pagina on-line dal 22/04/2012

Un ritratto di Marcelin Berthelot intorno al 1901.

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Marcelin Berthelot

 

LE ORIGINI MISTICHE

Capitolo II tratto da M. Berthelot, Les origines de l’alchimie, Paris, Steinheul, 1885, pp. 9-20.

Traduzione di Massimo Marra ©, tutti i diritti riservati, riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.

Il testo che presentiamo di seguito è dovuto alla penna di Marcelin Berthelot (1827-1907) uno dei padri della storia della chimica, chimico ed uomo politico insigne (eletto senatore, ricoprì, in  momenti diversi, l’incarico di ministro della pubblica istruzione e di ministro degli affari pubblici) autore di opere capitali di storia della scienza come La chymie au Moyen Age, Les Origines de l’alchimie, la Collection des Anciens alchimistes Grecs, l‘Introduction à la chimie des anciens et du moyen age, e di un notevole numero di saggi e ricerche sperimentali di chimica applicata (si ricordano, oltre alle ricerche sulla sintesi dell’etanolo, del metano, dell’acido formico, dell’acetilene e del benzene, le importanti ricerche nel campo della termochimica – la branca della chimica che studia le variazioni calorimetriche nel corso delle reazioni chimiche – e degli esplosivi) apparsi sulle principali riviste scientifiche del tempo. Le opere del Berthelot, specie le raccolte di testi alchemici in edizione critica (i tre volumi della Collection ed i tre della Chymie au moyen age) hanno conosciuto diverse ristampe, anche in tempi recenti. In pratica, non esiste opera moderna sull’alchimia che non sia, in maniera diretta o indiretta, debitrice dell’opera gigantesca di raccolta, collazione, classificazione ed analisi critica di Marcelin Berthelot.
Buona lettura.
M. M.

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Avvertenza: I testi in greco antico riferiti alle citazioni nel testo, nell’originale francese inseriti in nota, sono stati soppressi per esigenze tecniche di impaginazione web.

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«Le Sante Scritture raccontano che c’è un certo genere di demoni che ha commercio con le donne. Hermes ne ha parlato nei suoi libri sulla natura. Le antiche e sante Scritture dicono che certi angeli, innamoratisi delle donne, discesero sulla terra, gli insegnarono le opere della natura, ed a causa di ciò furono scacciati dal cielo e condannati ad un esilio perpetuo. Da questo commercio nacque la razza dei giganti. Il libro nel quale essi insegnarono le arti è chiamato Chêma: da ciò il nome di Chêma: applicato all’arte per eccellenza». Così parlava Zosimo il panopolitano, il più antico dei veri alchimisti, esponendo le origini della Chimica nel suo libro Imouth (ovvero dedicato a Imothep, dio egizio), libro indirizzato a sua sorella Theosebia. Questo passaggio è citato da Giorgio Sincello, poligrafo greco dell’VIII secolo (1).
Altri ci dicono che queste opere della natura, maledette e inutili, insegnate dagli angeli caduti alle loro spose, erano l’arte dei veleni, dei segreti dei metalli e delle incantagioni magiche (Tertulliano).
Il nome del libro Chêma si ritrova in Egitto sotto la forma Chemi, titolo di un trattato citato in un papiro della XII dinastia e raccomandato da uno scriba a suo figlio (2). È probabile che il soggetto del trattato fosse del tutto differente. Si trattava di un vecchio titolo, ripreso più tardi per trarne autorità, come avveniva sovente nell’antichità.
Comunque sia, il passaggio di Zosimo è dei più caratteristici. Senza concludere, con gli adepti del XVII secolo, che l’alchimia era già conosciuta prima del diluvio (3), è certo che essa ci richiama in mente le immaginazioni che avevano corso in Oriente nei primi secoli dell’era cristiana. Isis, nel suo discorso al figlio Horus, altra opera alchemica delle più antiche, racconta allo stesso modo che la rivelazione le fu fatta da Amnael, il primo degli angeli e dei profeti,  come ricompensa del suo commercio con  lui.
Qualche strana riga del capitolo V della Genesi, probabilmente di origine babilonese, è servita da punto di ancoraggio a queste immaginazioni. «E i figli di Dio, vedendo che le figlie degli uomini erano belle, si presero per mogli quelle che fra tutte piacquero loro di più» (4). Da questo accoppiamento nacque una razza di giganti, la cui empietà fu la causa del diluvio.
La loro origine è collegata a Enoch. Enoch stesso è figlio di Caino e fondatore della città che porta il suo nome, in una delle genealogie riportate nella Genesi (cap. IV); egli discendeva, al contrario, da Seth, e disparve misteriosamente dal mondo, secondo una seconda genealogia (capitolo V). A questo personaggio equivoco si attribuisce un’opera apocrifa composta poco avanti dell’era cristiana, il Libro di Enoch, che gioca un ruolo importante nei primi secoli del Cristianesimo. Giorgio Sincello ci ha conservato dei frammenti considerevoli di questo libro, ritrovato poi in una versione etiopica. Ne esiste una traduzione francese nel Dictionnaire des Apocryphes di Migne, t. I, p. 395-514.
In questo libro, ci sono ugualmente gli angeli peccatori che rivelano ai mortali le arti e le scienze occulte. «Essi abitavano con loro e gli insegnavano la magia, le incantagioni, le proprietà delle radici e degli alberi… I segni magici… l’arte di osservare le stelle… gli insegnavano anche – dice ancora il libro di Enoch parlando di uno di questi angeli – l’uso dei braccialetti e degli ornamenti, l’uso della pittura, l’arte di dipingersi le sopraciglia, l’arte di impiegare le pietre preziose ed ogni sorta di tintura, di modo che il mondo fu corrotto».
Gli autori del II e del III secolo della nostra era ritornano sovente su questa leggenda. Clemente d’Alessandria la cita (verso il 200 della nostra era) nei suoi Stromata, I, V. Tertulliano ne parla lungamente: «Essi trasmisero il segreto dei piaceri mondani; diedero loro l’oro, l’argento e le loro opere; essi insegnarono l’arte di tingere i velli» (5). E ancora: «Essi scoprirono gli incanti mondani, quelli dell’oro, delle pietre brillanti e delle loro opere» (6). D’altronde Tertulliano dice ancora: «Essi misero a nudo i segreti dei metalli; fecero conoscere le virtù delle piante e la forza delle incantagioni magiche, e descrissero quelle dottrine singolari che si estendono fino alla scienza degli astri» (7). Si vede quanto l’autore è preoccupato dai misteri dei metalli, vale a dire dall’alchimia, e come egli la associa con l’arte della tintura e la fabbricazione delle pietre preziose, associazione che forma le base stessa dei vecchi trattati alchemici del tempo, ritrovati nei papiri e nei manoscritti. La magia e l’astrologia, così come la conoscenza delle virtù delle piante, dei rimedi e dei veleni, sono confuse da Tertulliano con l’arte dei metalli in una medesima maledizione, e questa maledizione è durata per tutto il Medio Evo. D’altra parte Tertulliano assimila questi angeli che hanno abbandonato Dio per amore delle donne e rivelato le arti interdette al mondo inesperto (8), ai loro discepoli, ovvero i magi, gli astrologi ed i matematici (9), e stabilisce un parallelo tra l’espulsione di questi da Roma e quella degli angeli dal cielo (10).
Mi è sembrato necessario riportare queste citazioni al fine di delineare l’epoca nella quale Zosimo scriveva: è l’epoca nella quale le immaginazioni relative agli angeli peccatori ed alla rivelazione delle scienze occulte, astrologia, magia, e alchimia, avevano corso nel mondo. Si tratta del III secolo della nostra era. Il papiri di Leida presentano allo stesso modo le ricette chimiche associate alle ricette magiche.
La proscrizione di coloro che coltivavano queste scienze non era solo un voto di Tertulliano, essa era effettiva, e ciò ci spiega la cura con la quale questi scrittori si nascondevano e dissimulavano le loro opere sotto la copertura dei nomi più autorevoli. Essa ci riporta a fatti ed analogie storiche indubbie.
La condanna dei matematici, vale a dire degli astrologi, maghi ed altri seguaci delle scienze occulte, era di diritto comune a Roma. Tacito ci racconta che sotto il regno di Tiberio si promulgava un editto per scacciare dall’Italia i maghi ed i matematici: uno d’essi, Pituanius, fu messo a morte e precipitato dall’alto di una rupe (11). Sotto Claudio, sotto Vitellio, nuovi senatoconsulti (12), atroci ed inutili, aggiunge Tacito. In effetti, egli dice, questo genere di uomini che eccita delle speranze ingannevoli è sempre proscritto e sempre ricercato (13). 
L’esercizio della magia, ed anche la conoscenza di questa arte, erano reputati criminali e proibiti a Roma, così come ci comunica formalmente Paolo, giureconsulto dei tempi degli Antonini (14). Paolo ci fa sapere che era proibito il possedere dei libri magici. Allorquando li si scopriva, li si bruciava pubblicamente e se ne deportava il possessore; se quest’ultimo era di bassa condizione, lo si metteva a morte. Tale era la pratica costante del diritto romano (15). Ora, l’associazione della magia, dell’astrologia e dell’alchimia, è evidente nei passaggi di Tertulliano citati in precedenza. Questa associazione era praticata in modo particolare in Egitto.
Il papiro di Leida, trovato a Tebe, completa e precisa questa associazione tra alchimia, astrologia e magia, perché ci mostra che gli alchimisti aggiungevano alla loro arte, secondo l’uso dei popoli primitivi, formule magiche adatte a conciliarsi ed anche a forzare la volontà degli dei (o dei demoni), esseri superiori che si supponevano intervenire perpetuamente nel corso delle cose.
La legge naturale agente di per sé stessa, era una nozione troppo semplice e troppo forte per la maggior parte degli uomini di allora: bisognava sostituirla con ricette misteriose. L’alchimia, l’astrologia e la magia sono così associate e mescolate nello stesso papiro (16). Osserviamo lo stesso mescolamento in certi manoscritti del medio evo, come il manoscritto greco 2.419 della Biblioteca Nazionale.
Ciò nonostante, le formule magiche ed astrologiche non si ritrovano più in generale nella maggior parte dei trattati alchemici propriamente detti. Ciò rende ancor più interessante segnalare le tracce che sussistono ancora. Tali sono i disegni  misteriosi, designati col nome di Chrysopea o Arte di fare l’oro di Cleopatra (17) e gli allfabeti magici del manoscritto 2.249, analoghi a quelli di un papiro citato da Reuvens (18) e di cui M. Leemans ha riprodotto il fac-simile (19). Era la teoria dell’uovo filosofico, il gran segreto dell’opera, simbolo dell’universo e dell’alchimia, che, soprattutto, dava luogo a queste immaginazioni. I segni bizzarri (20) dello Scorpione ed i caratteri magici riportati sui nostri manoscritti, la sfera, o strumento d’Hermes per predire la venuta delle malattie (21), di cui gli analogi si ritrovano sia nel manoscritto 2419 che nel papiro di Leida; la tavola di Smeraldo, citata per tutto il Medio Evo, e le formule mistiche: «in alto le cose celesti, in baso le cose terrestri» che si leggono nei trattati greci a lato delle figure degli apparecchi (22), attestano la medesima associazione. Se essa non è più frequente nelle opere pervenute fino a noi, è probabilmente perché questi manoscritti sono stati epurati nel Medio Evo dai loro copisti cristiani. È ciò che si vede chiaramente nel manoscritto greco della biblioteca di Saint Marc, il più antico di tutti, poiché sembra risalire all’XI secolo. Vi si trova non solo la Chrysopea di Cleopatra (fol. 188) e la formula dello Scorpione (fol. 193), ma anche il Labirinto di Salomone (fol. 102, v°), disegno cabalistico, e, sotto forma di addizione iniziale (fol. 4), una sfera astrologica, l’arte di interpretare i sogni di Niceforo, così come dei pronostici per le quattro stagioni. Gli alfabeti magici vi si leggono ancora; ma si è tentato di cancellarli (fol. 193), e si è abrasa la maggior parte delle parole che richiamano all’uovo filosofico (23).
Sembra essersi formato a quest’epoca, vale a dire intorno al X o XI secolo, un corpo di opere, una sorta di enciclopedia puramente chimica, separata con cura dalla magia, dall’astrologia e dalla materia medica.  Ma queste diverse scienze erano in origine riunite, e coltivate dai medesimi adepti.
Si spiega quindi perché Diocleziano facesse bruciare in Egitto i libri d’alchimia, così come sappiamo dalle cronache (24).
Dalla più remota antichità, del resto, coloro che si occupavano dell’estrazione e del lavoro dei metalli, furono reputati incantatori e maghi. Senza dubbio queste trasformazioni della materia, che si realizzano al di là della forma e fanno sparire l’esistenza stessa della specificità dei corpi, sembravano oltrepassare la misura della potenza umana: era una usurpazione della potenza divina.
Ecco perché l’invenzione delle scienze occulte e l’invenzione stessa di ogni scienza naturale sono state attribuite, da Zosimo e Tertulliano, agli angeli maledetti. Questa opinione non ha nulla di sorprendente sulla loro bocca: essa concorda con il vecchio mito biblico dell’albero della conoscenza, posto nel Paradiso terrestre, il cui frutto ha perduto l’umanità. In effetti la legge scientifica è fatale e indifferente; la conoscenza della natura e la potenza che ne risulta possono essere rivolte al male come al bene: la scienza dei succhi delle piante è tanto quella dei veleni che uccidono e dei filtri che turbano lo spirito, quanto quella dei rimedi che guariscono; la scienza dei metalli e delle loro leghe conduce a falsificarli, così come ad imitarli ed ad operare a fini industriali. Il loro possesso, anche se legittimo, corrompe l’uomo. Così gli spiriti mistici hanno sempre avuto una certa tendenza a guardare la scienza e soprattutto la scienza della natura come sacrilegio, poiché essa induce l’uomo a rivaleggiare con gli dei.
La concezione della scienza distrugge, in effetti, quella del Dio antico, agendo sul mondo per miracolo e volontà personale: «È così che la religione, per giusta conseguenza, è calpestata; la vittoria ci eguaglia agli dei!» grida Lucrezio con una singolare esaltazione filosofica (25). «Ciò nonostante, non credere – aggiunge – che voglia iniziarti ai principi dell’empietà ed introdurti nella strada del crimine (26) ».
In conseguenza di non so quale affinità segreta tra le epoche profondamente travagliate, il nostro secolo ha visto riapparire la vecchia leggenda, dimenticata sedici secoli. I nostri poeti, A. de Vigny, Lamartine, Lecomte de Lisle, l’hanno ripresa a turno. In Eloha, A. de Vigny non dice che una parola:
 
I popoli già vecchi, le razze già mature
Avevano visto fino al fondo delle scienze oscure
.

Ma Lamartine, nella Caduta di un Angelo, ha stretto da più vicino il mito. Egli ci descrive la civilizzazione grandiosa e crudele degli dei giganti, la loro corruzione, la loro scienza, la loro arte dei metalli:
 
Dalla mia infanzia istruito nelle arti misteriose
Che si insegnano nell’ombra ai successori degli dei…

Nella dodicesima visione, nel mezzo dei ministri dei loro crimini, appaiono, per una assimilazione pressoché spontanea, gli agenti delle scienze maledette e gli “alchimisti”.
Leconte de Lisle ha ripreso il mito dei figli d’Enoch e di Caino, da un punto di vista più profondo e più filosofico. Dopo aver parlato d’Hénokia:

La città dalle mura di ferro dei giganti vigorosi….
Abisso in ci, avventurando la sua ala lontano dai cieli,
L’angelo vide la bellezza della donna e la amò…

Il poeta oppone, come Lucrezio, al Dio geloso che ha predestinato l’uomo al crimine, la rivalsa della scienza, superiore all’arbitrio divino ed alla concezione ristretta dell’universo teologico:

Farò crollare del cielo la volta derisoria…
e chi ti cercherà non ti troverà….
nello spazio conquistato le Cose libere da catene
Non ti ascolteranno più quando tu gli parlerai.

Di questa antinomia vi era già qualcosa nell’odio contro la scienza che lasciano trasparire il libro di Enoch e Tertulliano. La scienza è ravvisata come empia, tanto nella formula magica che forza gli dei ad obbedire all’uomo, che nella legge scientifica che realizza ugualmente, malgrado gli dei, la volontà dell’uomo, facendo svanire la possibilità stessa dei poteri divini. Ora, cosa strana, l’alchimia, dalle sue origini, riconosce ed accetta questa filiazione maledetta. Essa è d’altronde, anche oggi, classificata nelle raccolte ecclesiastiche del Migne tra le scienze occulte, a lato della magia e della stregoneria. I libri in cui queste scienze sono trattate dovevano essere bruciati sotto gli occhi dei vescovi, diceva già il codice di Teodosio (27). Allo stesso modo venivano bruciati gli autori. durante tutto il medio Evo, le accuse di magia ed alchimia sono associate e dirette di volta in volta contro i sapienti che i loro nemici volevano perdere.
Ancora nel XV secolo, l’arcivescovo di Praga fu perseguitato per negromanzia e alchimia, in quel concilio di Costanza che condannò Giovanni Huss. Fino al XVI secolo, queste leggi sussistettero. Ermolao Barbaro, patriarca di Aquilea, ci comunica nelle note del suo Commentario su Dioscoride (28) che a Venezia, nel 1530, un decreto interdiceva l’arte dei chimici sotto la pena capitale; al fine di evitare ogni tentazione criminale, aggiungeva.
E così che l’alchimia ci appare verso il III secolo della nostra era, ricollegando le sue fonti ai miti orientali, generati, o piuttosto divulgati nel mezzo dell’effervescenza provocata dalla dissoluzione delle vecchie religioni.  

NOTE:

(1) P. 12 e 14, Edizione Goar, 1652. Scaligero ha riprodotto questo passaggio (Eusebiana, p. 834) ma attribuendolo, a torto, a Fozio, in luogo di Giorgio Sincello.

(2) Maspero, Histoire ancienne del peuples de l’Orient, p. 125 (1875).

(3) Vedere il manoscritto n° 2, 327 della Bibliothèque Nationale, fol. 256. Questo passaggio è stato tradotto da Hoefer, Histoire de la Chimie, t. 1, p. 290, 2ª edizione. 

(4) In realtà questo passo citato da Berthelot è il Genesi VI, 2. (N.d.t.).

(5) Angeli peccatores illecebras detexerunt, aurum, argentum et opera eorum tradiderunt… vellerumque tincturas inter caetera docuepunt. De Idolatria, IX, D.

(6) … Qui siqidem angeli qui et materias ejusmodi et auri dico et lapidum illustrium et opera eorum tradiderunt. De cultu Feminarum, X.

(7) … Si quidem et metallorum opera nudauerant et herbarum ingenia traduxerant et incantationum vires provulgaverunt et omnem curiositatem usque ad stellarum interpretationem designaverunt…, De Cultu Feminarum, I, II, B.

(8) Materias quasdam bene occultas et artes plerasque non bene reuelatas saeculo multo magis imperito prodiderunt.

(9) … Astrologos et aruspices et augures et magos de Caesarum capite consultant, quas artes ut ab angelis desertoribus proditas…, Apologeticus, XXV, C.

(10) Expelluntur mathematici, sicut angeli eorum, Urbs et Italia interdicuntur mathematicis, sicut coelum angelis eorum. Eadem poena est exilii discipulis et magistris. De Idolatria IX, D.

(11) Annales, II, 32.

(12) Annales, XII, 52; Hist. II, 62.

(13) Genus hominum potentibus infidum, sperantibus fallax, quod in civitate nostra et vetabitur semper et retinebitur. Hist, I, 22.

(14) Libros magicae artis apud se neminem habere licet: et si penes quoscumque reperti sint, bonis ademptis, ambustisque his publice, in insulam deportantur; humiliores capite puniuntur. Julii Pauli, Liber V, tit. XXIII (Ad legem Corneliam de Sicariis et Beneficiis).

(15) Jubemus namque, auctores quideni ac principes una cum abominandis scripturis eorum sevëriori poenae subjici, ita ut flammeis ignibus exurantur (Leggi di Diocleziano e della sua epoca, Codicis Gregoriani, liber XIV, Tit. de maleficiis et manichaeis, cap. 6).

(16) Reuvens, 1ª lettera a M. Letronne, p. 10, 50 etc.

(17) Ms. 2.249, fol. 96; ms. di San Marco, fol. 188, v°.

(18) Lettera I, p. 49.

(19) Monuments égyptiens du Musée de Leide, 4e livraison, planche XIV.

(20) Ms. della bibliothèque Nationale, 2,327, fol. 80; ms. 2,249, fol. 100; ms di San Marco, fol. 193.

(21) Ms. 2.327, fol. 293.

(22) Ms. 2327, fol. 81.

(23) Vedi per esempio fol. 22 v°; fol. 68, v°; fol. 78 v°; fol. 106 v°; fol 107; fol. 119; fol. 131, v°; fol. 177, v°; etc. 

(24) Secondo Giovanni d’Antiochia, Suda, gli Atti di San Procopio: i relativi passi di questi autori seguiranno più oltre. 

(25) Quare relligio pedibus subjecta vicissim obteritur: nos exoequat victoria coelo. (Lucrezio, De rerum natura, 1, I).

(26) Illud in his rebus vereor ne forte rearis Inpia te rationis inire elementa, viamque
Endogredi sceleris

(27) Libro IX, titolo XVI, 12.

(28) Corollariorum…, fol. 73.