L’anziano Berthelot ritratto nel suo laboratorio.

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Marcelin Berthelot
RELAZIONI TRA I METALLI ED I PIANETI: IL NUMERO SETTE  (1)
Cap. II della Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I,. pp. 73 – 85.

Traduzione di Massimo Marra ©, tutti i diritti riservati, riproduzione vietata con quasiasi mezzo.

 
Il testo che presentiano, con qualche differenza di poco conto, era stato già pubblicato in M. Berthelot, Science et Philosophie, Calmann Lévy, Paris 1886, pp. 155 e sgg., ed è stato poi incluso come secondo capitolo anche nella Introduction à l’étude de la chimie des anciens et du Moyen Age, Steinheil, Paris 1889.

Questo scritto è dovuto alla penna di Marcelin Berthelot (1827-1907) uno dei padri della storia della chimica, chimico ed uomo politico insigne (eletto senatore, ricoprì, in  momenti diversi, l’incarico di ministro della pubblica istruzione e di ministro degli affari pubblici) autore di opere capitali di storia della scienza, come La chymie au Moyen Age, Les Origines de l’alchimie, la Collection des Anciens alchimistes Grecs, l’Introduction à la chimie des anciens et du moyen age, e di un notevole numero di saggi e ricerche sperimentali di chimica applicata (si ricordano, oltre alle ricerche sulla sintesi dell’etanolo, del metano, dell’acido formico, dell’acetilene e del benzene, le importanti ricerche nel campo della termochimica – la branca della chimica che studia le variazioni calorimetriche nel corso delle reazioni chimiche – e degli esplosivi) apparsi sulle principali riviste scientifiche del tempo. Le opere del Berthelot, specie le raccolte di testi alchemici in edizione critica (i tre volumi della Collection ed i tre della Chymie au moyen age) hanno conosciuto diverse ristampe, anche in tempi recenti. In pratica, non esiste opera moderna sull’alchimia che non sia, in maniera diretta o indiretta, debitrice dell’opera gigantesca di raccolta, collazione, classificazione ed analisi critica di Marcelin Berthelot.
Buona lettura.
M. M.

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Nota: I testi in greco antico riferiti alle citazioni nel testo, nell’originale francese inseriti in nota, sono stati soppressi per le note difficoltà di resa in html dei corretti segni diacritici. I richiami alle tavole interne del volume sono stati sostituiti ai richiami alle figure numerate che abbiamo tratto dalle suddette tavole, per facilitare una fruizione più immediata.

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«Il mondo è un animale unico, di cui tutte le parti, quali ne siano le distanze, sono legate tra loro in maniera necessaria».
Questa frase di Giamblico il Neoplatonico, non sarebbe rinnegata dagli astronomi e dai fisici moderni, poiché essa esprime l’unità delle leggi della natura e la connessione generale dell’universo. La prima percezione di questa unità risale al giorno in cui gli uomini riconobbero la regolarità fatale delle rivoluzioni degli astri. Essi cercarono subito di intenderne le conseguenze in rapporto a tutti i fenomeni materiali e morali, attraverso una generalizzazione mistica che sorprende il filosofo, ma che ciò nonostante è importante conoscere se si vuol comprendere lo sviluppo storico dello spirito umano. È la catena d’oro che lega tutti gli esseri, nel linguaggio degli autori del Medio Evo. Così l’influenza degli astri sembrò estendersi ad ogni cosa, alla generazione dei metalli, dei minerali e degli esseri viventi, così come all’evoluzione dei popoli e degli individui. È certo che il sole regoli, col flusso della sua luce e del suo calore, le stagioni dell’anno e lo sviluppo della vita vegetale: esso è la fonte principale delle energie attuali o latenti sulla superficie della terra. Si attribuisce d’altronde il medesimo ruolo, quantunque più limitato, ai diversi astri meno potenti del sole, ma il cui corso è assoggettato a leggi altrettanto regolari. Tutti i documenti storici provano che è a Babilonia ed in Caldea che queste immaginazioni presero forma; esse hanno giocato un ruolo importante nello sviluppo dell’astronomia, strettamente legata all’astrologia da cui sembra derivare. L’alchimia vi si ricollega allo stesso modo, almeno per l’assimilazione stabilita tra i metalli ed i pianeti, assimilazione tratta dal loro splendore, dal loro colore e dallo stesso loro numero.
Occupiamoci anzitutto di quest’ultimo: è il numero sette, cifra sacra che ritroviamo ovunque, nei giorni della settimana, nell’enumerazione dei pianeti e delle zone celesti, in quella dei metalli, dei colori, delle corde della lira e dei toni musicali, delle vocali dell’alfabeto greco così come nel numero delle stelle della grande orsa, in quello dei saggi della Grecia, delle porte di Tebe e dei capi che le assediavano secondo Eschilo.
L’origine di questo numero sembra essere astronomica e corrispondere alle fasi della luna, vale a dire al numero dei giorni che rappresentano i quarti della rivoluzione di quest’ astro. Non si tratta di una opinione a priori. La si trova in effetti segnalata in Aulo Gellio, che la attribuisce ad Aristide di Samo (2). Nel papiro W di Leida, si parla delle 28 luci della luna.
L’uso della settimana era antico in Egitto e in Caldea, come è testimoniato da diversi monumenti e dal racconto della creazione nella Genesi. Ma non esisteva nella Grecia classica e non diviene d’uso corrente a Roma che al tempo degli Antonini (3). È solo all’epoca di Costantino e dopo il trionfo del Cristianesimo che esso fu riconosciuto come misura legale della vita civile: da allora esso è divenuto universale presso i popoli europei.
Il caso vuole che il numero degli astri erranti (pianeti) visibili ad occhio nudo, che circolano o sembrano circolare nel cielo intorno alla terra, sia precisamente sette: sono il Sole, la Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere e Saturno. A ciascun giorno della settimana, in oriente, fu attribuito un astro: gli stessi nomi dei giorni, così come oggi li pronunciamo, continuano a trasmetterci, a nostra insaputa, questa consacrazione babilonese.
A lato dei sette Dei delle sfere ignee, i Caldei invocavano i sette dèi del cielo, i sette dèi della terra, i sette dèi malvagi etc..
Secondo François Lenormant le iscrizioni cuneiformi menzionano le sette pietre nere, adorate nei principali templi d’Ouroukh in Caldea, sassi personificanti i sette pianeti. È alla stessa associazione che si rapporta, senza dubbio, un passaggio del racconto di Filostrato sulla vita di Apollonio di Tiana (III, 41), nel quale si parla di sette anelli dati a questo filosofo dal brahmano Iarchas.
La conoscenza delle divinità planetarie della settimana non si è diffusa nel mondo greco-romano che a partire dal I secolo della nostra era (4). Si è ritrovata a Pompei una pittura rappresentante le sette divinità planetarie. La stessa raffigurazione si ravvisa su diversi altari sulle sponde del Reno. Una medaglia con l’effige di Antonino I, coniata l’ottavo anno del suo regno, rappresenta i busti dei sette dèi planetari con i segni delle zodiaco, ed al centro il busto di Serapis (5).
Un’altra coincidenza altrettanto fortuita di quella del numero dei pianeti  con il quarto della rivoluzione lunare, ovvero quella del numero delle vocali dell’alfabeto greco, ha moltiplicato questi accostamenti mistici, soprattutto al tempo degli gnostici; le pietre incise della Bibliothèque Nationale di Parigi ed i papiri di Leida ne forniscono una moltitudine di esempi. E non è tutto: I Greci, col loro spirito ingegnoso, non tardarono ad immaginare tra i pianeti ed i fenomeni fisici delle relazioni pseudo-scientifiche, di qui qualcuna, come il numero dei toni musicali e dei colori, si è conservata. È così che la scuola di Pitagora stabilisce un rapporto geometrico di toni e diapason musicali con il numero e la distanza stessa tra i pianeti (6).
Allo stesso modo il numero dei colori fu fissato a sette. Questa classificazione arbitraria è stata consacrata da Newton ed è arrivata fino ai fisici dei nostri tempi. Essa risale ad una remota antichità. Erodoto riporta (Clio, 98) che la città di Ecbatane aveva sette cinte di mura, ognuna dipinta di un differente colore; l’ultima era dorata, quella che la precedeva argentata. È, credo, la più vecchia menzione che stabilisca la relazione del numero sette con i colori ed i metalli. La favolosa città degli Atlanti, nel racconto di Platone, è parimenti circondata di mura concentriche, di cui le ultime sono dipinte d’ro e d’argento; ma non vi ritrova il mistico numero sette.
Tra i metalli ed i pianeti l’accostamento risulta non solo per il loro numero, ma soprattutto per il loro colore. Gli astri si manifestano alla vista con delle colorazioni sensibilmente distinte; suus cuique color est, dice Plinio (H. N., II, 16). La diversa natura dei colori ha fortificato l’ccostamento tra pianeti e metalli. In questo modo si concepisce facilmente l’ssimilazione dell’oro, il più brillante ed il re dei metalli, con la gialla luce del sole, il dominatore dei cieli. La più antica indicazione che si possegga al riguardo si trova in Pindaro. La quinta ode delle Istmiche comincia con queste parole: «Madre del sole, Thia, conosciuta sotto molti nomi, è a te che gli uomini debbono la potenza preponderante dell’oro».
In Esiodo, Thia è una divinità madre del sole e della luna, ovvero generatrice dei principi della luce (Teogonia, 371, 374). Un vecchio scoliaste commenta questi versi dicendo: «da Thia ed Iperione viene il sole, e dal sole l’oro. A ciascun astro è assegnata una materia. Al Sole l’oro, alla Luna l’argento, a Marte il ferro, a Saturno il Piombo, a Giove l’elettro, ad Hermes lo stagno, a Venere il rame (7)». Questo commento risale all’epoca alessandrina. Le assimilazioni di cui si fa cenno erano originariamente del tutto naturali.
In effetti, se il colore giallo e brillante del sole richiama quello dell’oro

…. orbem
Per duodena regit mundi sol aureus astras
(8);

la bianca e dolce luce della luna è stata in ogni tempo assimilata alla tinta dell’argento. La luce rossastra del pianeta Marte (igneus, secondo Plinio; πυρόεις secondo gli alchimisti) ha subito richiamato la vividezza del sangue e quella del ferro, consacrato alla divinità del medesimo nome. È così che Didimo, nel suo commentario sull’Iliade (I, V), commentario di poco anteriore all’era cristiana, parla di Marte, definito l’astro del ferro. Lo splendore blu-fiamma di Venere, la stella della sera e del mattino, richiama parimenti la tinta del sale di rame, metallo il cui nome è tratto da quello dell’isola di Cipro, consacrata alla dea Cypris, uno dei nomi greci di Venere. Da ciò l’accostamento presentato dalla maggior parte degli autori. Tra la tinta bianca e opaca del piombo e quella del pianeta Saturno, la parentela è più stretta ancora ed essa è costantemente invocata all’epoca alessadrina. I colori e i metalli assegnati a Mercurio scintillante (στίλδων: radians, secondo Plinio; apparenza dovuta alla sua vicinanza col sole) ed allo splendente Giove (Φαέτων) hanno variato di più, come dirò a breve. 
Tutte queste attribuzioni sono strettamente legate alla storia dell’astrologia e dell’alchimia. In effetti, nello spirito degli autori dell’epoca alessandrina, non sono pure e semplici associazioni, ma si tratta piuttosto dell’idea della generazione stessa dei metalli, che si supponevano prodotti sotto l’influenza degli astri nel seno della terra.
Proclo, filosofo neoplatonico del V secolo della nostra era, nel suo commentario sul Timeo di Platone, espone che «l’oro naturale, l’argento e ciascuno dei metalli, così come le altre sostanze, sono generate nella terra sotto l’influenza delle divinità celesti e dei loro effluvi. Il Sole produce l’oro, la Luna l’argento, Saturno il piombo, e Marte il ferro» (p. 14 C).
L’espressione definitiva di queste dottrine astrologico-chimiche e mediche, si trova nell’autore arabo Dimeschqui, citato da Chwolson (Sui Sabei, t. II, p. 380, 396, 411, 544). Secondo questo autore, i sette metalli sono in relazione con i sette astri brillanti, per il loro colore, la loro natura e le loro proprietà; essi concorrono a formarne la sostanza. Il nostro autore afferma che presso i Sabei, eredi degli antichi Caldei, i sette pianeti erano adorati come divinità; ciascuno aveva il suo tempio e, nel tempio, la sua statua fatta col metallo che gli era stato dedicato. Così il sole aveva una statua d’oro, la Luna una statua d’argento, Marte una di ferro, Venere una di rame, Giove una di stagno, Saturno di piombo. Quanto al pianeta Mercurio, la sua statua era fatta di una lega di tutti i metalli, e nel cavo della forma vi si versava una gran quantità di mercurio. Si tratta di racconti arabi, che ricordano le teorie alchemiche sui metalli e in modo particolare sul mercurio, che veniva considerato materia prima dei metalli. Ma questi racconti si basano su antiche tradizioni deformate relative all’adorazione dei pianeti, a Babilonia e in Caldea, ed alla loro relazione con i metalli.
Esiste, in effetti, una lista analoga del secondo secolo della nostra era. È un passaggio di Celso citato da Origene (Opera, t. I, p. 646; Contra Celsum, libro VI, 22; edizione di Parigi, 1733). Celso espone la dottrina dei Persi ed i misteri mitriaci, e ci comunica che tali misteri erano espressi attraverso un certo simbolo rappresentante le rivoluzioni celesti ed il passaggio delle anime attraverso gli astri. Era una scala, munita di sette porte elevate con un’ottava alla sommità.
La prima porta era di piombo ed era assegnata a Saturno, la lentezza di questo astro essendo  espressa dalla pesantezza del metallo (9).
La seconda era di stagno, assegnata a Venere, la cui luce ricordava lo splendore e la malleabilità di questo corpo.
La terza porta è di bronzo, assegnata a Giove, a causa della resistenza del metallo.
La quarta porta era di ferro, assegnata ad Hermes, essendo questo metallo utile al commercio, e  prestandosi ad ogni specie di lavoro.
La quinta porta, assegnata a Marte, era formata da una lega di rame monetario, ineguale e impura.
La sesta era d’argento, consacrata alla Luna, mentre la settima porta era d’oro, consacrata al sole, corrispondendo i due metalli al relativo colore degli astri.
Le attribuzioni dei metalli ai pianeti presso i Neoplatonici non sono affatto le stesse che per gli alchimisti. Esse sembrano obbedire ad una tradizione un po’ differente, di cui si trovano d’altronde altri indizi. In effetti, secondo Lobeck (Aglaophamus, p. 936, 1829), in certe liste astrologiche, Giove è assegnato al bronzo, e Marte al rame.
Si ritrova traccia di una più profonda e più antica diversità in una vecchia lista alchemica riprodotta in diversi manoscritti alchemici o astrologici, in cui il segno di ciascun pianeta è seguito dal nome del metallo e dei corpi derivati o congeneri, messi sotto il patrocinio del pianeta. Questa lista esiste anche nel manoscritto 2.419 della nostra Bibliothèque Nationale, in cui essa fa parte di un trattato astrologico di Albumazar, autore del IX secolo, con delle varianti e correzioni che non sono senza importanza: una parte delle parole greche vi sono d’altronde scritte in caratteri ebraici, come se esse avessero un senso misterioso (vedi nel volume dei testi greci, p. 24). In questa lista la maggior parte dei pianeti corrisponde ai medesimi metalli delle ordinarie enumerazioni, ad eccezione del pianeta consacrato ad Hermes, al cui seguito si ritrova non il nome di un metallo, ma quello di una pietra preziosa: lo smeraldo. Ciò nonostante il mercurio è aggiunto verso la fine dell’enumerazione delle sostanze consacrate ad Hermes, me è come se fosse stato aggiunto solo in seguito. Ora, presso gli Egiziani, secondo Lepsius, la lista dei metalli comprendeva accanto all’oro, all’argento, al rame e al piombo, i nomi delle pietre preziose, come il mafek o smeraldo, ed il chesbet o zaffiro, corpi assimilati ai metalli a causa del loro splendore e del loro valore (10).
Nel racconto egiziano di Satni-Khâm-Ouas, il libro magico di Thot è racchiuso in sette case concentriche di ferro, di bronzo, di legni di palma, d’avorio, d’ebano, d’argento e d’oro (11). La redazione primitiva di questo racconto risalirebbe alle ultime dinastie; la sua trascrizione nota, al tempo dei Tolomei. Tutto ciò concorre a stabilire che la lista dei sette metalli non si è stabilizzata che assai tardi, probabilmente verso l’epoca degli Antonini.
È ora tempo di parlare delle tavolette metalliche rinvenute a Khorsabad. Nel corso degli scavi del 1854, il signor Place scoprì, sotto una delle pietre angolari del palazzo assiro di Sargon, un cofanetto contenente sette tavolette. Erano tavolette votive, destinate a ricordare la fondazione dell’edificio (706 anni avanti Cristo) ed a servirgli, in un certo qual modo, da Palladium. Quattro di queste tavolette si trovano oggi al museo del Louvre. Ne ho fatto l’analisi, ed i risultati del mio studio sono descritti più oltre nel presente volume. Mi limiterò qui a dire che le quattro tavolette sono nei fatti costituite da oro, argento, bronzo e carbonato di magnesio puro, minerale raro che non si supponeva conosciuto dagli antichi, ed il cui impiego si ricollegava senza dubbio a qualche idea religiosa. I nomi delle materie delle tavolette, tali come sono indicati nelle iscrizioni che le ricoprono, sono, secondo il sig. Oppert l’oro (hurasi), l’argento (kaspi), il rame (urudi o er [bronzo]), poi due parole (anaki e kasazatiri o abar) che le interpretazioni hanno tradotto con piombo e stano, benché una delle due sembri in realtà designare la quarta tavoletta segnalata sopra (quella di carbonato di magnesio), ed infine due nomi che si riferiscono a corpi che portano il determinativo delle pietre, e tradotti per marmo (sipri o zakour) ed alabastro (gis-sin-gal). Nulla indica d’altronde attribuzioni planetarie, se non questo numero sette. Aggiungiamo tuttavia che, secondo un chiarimento che mi ha fornito il sig. Oppert, due metalli erano designati dagli Assiri e dai Babilonesi con una denominazione divina: il ferro, con il nome di Ninip, dio della guerra, ed il piombo, sotto il nome del dio Anu, dio del cielo assimilabile a Saturno: tuttavia non si tratterebbe di divinità planetarie.
Ecco ciò che ho potuto sapere relativamente all’interpretazione dei nomi metallici contenuta in queste tavolette. Uno dei punti più essenziali che risulta dal loro studio è l’assimilazione di certe pietre o minerali ai metalli, esattamente come per gli Egiziani.
Vi è in ciò il ricordo di associazioni mentali assai differenti dalle nostre, ma che l’umanità ha considerato d’altronde come naturali, la cui conoscenza è necessaria per comprendere le idee degli antichi. Tuttavia questa assimilazione tra pietre preziose e metalli è scomparsa presto, mentre si è continuato per lungo tempo a piazzare tra i metalli puri come l’oro, l’argento, il rame, certe loro leghe come ad esempio l’electrum ed il bronzo. Da ciò discendono importanti variazioni nei segni dei metalli e dei pianeti.
Rintracciamo la storia dei queste variazioni; è interessante descriverle per meglio comprendere gli scritti alchemici.
Olimpiodoro, neoplatonico del VI secolo, attribuisce il piombo a Saturno, l’electrum – lega di oro e argento considerata un  metallo a sé – a Giove,  il ferro a Marte, l’oro al Sole, il bronzo o rame a Venere, lo stagno a Hermes (il pianeta Mercurio), l’argento alla Luna. Queste attribuzioni sono le stesse di quelle dello scoliaste di Pindaro citato in precedenza; esse corrispondono esattamente punto per punto ad una lista del manoscritto alchemico di San Marco, redatto nel XI secolo, che racchiude documenti assai antichi.  
I simboli alchemici che figurano nei manoscritti comprendono i seguenti metalli, il cui ordine e le attribuzioni sono per la maggior parte dei casi costanti.
1° – L’oro corrisponde al Sole, relazione che ho esposto già in precedenza (p. 77, vedi fig. 1). Il segno dell’oro è quasi sempre quello del sole, ad eccezione di una notazione isolata che sembra corrispondere ad una abbreviazione (ms. 2.327, fol 17 verso, 1. 19; fig. 2).

1 – Dall’alto verso il basso: Oro, limatura d’oro, foglie d’oro (con un secondo segno a destra di mano più recente), oro calcinato (fuso). Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

 

2 -Un altro segno dell’oro (secondo Berthelot probabilmente una abbreviazione) tratto dal manoscritto 3227 della Bibliothèque Nationale di Parigi, foglio 17, verso.  (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 120). 

 

 

2° – L’argento corrispondeva alla Luna ed è sempre espresso dal segno planetario (fig. 3).

3 – Dall’alto verso il basso: Argento, terra d’argento, limatura d’argento, foglie d’argento. Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

3° – L’electrum, lega d’oro e d’argento: questa lega era reputata un metallo particolare presso gli Egiziani, che la designavano col nome di Asèm nome che si è più tardi confuso col greco asemon, argento non lavorato. Questa lega forniva a volontà, a seconda dei trattamenti, oro o argento. È descritta da Plinio, e fu considerata fino al tempo dei Romani come un metallo distinto. Il suo segno era quello di Giove attribuzione che ritroviamo già in Zosimo, autore alchemico del III o IV secolo della nostra era.
Quando l’electrum (fig.4) scomparve dalla lista dei metalli, il suo segno fu destinato allo stagno, che fino ad allora corrispondeva al pianeta Mercurio (Hermes). Le nostre liste di segni recano traccia di questo cambiamento. In effetti la lista del manoscritto di San Marco riporta: «Giove splendente, electrum» (fig.5), e queste parole si ritrovano, sempre a lato del segno planetario, nel ms. 2.327 della Bibliothèque Nationale di Parigi, fol. 17 recto, I. 16; la prima lettera della parola Zeus, figura sotto due forme differenti (maiuscola e minuscola). Al contrario, un poco più oltre, in un’altra lista di quest’ultimo manoscritto (fol. 18, verso, I. 5) il segno di Giove è assegnato allo stagno. Gli stessi cambiamenti sono attestati nella lista planetaria che citeremo più oltre.

4 – Electrum, con un secondo segno a destra di mano più recente. Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (ccfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

5 – Κρόνος φαίνων μόλιδος, Saturno brillante, piombo. Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

4 – Il piombo, corrispondeva a Saturno: questa attribuzione non ha subito alcun cambiamento, benché il piombo abbia diversi segni distinti nelle liste (Ms di San Marco; fol. 6, ultima riga a sinistra: ms. 2.327, fol 17 recto, 1. 11 e 12). Il piombo (fig. 6) era considerato dagli alchimisti egiziani come il generatore degli altri metalli e la materia prima della trasmutazione; il che si spiega con le sue qualità apparenti, che lo rendono simile a diversi altri corpi semplici e leghe metalliche.
In effetti, questo nome si applicava in origine ad ogni metallo o lega metallica bianca e fusibile; egli abbracciava lo stagno (piombo bianco ed argenteo, in Plinio opposto al piombo nero o piombo propriamente detto) e le numerose leghe che derivavano da questi due metalli, associati tra loro e con l’antimonio, lo zinco, il bismuto etc.. Le idee attuali sui metalli semplici od elementari in opposizione ai metalli composti o leghe, non si sono formate che a poco a poco nel corso dei secoli. Ciò è facilmente intuibile, d’altronde dal momento che nulla di evidente a prima vista permette di stabilire una relazione tra queste due categorie di corpi.

6 – Κρόνος φαίνων μόλιδος, Saturno brillante, piombo. Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

 

5 – Il ferro corrispondeva a Marte. Questa attribuzione è la più ordinaria. Ciò nonostante, nella lista di Celso, il ferro corrisponde al pianeta di Hermes.
Lo stesso segno del pianeta Marte si trova talvolta associato allo stagno in qualcuna delle liste (ms. 2.327, fol. 16, verso, I. 12, 3° segno [fig. 7]). Questo ricorda ancora una volta la lista di Celso, che assegna a Marte la lega monetaria. Marte ed il ferro hanno due segni distinti, benché comuni al metallo ed al pianeta, ovvero: una freccia con la sua punta, ed un θ abbreviazione della parola θυράς, antico nome del pianeta Marte;

7 – ”Αρες πυρόεις σίδερος, Marte infiammato, ferro. Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

6 – Il rame corrispondente ad Afrodite (Venere) o Cypris, dea dell’isola di Cipro, dove si trovavano miniere di questo metallo; dea assimilata anche ad Hator, la divinità egiziana multicolore, di cui i derivati blu, verdi, gialli e rossi del rame richiamavano appunto le differenti colorazioni. Il segno del rame è in effetti quello del pianeta Venere (fig. 8); salvo un doppio segno che è una abbreviazione (Collection vol I, fig. 8, Pl. VI, 1. 4).

8 – ’ Αφροδίτη φοσφόρος χαλκòς, Venere luminosa, rame. Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

Tuttavia la lista di Celso attribuisce il rame a Giove e la lega monetaria a Marte, etc.. La confusione tra ferro e rame, o piuttosto il bronzo, anch’esso attribuito al pianeta Marte, era anticamente presente: essa è attestata dalla confusione dei nomi: la parola aes che esprime il bronzo in latino deriva dal sanscrito ayas che significa ferro (12). Era, senza dubbio, in un remota antichità, il nome del metallo degli utensili e delle armi, quello del metallo duro per eccellenza.
7 – Lo stagno corrisponde dapprima al pianeta Mercurio o Hermes. Quando Giove cambiò metallo e venne assegnato allo stagno, il segno del pianeta primitivo di questo metallo passò al mercurio (vedi in seguito fig. 10).
 La lista di Celso attribuisce lo stagno a Venere; il che ricorda ancora l’antica confusione del rame e del bronzo.
8 – Mercurio. Il mercurio, ignorato, ci pare, dagli antichi Egiziani, ma conosciuto a partire dal tempo della guerra del Peloponneso, e di conseguenza nel periodo alessandrino, fu da principio visto come una sorta di contro-argento e rappresentato dal segno della luna rovesciato (fig. 9). Non se ne fa menzione nella lista di Celso (II sec). Tra il VI secolo (lista di Olimpiodoro il Filosofo, citata in precedenza) ed il VII secolo della nostra era (lista di Stefano d’Alessandria, che sarà data successivamente) il mercurio prende (fig. 10) il segno del pianeta Hermes, divenuto libero in seguito ai cambiamenti d’assegnazione relativi allo stagno. Nella lista planetaria esso è stato ugualmente aggiunto a cose fatte, a seguito delle derive di questo pianeta, specialmente assegnato allo smeraldo (vedi Collection, vol. I, . p. 79).

9 – l primo segno associato al mercurio, la luna rovesciata in senso opposto a quello utilizzato per indicare l’argento. Riproduzione dal Manoscritto Marciano, fol. 6 (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 104).

10 – Il segno planetario del mercurio associato al metallo mercurio (Hermes), ) tratto dal manoscritto 3227 della Bibliothèque Nationale di Parigi, foglio 18, verso  (cfr. l’Introduction alla Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 120).

Queste nuove attribuzioni e queste relazioni astrologico-chimiche sono espresse nel seguente passaggio di Stefano: «Il demiurgo colloca al principio Saturno, e di fronte il piombo, nella prima  regione più elevata; in secondo luogo egli pone, nella seconda regione,  Jupiter di fronte allo stagno; egli piazza Marte per terzo, di fronte al ferro, nella terza regione; piazza il Sole per quarto, nella quarta regione, di fronte all’oro; pone Venere per quinta, nella quinta regione, di fronte al rame; Pone Mercurio per sesto, nella sesta regione, di fronte all’argento vivo; egli pone la luna per settima, di fronte all’argento, nella settima ed ultima regione (13)». Nel manoscritto, al di sopra di ciascun pianeta o di ciascun metallo, si trova il suo simbolo. Ma, circostanza caratteristica, il simbolo del pianeta Mercurio e quello del metallo corrispondente non sono ancora glis tessi, malgrado il confronto stabilito tra loro; il metallo è ancora rappresentato da una mezzaluna rovesciata. Il mercurio e lo stagno hanno dunque ciascuno due segni differenti, nella nostra lista, a seconda delle epoche.
La copia della lista planetaria data da Albumasar (IX secolo) e tradotta in ebraico ed in Greco nel manoscritto 2419 (fol. 46 verso) porta anch’essa la traccia di questi cambiamenti (testo greco I, VIII, p. 24, note). Non solo il segno del pianeta Hermes corrisponde allo smeraldo ed il nome di Mercurio è palesemente aggiunto a cose fatte ed alla fine, come è stato detto in precedenza; ma l’autore indica che i Persiani assegnano lo stagno al pianeta Hermes. Ugualmente, essendo il pianeta Giove seguito dallo stagno, l’autore aggiunge che i Persiani non effettuano la medesima assegnazione, ma destinano piuttosto questo pianeta al metallo argentato (nota); il che si riferisce evidentemente all’asèm o electrum, la cui esistenza era già dimenticata al IX secolo. Si tratta di ricordi delle primitive attribuzioni.
Ecco i segni planetari dei metalli fondamentali, segni che si ritrovano in quelli dei corpi che ne derivano; ciascuno dei derivati essendo rappresentato da un segno doppio, di cui uno è quello del metallo, e l’altro risponde al procedimento attraverso cui il detto metallo è stato modificato (divisione meccanica, calcinazione, lega, ossidazione etc.).
I principi generali di queste nomenclature sono stati dunque meno modificati di quanto si sarebbe portati a credere, è lo spirito umano ha proceduto seguendo delle regole e dei sistemi di segni che sono rimasti pressappoco gli stessi lungo lo scorrere del tempo. Ma conviene osservare che le analogie fondate sulla natura delle cose, vale a dire sulla composizione chimica, tale quale è dimostrata dalla generazione reale dei corpi e dalle loro metamorfosi realizzate nella natura o nei laboratori, sussistono e rimangono il fondamento delle nostre notazioni scientifiche; invece, le analogie chimiche dell’antichità tra i pianeti ed i metalli, fondati su idee mistiche senza base sperimentale, sono cadute in un giusto discredito. Ciò nonostante la loro conoscenza conserva ancora un certo interesse per l’intelligibilità dei vecchi testi e per la storia della scienza.

 

 

11 – La riproduzione di Berthelot del fol. 6 del manoscritto di San Marco la cui intestazione recita: «Segni della scienza che si trovano negli scritti tecnici dei filosofi: sono soprattutto i segni di ciò che essi chiamano la Filosofia mistica»  (Collection des anciens alchimistes grecs, Steinheil éditeur, Paris 1887, vol. I, p. 120)..

 

NOTE:

(1)  Questo articolo è stato pubblicato nella mia opera intitolata Science et Philosophie. Tuttavia ho creduto doverlo riprodurre in questa sede con alcuni nuovi sviluppi, poiché esso è indispensabile all’intelligenza dei testi e delle notazioni alchemiche.
(2) Noctes Atticae, III, 10. Lunae curriculum confici integris, quatuor septenis diebus…auctorem que hujus opinionis Aristidem esse Samium.
(3) Dion Cassius, Storia Romana, XXXVII, 18.
(4) Lunae cursum stellarumque septem imagines.  Petronio, Satyricon, 30.
(5) De Witte, Gazette  Archeologique, 1877 e 1879.
(6) Plinio, H. N. II, 20. – Th. H. Martin, Timée de Platon, t. II, p. 38. 
(7) Pindaro, edizione di Boeckh, t. II, p. 540, 1819.
(8) Virgilio, Georgiche, I, 432.
(9) Saturni sidus, gelidae ac rigentis esse naturae, Plinio, H. N., II, 6.
(10) Vedere i metalli egiziani nella mia opera Les Origines de l’alchimie, p. 221 e 233, Steinheil, 1883.
(11) Histoire ancienne de l’Orient, di Fr. Lenormant, 9a ediz., t. III, p. 158 (1883).
(12) Les Origines de l’alchimie, cit. p. 225. 
(13) Manoscritto 2327, folio 73, verso.