’Europa.

Di lui ci rimangono un certo numero di opere (19), ma l’opera che ci interessa in questa sede, però, è la sola Chiave del Gabinetto, uscita con il falso luogo d’edizione di Colonia (in realtà Ginevra) nel 1681: si tratta di una raccolta di lettere di argomento alchemico, filosofico e cabalistico che è da considerarsi quasi totalmente frutto di un plagio (20); l’operetta venne in passato attribuita a Gregorio Leti (1630-1701), ma è in realtà dovuta (così come le contemporanee Istruzioni al re di Danimarca, anch’esse uscite a nome de Borri) alla penna di un altro non facile personaggio, l’avventuriero e libellista libertino Giovanni Girolamo Arconati Lamberti (morto nel 1773). Come la voce curata da S. Rotta del Dizionario Biografico degli Italiani non manca di sottolineare, le prime due lettere della Chiave sono una versione pressoché letterale del Conte di Gabalì del Villars, mentre l’ultima è “…una traduzione fedele di De l’âme des Betes di A. Dilly, uscita a Lione nel 1676”. Per quanto riguarda le lettere cabalistiche, il misterioso adepto tedesco di Montfaucon diviene un altrettanto misterioso Danese . Questa è delle poche varianti di rilievo che si possono incontrare comparando le lettere della Chiave con i dialoghi del Conte. Era del resto fatale che l’eretico Borri, che già aveva attirato l’attenzione del Leti ne L’ambasciata di Romolo ai romani, catalizzasse irresistibilmente l’attenzione del libertinismo anticattolico ed anti-papista. Lo stesso Arconati Lamberti – evidentemente affascinato dal personaggio e non pago della Chiave, lo stesso anno (1681) dedicherà al Borri un dialogo con la giustizia (anch’essa detenuta a Castel Sant’angelo) nella sua Inquisizione Processata (tomo II, pp 251 e sgg.).

Nonostante il testo non conosca successive ristampe, ebbe una rilevante diffusione e fu ben conosciuto negli ambienti occultistici fino ai secoli successivi. Sebbene la Chiave fosse un plagio evidente, il nome del Borri, già al centro di varie leggende misteriose (ad esempio quella che lo lega alla Porta magica del Marchese Massimiliano Palombara), rimarrà indissolubilmente legato al destino letterario ed occultistico dei popoli elementari. Non si commetta l’errore di considerare che il retaggio magico-cabalistico si esaurisca agli autori esaminati entro il periodo compreso tra XVI e XVIII secolo. Ancora in pieno ‘900 molte organizzazioni iniziatiche e molti scrittori di occultismo raccolgono la tradizione dei popoli elementari. Per rimanere soltanto ai capiscuola consacrati dalla più diffusa notorietà, gli spiriti elementari sono presenti negli insegnamenti della teosofia di Madame Blavatsky (21), così come negli insegnamenti di Eliphas Levi (22) e dell’ermetista italiano Giuliano Kremmerz (23). Rimane da comprendere il senso di una sopravvivenza e di una longevità degli spiriti elementali all’interno della tradizione cosmologica ermetica, che non è priva di relazioni con le istanze rigenerative ed esoteriche della magia colta.

Un celebre ritratto di Madame Balvatsky.

Un raro ritratto del mago ottocentesco Eliphas Levi, al secolo l’abate Alphonse Louis Constant.

Il magista napoletano Giuliano Kremmerz (Ciro Formisano).


Pochi decenni dopo Paracelso, il De occulta Philosophia del mago Cornelio Agrippa (1486-1535) sembra ridefinire, senza la dovizia di particolari del trattato paracelsano, le presenze elementali all’interno di una precisa gerarchia che distingue le presenze invisibili in tre grandi schiere: quella delle intelligenze Supercelesti, spiriti puri completamente e perfettamente separati da ogni residuo di corporeità, «..che adorano e servono l’unico Dio, come loro fermissima e stabilissima unità o centro» e che pertanto sono essenzialmente di natura divina, costantemente impegnati nell’adorazione dell’Altissimo ed incapaci di influenzare direttamente la realtà materiale ed i corpi terreni e concreti. Questa schiera trasmette la luce suprema e divina alla schiera immediatamente inferiore, quella dei demoni mondani (24), che non si occupano del culto divino «… ma sono assegnati alle sfere del mondo, presiedono a ciascun cielo e a ciascuna stella… governano i segni, le triplicità, i decani, i quinari, i gradi e le stelle fisse…». Sono i demoni mondani che governano i movimenti delle sfere, delle costellazioni e dei pianeti, ed il delicato e complesso gioco di influenze che le stelle trasmettono sui corpi e sui destini terrestri. Agrippa ne precisa numero e competenze, e specifica che «…a ciascuna è stato conferito un nome e sono stati attribuiti segni chiamati caratteri, che gli antichi adoperavano nelle invocazioni e negli incantesimi e che incidevano sugli strumenti magici, sulle immagini, sulle lamine, sugli specchi, sugli anelli… dimodochè quando operavano al sole facevano le loro invocazioni coi nomi del Sole e coi nomi dei demoni solari e così per le altre.».
La terza schiera, è appunto quella dei demoni propriamente detti, «specie di ministri sottoposti alle intelligenze superiori e preposti al governo delle cose terrene che Origene definisce virtù invisibili capaci di disporre le cose di quaggiù; poiché difatti senza che le vediamo ci conducono spesso nei nostri viaggi ed affari e si trovano spesso nei combattimenti e fanno ben riuscire i loro amici con soccorsi che danno insensibilmente… Questi demoni sono distinti in più specie, sia secondo i quattro elementi, aria, acqua, fuoco e terra, sia secondo i quattro poteri delle anime celesti, mente, ragione, immaginazione e natura vivifica o motrice. Perciò i demoni del fuoco seguono la mente delle anime celesti e contribuiscono alla contemplazione delle cose più sublimi; i demoni dell’aria seguono la ragione e favoriscono la potenza razionale, allontanandola in qualche modo dalla potenza sensuale e vitale e indirizzando alla vita attiva…. i demoni dell’acqua seguono l’immaginazione e il senso e indirizzano alla vita voluttuosa; i demoni della terra seguono la natura e stimolano la facoltà vegetativa….Alcuni di tali demoni somigliano tanto all’uomo, tanto gli sono familiari da essere perfino soggetti alle passioni umane…».
I demoni elementari del De Occulta Philosophia, fin qui, a partire dalla coloritura astrologica che si estrinseca nelle ulteriori suddivisioni di queste tre categorie in sottocategorie legate ai punti cardinali, ai pianeti ed alle stelle, sembrano abbastanza diversi, a prima vista, dai popoli elementari di Paracelso. I demoni di Agrippa – il mago ne elenca circa una trentina di diversa natura – sono potenti, onnipresenti nel loro elemento, e presiedono alle diverse sfere materiali ed immateriali della realtà. Non hanno bisogno dell’uomo, ma, anzi, in qualche modo ne governano le sorti. Essi non sono soggetti alle influenze delle stelle, ma anzi le comandano, e rendono conto del proprio operato al cielo sopramondano. Ma tale differenza si attenua notevolmente quando si considera l’impianto teorico generale entro cui si muovono i popoli di Paracelso ed i demoni del De Occulta Philosophia. Entrambi, infatti, possono essere indotti ad eseguire la volontà umana (è per questo che i demoni di Agrippa hanno nomi e caratteri da utilizzare nella pratica evocatoria). Da questo punto di vista la prigionia coatta che si adombra in Paracelso quale possibilità per l’uomo di procurarsi i servigi degli elementali, equivale alla formula cerimoniale evocatoria di Agrippa.
Sia i demoni di Agrippa che gli elementali di Paracelso somigliano all’uomo, ne hanno le passioni e la personalità. In più, i demoni del terzo ordine descritti nel De Occulta Philosophia, hanno un corpo sensibile, variamente visibile a seconda delle impurità terree, sono attratti dalle donne umane e ne ottengono i favori. Inoltre, i demoni di Paracelso nelle narrazioni del Villars, non sono subordinati che ai saggi, ovvero agli iniziati, conservando intatta la loro carica di potenza nei confronti del volgo. Si tratta dunque, nel caso degli elementali di Paracelso e dei demoni di Agrippa, di una omogenea concezione del cosmo, entro cui trovano il loro posto e la loro funzione le semi-invisibili entità degli elementi, con un ruolo ben preciso che non può essere estraneo alle prospettive soteriologiche e rigenerative del sapere magico ed alchemico.
Ci rimane appunto da inquadrare il modo in cui tali dati si fondevano con l’universo mitico e la ricerca interiore dell’alchimia e della magia colta, il rapporto complesso che lega l’apparenza superstiziosa della gabala di Villars e Borri al cammino eroico di rigenerazione che deve compiere l’ermetista, il mago realizzato. In poche righe, a questo proposito, un altro grande alchimista ed ermetista italiano fiorito a cavallo tra XVI e XVII secolo, il nobile romano Cesare Della Riviera, ci offre una interessante chiave di lettura. Nel Mondo Magico de gli Heroi (1605), che citiamo nella versione curata da Evola., nell’ambito della realizzazione magico-alchemica compiuta dall’heroe il Della Riviera accenna alla percezione spirituale degli aspetti occulti della natura. Il corsivo inserito nella citazione è nostro :
«…Parimenti rossa è la Terra magica, e rosso ne è altresì il sangue, come si disse altrove. Questo sangue è la pinguedine, cioè il limo terreo di cui Iddio, nostro primo padre ci compose, e del quale consta il nostro piccolo Mondo. Quanto poi alle varie forme che si celano in questo, esse sono la tanto ammirata invisibilità dei maghi. Nondimeno è verissimo che la vera e santa Magia sarebbe in parte inferiore a quella falsa e diabolica, se essa non giungesse a rendere visibili le suddette forme [ … ] Ma poiché ogni dono che venga dall’alto dal Padre dei Lumi è – come attesta il glorioso Giacomo – perfetto [ … ] come tale esso potrà rivelare perfettamente le varie forme contenute che si mostrano non come prestigiose e apparenti, ma come reali, consistenti e palpabili….».
Per ottenere ciò, l’eroe dovrà faticare assai più che non utilizzando la magia diabolica e falsa, che si serve però di demoni fraudolenti.
Dopo aver descritto le metamorfosi magiche che la materia subisce sotto gli occhi dell’eroe ermetico, Della Riviera continua :
«… Finalmente nel nostro Mondo magico non solo si manifestano le specie corporee, ma si rendono visibili anche quelle incorporee. Il detto mondo viene formato dall’eroe secondo l’ordine che segue.
Dalla materia prima, vale a dire dalla prima terra magica, egli trae con mirabile artificio spagirico e con sottile arte pironomica tutte le specie elementali e corruttibili: il Mondo elementare. Da questo vengon poi tratte con esattissima diligenza le specie celesti e incorruttibili [ … ] formate tutte le specie elementari e celesti si viene per ultimo alla formazione delle altre, interamente perfette, che, [ … ] posson dirsi specie intellettuali e menti magiche disciolte…».
Il contatto palpabile con le specie elementari è dunque parte del procedimento alchemico, frutto di un “mirabile artificio spagirico” e “sottile arte pironomica”, percezione spirituale interna all’itinerario individuale di quella separazione dei misti che è alla base della grande opera.
Silfi, gnomi, ondine e salamandre sono dunque precipitati simbolici, ipostasi individuate dell’essenza degli elementi che l’alchimista-mago purifica. Originati nell’universo leggendario e folklorico, da sempre profondamente intessuto, nelle sue dimensioni simboliche e mitiche, di inestricabili relazioni con il linguaggio ermetico.-alchemico, gli elementari escono dai racconti orali delle campagne, per ristabilirsi, con immutato vigore, nell’immaginario magico-ermetico dell’alchimista errante per i sentieri della conoscenza interiore.
Prodotti reali dell’opera ermetica, del contatto dell’artefice con la materia prima, essi sono palpabili, come palpabile è il mercurio fissato dall’azione ignea dello zolfo alchemico, come palpabile è lo splendore invisibile che guida l’artista verso la pietra dei filosofi, come palpabile effettivamente è, per l’alchimista, la fitta rete di correlazioni ed analogie che unisce il visibile all’invisibile, il solido all’etereo. Nel processo del solve et coagula, in sostanza, nello sciogliere le impurità ed i legami grossolani della materia bruta e nel coagulare le forme energetiche di una percezione rigenerata, gli elementali si presentano quali personificazioni magiche ed archetipali dei semi della materia, guide che la materia stessa custodisce nel suo seno, interlocutori mitici dell’alchimista-mago errante.
E di recente, ancora, era una Ninfa sapiente che guidava con dolcezza i lavori dell’ignoto alchimista che sul finire del XIX secolo si nascondeva sotto lo pseudonimo di Cyliani, così come ci racconta l’Hermes Devoilé. Di questa Ninfa alchemica, nella traduzione di Stefano Andreani (25) riportiamo infine, per accomiatarci a nostra volta dal grazioso popolo elementale, il saluto con cui si diparte dall’affranto Cyliani :
«…….Mi gettai ai suoi piedi per ringraziarla di un simile beneficio ed umilmente ringraziai anche l’Eterno di avermi fatto superare tanti pericoli.
Poi ella mi disse addio, aggiungendo: Non mi dimenticare !
Disparve, e la sua fuga mi fece provare una pena talmente grande che mi svegliai…».

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NOTE:

(1) La traduzione del trattato è compresa in Paracelso, Scritti alchemici e magici¸ Genova 1991, ed. Phoenix, pgg. 17-32.

(2) Più oltre Paracelso specifica, tuttavia: «Io non credo che questi siano veramente quelli di cui esse si servono tra loro, ma penso che ad esse li abbiano dati persone che non hanno conversato con loro, tuttavia, dato che sono in uso tra noi, li conserverò, benché si possano anche chiamare Ondine le creature dell’acqua, Silvestri quelle dell’aria, Gnomi quelle della terra e Vulcani quelle del fuoco…». In verità, Paracelso parla, ad un certo punto del suo trattato, anche di altri esseri, che egli definisce di natura essenzialmente mostruosa, teratogena ed eccezionale: Sono le Sirene, i Giganti e i Nani. Le sirene, generate dagli Ondini, nuotano preferibilmente sulla superficie dell’acqua, sanno cantare e suonare il flauto. I giganti sono invece generati dai silfidi, ed i nani dagli gnomi. Tutte queste creature non hanno un’anima, e non possono riprodursi. Alla medesima categoria, con un umorismo provocatorio notevole, Paracelso fa risalire anche una diversa categoria, generazione mostruosa degli gnomi e delle ondine: «…I Monaci, che sono simili agli uomini e vivono nel loro ambiente…».

(3) Più avanti, Paracelso chiarisce la materia prima della tessitura: «Come a noi, Dio ha dato loro la lana di montone; Dio, infatti, può creare dei montoni diversi da quelli che vediamo noi, che pascolano nel fuoco, nell’acqua o nella terra»

(4) La traduzione italiana uscirà nel con il titolo di Il Conte di Gabalì o ragionamenti sulle scienze segrete, Londra (Napoli) 1751, per cura di Raimondo de Sangro, principe di Sansevero, illuminato alchimista e massone del settecento napoletano, sulla cui complessa figura, rimandiamo all’esauriente saggio di L. Sansone Vagni, Raimondo de Sangro, principe di San Severo, Foggia 1992, Bastogi.

(5) L’articolo della Biographie universelle, di Michaud, (Parigi, 1843) è nel tomo 43, da pag. 434 a pag. 436.

(6) In realtà la Cabala del Montfaucon e del Borri è cosa ben distante dalla originaria tradizione ebraica da cui mutua il nome, ed è forse molto più vicina a sopravvivenze pagane di culti che nel XVII secolo dovevano forse essere ancora ben vivi nelle tradizioni folkoriche e della religiosità popolare di gran parte d’Europa.
Gershom Scholem, in un saggio dedicato ai rapporti tra alchimia e Kabbalah (Alchimia e Kabbalah, trad. di Marina Sartorio 1995, Einaudi) ben descrive il carattere della presunta cabala che emergeva dal complesso panorama degli scritti ermetici tra XVI e XVII secolo : «Il nome della misteriosa disciplina [ … ] divenne parola d’ordine di tutti i circoli interessati alla teosofia e all’occultismo nell’epoca del Rinascimento ed in quella successiva del Barocco. Divenne una specie di bandiera, dietro la quale – poiché non v’era da temere alcun controllo da parte dei pochi veri cultori della kabbalah – praticamente tutto poteva offrirsi al pubblico : da contenuti autenticamente ebraici a meditazioni solo vagamente ebraizzanti di profondi mistici cristiani fino agli ultimi prodotti da fiera della geomanzia e della cartomanzia. Il nome Kabbalah, con il brivido reverenziale che incuteva, comprendeva tutto. Anche i più estranei elementi di folklore occidentale, anche le scienze del tempo in qualche modo orientate verso l’occultismo, come l’astrologia, l’alchimia, la magia naturale, diventavano kabbalah….». Tale considerazione è vera ancor oggi, se pensiamo al nome di cabala fonetica con cui alcuni alchimisti moderni (ad es. Fulcanelli ed allievi) designano il bellissimo gioco simbolico di etimi assonanti che utilizzano con tanta frequenza. In effetti, la gabala del Villars ha poco o niente a che fare con la kabbalah ebraica. Non che questa fosse del tutto ignota nella seconda metà del ‘600. Tuttavia, se si eccettua la credenza di fondo nella possibilità di accoppiarsi e procreare con entità incorporee (si pensi, nella tradizione ebraica, ai Lillim, i figli demoni che Lilith partorisce rubando il seme disperso dell’uomo) del resto comune a diverse tradizioni, il fondo che si scorge tra gli elementari del Villars e degli epigoni che vedremo tra poco, è invece eminentemente magico.

(7) Al conte segue infatti, a distanza di un anno, L’amour sans faiblesse, ou Anne de Bretagne et Almanzaris (Paris, 1671, Barbin, in tre tomi), un voluminoso romanzo ristampato in volume unico nel 1729 col titolo di Géomyler et Almanzaris, che narra la storia di un géomyle, appunto, una sorta di non meglio identificato religioso turco che, sfruttando la sua carica si introduce alla corte (e nel serraglio) di diversi principi carpendo l’amore di svariate principesse. Il romanzo viene presentato, con una classica finzione letteraria, come la traduzione della versione castigliana di un antico romanzo arabo, eseguita da una signora che aveva trovato, nello scritto, «meno difetti che nella maggior parte dei romanzi moderni». Da un punto di vista letterario la prova appare inferiore alle aspettative, e riscuote critiche negative. Ma il Villars prosegue imperterrito la sua carriera letteraria con una serie di libelli polemici che abbracciano vari argomenti letterari e filosofici. Abbiamo così la Critique de la Berenice de M. Racine et de M. Corneille, libello che, pur ottenendo qualche apprezzamento, non suscita alcuna risposta da parte di Corneille, ed un solo accenno da parte di Racine nella prefazione ad un’edizione della Berenice. Dopo qualche altro libello di polemica – ad esempio i cinque dialoghi De la delicatesse, del 1671, dedicati a Les entretiens d’Ariste et d’Eugène di Barbier d’Aucour, che provocano, peraltro, una vibrante risposta dell’autore – il Villars pubblica, più o meno nello stesso periodo le Reflexions sur la vie de la Trappe, la Lettre contre M. Arnauld e la Critique des Pensées de M. Pascal, che contengono, come si può arguire dagli stessi titoli, forti spunti polemici di taglio filosofico contro la scuola di Port-Royal. Infine, a quarantadue anni dalla morte dell’autore, nel 1715, verranno pubblicati i sette nuovi Entretien sur les sciences secrètes, che fanno da seguito al Conte di Gabalì, e che sono incentrati su di una feroce satira della filosofia Cartesiana e dei suoi sostenitori.

(8) Il Villars avrebbe, in combutta con sua sorella ed un servo fedele, ucciso nientemeno che suo zio materno, Pierre de Ferroul, signore di Montgaillard. Malgrado il mandato di cattura, il Villars però si sottrae all’arresto, e, cosa inspiegabile, continua a Parigi la sua vita pubblica. Vicenda poco chiara, come poco chiare dovettero essere le amicizie e le aderenze del rampollo de Villars, che gli consentirono tuttavia di beffarsi del mandato di arresto per omicidio emesso a suo nome. Tanto più che, il mandato di arresto per l’omicidio del signore di Montgaillarde verrà ripetuto dai magistrati qualche anno dopo, nel 1668.

(9) È l’edizione compresa, insieme ad altre opere di argomento simile, nel trentaquattresimo tomo della serie Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1888.

(10) Abbiamo preso in prestito questa efficace sintesi del tema principale del romanzo di Villars da Du merveilleux dans la littérature Françoise sous le règne de Louis XIV, del dotto padre gesuita Delaporte (Parigi 1891).

(11) Leggiamo, ad esempio, come lo scrittore Gérard de Nerval (1808-1855), descrive la curiosità per l’occulto che caratterizza la cultura francese tra XVI e XVIII secolo: «I libri trattanti di cabala e scienze occulte, inondarono allora le biblioteche; le più bizzarre speculazioni medievali resuscitarono sotto una forma più spirituale e leggera, propria a recuperare a queste idee ritornate di moda, il favore di un pubblico frivolo, per metà ateo e per metà credulo… L’abate de Villars, Dom Pernety, il marchese D’Argens, divulgarono i misteri dell’Oedipus Aegyptiacus e le sapienti immaginazioni dei neoplatonici fiorentini. Pico della Mirandola e Marsilio Ficino rinacquero, tutti intrisi dello spirito manierato del XVIII secolo, nel Conte di Gabalì, nelle Lettere Cabalistiche ed altre produzioni di filosofia trascendente alla portata dei salotti. Così non si parlava più che di spiriti elementari, di simpatie occulte, di incanti, di possessioni, di migrazioni delle anime, e soprattutto di magnetismo e alchimia…» (G. de Nerval, Opere, Paris 1986, ed. Garnier).


(12) È questo l’atteggiamento che emerge, ad esempio, dalla lettera dell’anonima volgarizzatrice dell’opera di Villars, anteposta all’edizione italiana del De Sangro, lettera che la Sansone Vagni (op. cit., pag. 82) non manca di attribuire, insieme alla traduzione stessa, allo stesso principe di S. Severo: «..E perché ne faccia sapere altrui tutto quel tanto ch’io ne so dico prima c’ogni altro che ‘l suo Chiarissimo Autore è l’Abate di Villars, Egli con questo Conte di Gabalì ha tentato di guarire il fanatismo de’ cabalisti nella stessa guisa appunto, nella quale il famoso Michele Cervantes imprese di guarire col suo D. Chisciotte il fanatismo de’ Cavalieri Erranti. Tutto il libro si trova condotto in una continua ironia; ma è scritto con tale vivacità e finezza che ci ha molti, i quali si son dati a credere che avess’egli inteso di spacciare un dogma, e non già una satira…». (Montfaucon\Borri, Il Conte di Gabalì, ristampa del volgarizzamento italiano con commento e note di C. Miccinelli e C. Animato, Genova 1986, ECIG, pag. 75). Probabilmente l’affermazione che “‘l suo Chiarissimo Autore è l’Abate di Villars”, tende a smascherare il plagio italiano del Borri, di cui ci occuperemo tra poco.

(13) Op. cit. pgg. 121 e sgg.


(14) Il Delaporte, di quest’opera, riporta in nota un’edizione di Amsterdam del 1715


(15) Anche per quest’opera Delaporte riporta come data e luogo Amsterdam, 1715.


(16) In verità il Delaporte non menziona neanche l’anonimo Le Sylphe, impresso per la prima volta nel 1730, e L’amant Salamandre, ou adventures de l’infortunée Julie, di un Cointreau di cui non conosciamo altre notizie se non il nome. Manca infine all’appello Les Ondins di Madame Robert (Marie-Anne de Roumiere, morta a Parigi nel 1771), cui si devono vari romanzi, tra i quali Les voyages de Milord Ceton dans les sept planettes. Tutte queste opere sono comprese nella raccolta edita dal Garnier, i Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1888, raccolta molto ampia che raccoglieva, probabilmente, il meglio della letteratura fantastica disponibile a quell’epoca.

(17) Jean Baptiste de Boyer, marchese D’Argens (1704 – 1771), indirizzato dalla tradizione familiare alla magistratura, preferì tuttavia la carriera militare. Giovanissimo fugge in Spagna con una attrice di cui è perdutamente innamorato, ma viene arrestato per iniziativa della famiglia prima di aver potuto sposare la donna. Viene inviato a Costantinopoli, al servizio dell’ambasciatore di Francia. Anche qui, pare, ebbe vita avventurosa. Ritornato in Francia, con l’intento di seguire la carriera della magistratura, ancora una volta preferisce la vita avventurosa e gli amori delle attrici, e così egli finisce per riprendere la carriera militare. Nel 1734 un incidente di servizio – una caduta da cavallo – lo costringe ad abbandonare il servizio. Essendo stato diseredato da suo padre, trasferitosi in Olanda, è costretto ad intraprendere la carriera di scrittore per vivere. Il successo gli arride e ben presto entra nelle grazie di Federico II di Prussia, sotto la cui protezione rimane a lungo, non mancando, comunque, di continuare a suscitare scalpore per polemiche argute e per condotte morali poco consone al suo ruolo ed alla sua fama. Nella sua copiosa produzione letteraria spiccano le Lettres Juives (1754), le Lettres Chinoises (1755) e le Lettres Cabalistiques (1769).

(18) Abbiamo consultato questa edizione, rivista ed aumentata dal Signor Di Monstier, speziale della marina ed a sua volta membro della Royal Society di Londra e di quella di Berlino. L’edizione originale dell’opera di Lefevre era apparsa nel 1660, e riscosse un rapido successo, tanto da meritare, nel 1667, una traduzione tedesca. Si conosce anche un’edizione inglese del 1664, ristampata nel 1670. Il Cours de Chimie, comunque, conoscerà riedizioni fino a tutta la metà del XVIII secolo (vi è un’edizione francese del 1751). Su Lefevre vedi Ferdinand Hoefer, Histoire de la chimie depuis les temps les plus reculés jusqu’à notre époque. Tome deuxième, Paris, 1843, pgg. 286-290.

(19) Le opere conosciute attribuite abitualmente al Borri, sono: “Lettere di F. B. ad un suo amico circa l’attione intitolata: La Virtù coronata, Roma 1643; Iudicium….de lapide in stomacho cervi reperto, Hanoviae 1662; Epistolae duae, 1 De cerebri ortu & usu medico. 2 De artificio oculorum Epistolae duae Ad Th. Bartholinum, Hafniae 1669; Hyppocrates Chymicus seu Chyniae Hyppocraticae Specimina quinque a F. I. B. recognita et Olao Borrichio dedicata. Acc. Brevis Quaestio de circulatione sanguinis, Coloniae 1690; De virtutibus Balsami Catholici secundum artem chymicam a propriis manibus F. I. B. elaborati, Romae 1694; De vini degeneratione in acetum et an sit calidum vel frigidum decisio experimentalis in Galleria di Minerva, II Venezia 1697. Le opere apocrife comparse sotto il suo nome, secondo il citato lavoro del Rotta, sono: Gentis Burrhorum notitia, Argentorati 1660; La chiave del Gabinetto del Cavagliere G. F. Borri, Colonia (Ginevra) 1681 e le Istruzioni politiche date al re di Danimarca, Colonia (Ginevra) 1681 [le ultime due, entrambe, come abbiamo visto, frutto della penna di Giovanni Girolamo Arconati Lamberti].

(20) A questo proposito, è del tutto infondata l’ipotesi, avanzata da Clara Miccinelli e Carlo Animato nella citata riedizione del volgarizzamento italiano del Conte, di una scrittura a quattro mani dei dialoghi cabalistici da parte del Borri e di Montfaucon de Villars. Basandosi su di un’annotazione manoscritta sul foglio di risguardo di un’edizione delle Istruzioni politiche al re di Danimarca a firma di un p. Roseto. Nell’annotazione si relaziona degli scritti di un alchimista (Vinacche) che racconterebbe di un incontro avvenuto ad Amsterdam nel 1663, durante il quale i due alchimisti avrebbero composto in comune il Conte. In realtà come abbiamo visto, La Chiave è un’opera plagiata da più fonti diverse, non solo dal Villars, ad opera di uno scrittore del libertinismo italiano, al cui parabola si svolse interamente tra Italia, Svizzera ed Olanda, e che nessuna relazione diretta ebbe mai col Montfaucon de Villars. Peraltro, non si hanno notizie di viaggi del Villars ad Amsterdam, e questa del Roseto è l’unica fonte da cui emerge l’ipotesi di una tale collaborazione. Del resto, non è improbabile che l’Arconati Lamberti, indubbiamente conoscitore delle opere di Paracelso, si sia sentito ben poco in colpa nel plagiare dei dialoghi a loro volta in larga parte improntati ad idee ed invenzioni paracelsane. Curiosamente, confondendo evidentemente la successione cronologica delle date di uscita, il citato prefattore dell’edizione del 1788 del Conte, il Garnier, a proposito dell’pera del Villars, afferma: «…Ciò nonostante il fondo dell’opera non gli appartiene affatto: esso è tratto da un’opera di Borry, intitolata la Chiave del Gabinetto..” (pag. IV della citata edizione).

(21) Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), di origine russa, ebbe vita avventurosa, viaggiò a lungo e fu scrittrice prolifica e fondatrice della Società Teosofica, movimento ancor oggi esistente con varie sedi e filiazioni in tutto il mondo, da molti considerato matrice di gran parte del frastagliato mondo delle organizzazioni occultistiche ed inziatiche. Nella dottrina della Blavatsky, all’interno della sistemazione gerarchica degli esseri spirituali, gli ultimi gradi, il sesto ed il settimo, sono appunto quelli occupati dagli spiriti elementari: «…Il Sesto e Settimo Ordine partecipano alle qualità inferiori del quaternario. Sono entità coscienti ed eteree, invisibili quanto l’etere,: come rami di un albero, esse partono dal primo gruppo centrale quaternario e si sviluppano, a loro volta, in infiniti gruppi collaterali di cui gli ultimi sono gli Spiriti della Natura o Elementali, esseri le cui specie e varietà sono incommensurabili…». (H. P. Blavatsky, La Doctrine Secrète I.re partie: Evolution Cosmique – Stances de Dzyan, Paris 1906, pag. 202)
Anche essi sono inseriti, per la Blavatsky, nel piano generale di evoluzione del cosmo previsto dalla dottrina teosofica.

(22) Eliphas Levi fu il nom de plume, o, se si preferisce, il nome iniziatico di Alphonse-Louis Constant (1810-1875), diacono della chiesa cattolica espulso da diverse istituzioni religiose, occultista, scrittore prolifico e seguace di dottrine politiche socialiste, fu uno dei principali artefici della rinascita e della rivalutazione delle dottrine occultiste nel XIX secolo. Per il Levi, gli spiriti elementari possono rimanere invisibili o Incarnarsi in uomini: «… Questi spiriti non emancipati, schiavi dei quattro elementi, sono ciò che i cabalisti chiamano demoni elementari, e popolano gli elementi che corrispondono al loro stato di servitù. Esistono dunque in realtà le silfidi, le ondine, gli gnomi e le salamandre; gli uni erranti in cerca d’incarnarsi , gli altri incarnati e viventi sulla terra. Questi sono gli uomini viziosi o imperfetti…» (E. Levi, Il dogma dell’alta magia¸ trad. di Carlo de Rysky, Roma s.d., Athanor, pag. 49).

(23) Nome iniziatico di Ciro Formisano (Portici 1861 – Beausoleil 1930), il principale volgarizzatore italiano dell’occultismo e della magia ermetica, autore di numerose monografie raccolte ne Il mondo secreto e l’Avviamento alla scienza dei magi: «…Sono condensazioni di materia eterea con determinazioni di vita, con finalità determinata. Essendo una vita, anche se transitoria, ogni spirito elementare deve contenere i quattro elementi con la prevalenza caratteristica della forma determinante il suo ufficio… Spirito elementare è quel consenso di virtù attribuite ad una determinata cosa; no già l’anima, ma l’aura (es: di un insegnamento, della carità ecc.) il senso, l’odore di questo qualcosa che diciamo spirito. Gli spiriti del fuoco danno il calore, quelli dell’aria tendono alla variabilità e al movimento ecc.. Al tempo dei Neoplatonici si cominciò a personificarli, e allora si ebbero gli gnomi (spiriti terreni), i silfi (quelli dell’aria) le salamandre ecc…. I maghi possono crearne a beneficio proprio o di altrui per determinare qualche fenomeno, ma in tal caso la creazione vitale di un mago va chiamata Genio…» (U. D. Cisaria, Dizionario Kremmerziano dei termini ermetici, Roma 1984, Mediterranee, pag. 373). I Geni di Kremmerz sono creazioni della volontà purificata del mago, gli sono obbedienti e fedeli, si immedesimano nell’uomo e gli conferiscono facoltà speciali.

(24) Agrippa non manca di specificare: «…intendendosi qui per demoni non quelli che noi chiamiamo diavoli, ma esseri spirituali, così chiamati per la proprietà del vocabolo, quasi scienti, intelligenti e saggi.». (Agrippa, La Filosofia occulta o la Magia, trad. di A. Fidi, ed. Mediterranee, pag. 205). Agrippa tratta i demoni malvagi più oltre, nello stesso libro. Curiosamente, è proprio Agrippa ad offrirci una utile traccia per definire il carattere folklorico dei popoli elementali paracelsani: «… Le leggende della Danimarca e della Norvegia riferiscono che in quelle contrade v’hanno varie specie di demoni ai servigi degli uomini. Alcuni dei demoni sono corporei e mortali e nascono e muoiono, quantunque vivano a lungo…». (Agrippa, Op. Cit. pag 208). Paul Lacroix, citando A. Maury, annota: «….In tutte le regioni settentrionali, le credenze relative agli elfi sono associate ad altre relative ai nani, dice A. Maury. Le leggende su questi esseri singolari sono assai numerose in Germania; esse ce li rappresentano come i geni della terra e del sole….». (Paul Lacroix, Curiosités Infernales¸ Paris 1886, pgg. 249-250. le Curiositées, senza trascurare le fate, dedicano un intero capitolo ai nani ed uno agli elfi ).

(25) Apparsa in appendice a Stefano Andreani, Alchimia: appunti per una semiologia del sacro, 1976 ERI.

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Bibliografia essenziale:

– AA.VV. – Biographie universelle, a cura di Michaud, (Parigi, 1843), per le voci Borri, D’Argens e Villars.
– AA.VV. – La città dei segreti: magia, astrologia e cultura esoterica a Roma (XV-XVIII) a cura di Fabio Troncarelli, Milano 1985, Franco Angeli
– Agrippa, La Filosofia occulta o la Magia, trad. di A. Fidi, ed. Mediterranee, 1988.
– Stefano Andreani , Alchimia: appunti per una semiologia del sacro-1976 ERI
– H. P. Blavatsky, La Doctrine Secrète I.re partie: Evolution Cosmique – Stances de Dzyan, Paris 1906
– P. Bornia, La porta magica di Roma – studio storico, 1983 Genova
– U. D. Cisaria, Dizionario Kremmerziano dei termini ermetici, Roma 1984, Mediterranee
– G. Cosmacini – Il medico ciarlatano, Bari 1998, Laterza
– G. de Nerval, Opere, Paris 1986, ed. Garnier
– Delaporte – Du merveilleux dans la littérature Françoise sous le règne de Louis XIV, Parigi 1891
– Cesare Della Riviera, Il Mondo magico de gli Heroi, a cura di J. Evola, s. l. 1982, Arktos
– Ferdinand Hoefer, Histoire de la chimie depuis les temps les plus reculés jusqu’à notre époque. Paris, 1843
– Paul Lacroix, Curiosités Infernales¸ Paris 1886
– E. Levi, Il dogma dell’alta magia¸ trad. di Carlo de Rysky, Roma s.d., Athanor.
– Montfaucon de Villars, Le Comte de Gabalis, ou entretiens sur les sciences secrètes, edizione compresa nel tomo 34 di Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1788.
– Montfaucon\Borri – Il Conte di Gabalì, ristampa del volgarizzamento italiano con commento e note di C. Miccinelli e C. Animato, Genova 1986, ECIG
– Nicholas Lefevre – Cours de chymie, pour servir d’introduction à cette science, Paris, chez Jean Noel Leloup 1702
– M. Palombara – La Bugia, Roma 1983, Mediterranee
– Paracelso, Scritti alchemici e magici¸ Genova 1991, ed. Phoenix
– L. Pirrotta – La porta ermetica, un tesoro dimenticato, Roma 1979
– Madame Robert, Les voyages de Milord Ceton dans les sept planettes, vol XVII e XVIII dei Voyages imaginaires, songes, visions et romans cabalistiques, Amsterdam 1888.
– S. Rotta, Voce Borri in Dizionario Biografico degli italiani, 1983 Treccani
– L. Sansone Vagni – Raimondo de Sangro, principe di San Severo¸ Foggia 1992, Bastogi
– Gershom Scholem, Alchimia e Kabbalah, trad. di Marina Sartorio 1995, Einaudi