dall’Archivio Storico Lombardo, serie terza, vol. XVII anno XXIX, Bocca, Milano 1902, pp. 381-400.
Pagina on-line dal 27/02/2017
Il presente lavoro, che integra ed aggiorna quello uscito pochi anni prima a firma del De Castro, è estratto dall’Archivio Storico Lombardo, serie terza, vol. XVII anno XXIX, Bocca, Milano 1902, pp. 381-400.
Su Arturo Magnocavallo, classe 1873, allievo del Novati all’Accademia di Milano e per un breve periodo professore nei regi licei e nelle scuole tecniche (1), poi vicesegretario presso il Ministero della Pubblica Istruzione, divisione V sez. 1, la critica, a quel che sappiamo, non ci ha ancora lasciato alcuna indagine biografica o alcuno spunto critico organico. Provveditore degli studi a Messina e poi a Brescia sino al 1920, nel 1907 fu in missione in Brasile per conto del Ministero e della società Dante Alighieri. In Brasile si evolverà la sua carriera, poiché partirà dall’Italia per dirigere, tra il 1923 ed il 1932, la scuola italo-brasiliana Dante Alighieri di San Paolo, fondata nel 1911 (3).
Affiancando la sua carriera in ambito ministeriale ad una attività alacre di storico dai molteplici interessi, il Magnocavallo collaborò al Nuovo Archivio Veneto, all’Archivio Storico Lombardo (da cui è tratto il presente scritto) e ad altre testate dell’epoca. Tuttavia la sua fama di storico è soprattutto legata agli studi critici su Marin Sanudo il vecchio (c. 1270 – c. 1343), sul suo progetto di crociata e sul suo Liber Secretorium Fidelium Crucis (4).
Le note sul Borri che il Magnocavallo affida alle pagine dell’Archivio Storico Lombardo sono, a detta dell’autore, frutto dell’incontro incidentale di codici manoscritti nel corso di ricerche finalizzate ad altro. Magnocavallo, oltre al presente articolo, ritornerà sull’argomento una seconda volta, presentando nuova documentazione, l’anno seguente, in Archivio Storico Lombardo, serie terza vol. XX anno XXX, pp. 483-490, materiale presente su questo stesso sito.
NOTE ALL’INTRODUZIONE:
(1) Cfr. Carteggio D’Ancona, vol. X, D’Ancona – Novati, p. 287.
(2) Cfr. la scheda del catalogo manoscritti Manus all’indirizzo http://manus.iccu.sbn.it/opac_SchedaAutore.php?ID=278001
(3) Cfr. Ebe Real, As escolas Italianas em São Paulo no início do século XX, in “Dante Cultural” anno VII n. 22, pp. 38-40. Vedi anche, sul Magnocavallo, il profilo biografico della rivista on-line Arsenale, uscita 0.24.
(4) Cfr. di A. Magnocavallo, Marin Sanudo il vecchio e il suo progetto di crociata, Istituto Arti Grafiche, Bergamo 1901; Marin Sanudo il vecchio e il Liber secretorum fidelium Crucis: primi studi, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C., Milano 1898; I codici del Liber secretorum fidelium crucis di Marin Sanudo il vecchio: nota, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini, 1898; Di alcuni codici del Liber secretorum fidelium crucis di Marino Sanudo (il vecchio), tip. Visentini, Venezia 1903; sempre sui Sanudo, vedi la comunicazione Proposta di riforma bancaria del banchiere veneziano Angelo Sanudo (sec. 16.), Tipografia. della R. Accademia dei Lincei, Roma 1904.
Arturo Magnocavallo
Notizie e documenti inediti
intorno all’alchimista Giuseppe Borri.
Del milanese Borri e delle sue curiose e stravaganti avventure discorse or non è molto il compianto De Castro (1), e poiché ci fu dato di ritrovare nella Biblioteca e negli Archivi Vaticani, mentre eravamo occupati in altre ricerche, alcuni documenti che gettano una più chiara luce sulle gesta di quest’uomo, che nel sec. XVII tanto fece parlare di sé in Italia e in gran parte dell’Europa, non ci sembra inutile di ritornare sull’argomento.
Nato verso il 1625 in Milano da un’antica e nobile famiglia lombarda, Giuseppe fu per volontà del padre, medico di buona fama e senatore, mandato a Roma a studiare nel Seminario dei Gesuiti; e il giovinetto, d’ingegno fervidissimo e caro perciò ai maestri, non tardò a manifestare l’indole sua ribelle e prepotente.
In collegio, ricusando un giorno per ragion di salute di frequentare le lezioni, ebbe una vivace disputa col rettore che l’aveva severamente rimproverato; gli venne quindi inflitta, insieme a una trentina di compagni che avevano preso parte per lui, la non peregrina punizione del pane e acqua, e tutti gli scolari allora, animati dalle sue ardite parole, insorsero, e rinserrati i gesuiti in una stanza, li tennero prigionieri finché il Cardinal Vicario e due altri prelati non riuscirono a persuadere e a calmare i tumultuanti: ai quali fu tuttavia concessa, pegno della resa, l’alta soddisfazione di veder rimosso il rettore dall’ufficio.
Lasciato presto il seminario, il Borri, non privo di denaro, condusse vita allegra e spensierata, pur non trascurando lo studio della medicina, e sopratutto dedicandosi con ardore alle ricerche alchimistiche, per le quali aveva una vera passione; ma nel 1654, per gravi accuse che riguardavano probabilmente la sua condotta troppo disordinata, costretto a sfuggire al rigore delle leggi, riparò nella chiesa di S. Maria Maggiore. Ne uscì senza aver noie, fingendosi molto pentito di quanto gli si era imputato, e da quel momento il medico alchimista si camuffò da apostolo; confidò agli amici che una celeste visione gli aveva annunziato esser prossima in lui la venuta dello spirito profetico, e meditò una specie di riforma religiosa, nella quale non è in verità difficile di riconoscere l’uomo pieno di fede nelle scienze occulte; cosicché si può ben dire ch’egli si era assunto il grave compito di combattere o di modificare i dogmi coll’aiuto dell’alchimia.
Il De Castro crede ch’egli, disgustato dallo spettacolo triste che Roma presentava in quei giorni, sia stato tratto ad un esagerato ascetismo, e per purgare le proprie colpe, e per rimediare al mal costume del clero e della corte pontificia; epperò, escludendo ch’egli fosse un impostore, lo giudica piuttosto un allucinato, e trova che in ciò appunto differisce dal famigerato Cagliostro. Ma se si può ammettere che il Borri, passando lunghe ore tra i fornelli e i lambicchi per scoprire il modo di fabbricare l’oro, si fosse proprio convinto di poter comunicare col mondo degli spiriti, non è affatto provato che le sue strane idee di riforma movessero dal desiderio di purificare la Chiesa di Roma: è in lui evidentissima, un’acuta smania di acquistarsi il favor popolare, di guadagnarsi fama di grande filosofo e scienziato, e i suoi progetti di riforma, dove non si vede chiaro che cosa egli volesse, miravano forse più a questo che ad altro scopo.
Partito infatti da Roma nel 1655, dubitando che l’elezione del cardinale Chigi al Papato (Alessandro VII) potesse rendere l’Inquisizione più oculata e zelante, venne a Milano, e quivi e a Pavia non gli mancarono numerosi e entusiasti seguaci che lo ritenevano realmente il Pro-Cristo, com’egli si compiaceva di proclamarsi; ma per quattro lunghi anni si accontentò di riunire di quando in quando i suoi ingenui e fedeli proseliti, loro spiegando il novissimo e confuso verbo, e imponendo anche una regola in cui si parlava di amor fraterno, di obbedienza a Cristo e agli angeli, di povertà (e i maligni insinuarono che qualche seguace più…. buono affidasse al profeta le proprie ricchezze), di zelo e di sacrifìcio nel diffondere la riforma, ecc. Null’altro egli fece, né mai tentò di mettersi alla testa de’ suoi fedeli e di guidarli a quelle pazze imprese di guerra sterminatrice, preannunziata contro i nemici della verità ch’egli si vantava di predicare: vero è che aveva prudentemente promesso di mantenere il suo futuro e imponente esercito coll’oro che il lapis phylosophorum gli avrebbe fornito in grande quantità, quel lapis ch’egli non si stancava di ricercare nelle sue fatiche chimiche.
Il Santo Uffizio, o che non lo giudicasse pericoloso o che non avesse notizia della sua propaganda (il che non ci sembra possibile), lo lasciò tranquillo fino al 1659, e solo in seguito a formale denunzia dell’abate Piazza, il Litta, arcivescovo di Milano, si decise a ordinare l’arresto di parecchi proseliti; il Borri intanto se ne fuggì in Isvizzera, terra ospitale ai perseguitati dall’Inquisizione, e fu condannato in contumacia. Nel testo della sentenza proclamata a Roma e che ho trovata, tradotta in italiano, in molti codici (2), si dice ch’egli, anziché alla fuga, pensasse di radunare i compagni nella piazza del Duomo, di uccidere l’arcivescovo, di eccitare il popolo a insorgere contro i tiranni dell’anima e del corpo; e sebbene tutti gli storici, dal Brusoni al Cantù e al De Castro, non mettano in dubbio l’audacissimo progetto, è lecito supporre ch’esso sia pura invenzione dei denunziatori: aveva troppa fretta di mettersi al sicuro, per immaginare un simile piano!
L’istruzione del processo, seguita contemporaneamente a Roma e a Milano, si chiuse nel 1661 con la condanna del Borri e di alcuni seguaci; nello stesso anno ebbero poi luogo, nelle due città, le solenni funzioni di abiura, delle quali diamo qui due relazioni inedite. Queste furono dirette al cardinal Ottoboni, allora vescovo di Brescia, e narrano l’una, la funzione che ebbe luogo nella chiesa della Minerva in Roma, l’altra, quella tenuta nel Duomo di Milano (3); ecco la prima:
«Roma, 2 genaro 1661. — Fu fatta Domenicha l’abiuratione dall’Inquisitione di heretica pravità. S’espose sopra d’un palcho a vista di tutti un quadro con il ritratto al naturale con l’inscritione, Gioseffo Franc. Borri da Milano, sin tanto che durò la lettura del suo processo un’hora e mezza, poi fu consegnato al Governatore, essendo per sentenza stato dichiarato heretico infame scomunicato di scomunica maggiore, da essere vietato da Fedeli tutti, sotto pena di scomunica, latae sententiae, etiandio contro chi li soministrasse in necessità, et confisca li beni cui de jure.
«L’heresie di quest’huomo et dotrine erano varie, et molti hanno suposto che s’aprosimasse il Regno di Dio, che con innumerabili eserciti il Papa doveva soggiogare tutti l’Infedeli, mediante però la sua condota, dovendo egli essere il Generalissimo, et quello dove(va) soministrare il danaro con l’alchimia, et che haveva l’assistenza di molti Angioli, particolarmente di S. Michele che continuamente rissiedeva nel suo cuore; che la Vergine madre non era donna ma lo Spirito Santo che si era incarnato nel ventre di S. Anna, la quale era Vergine…., et che a lui era dato di propalare questo misterio, et che Cristo non era di dovere prendesse carne umana da una Donna ma d’una Dea. Volse però che nel Canone della Messa s’aggiungesse per uninspiratam Virginem, disse che quella particola che si mete nel calice quando si frange l’hostia è la Vergine che per concomitanza si torna ivi con Cristo; che il Padre era più risplendente di cento soli, che vestiva di rosso et era il primo Cielo, il Verbo vestiva di Giallo et era il secondo Cielo, lo spirito ch’era Maria Vergine era il terzo Cielo et vestiva di bianco. Nel Confìteor volse s’aggiungesse omnibus Angelis, et nella spalla destra che portava scolpiti alcuni angeli faceva fare cinque voti a suoi, alcune volte sei; moltissimi altri spropositi de incarnatione et cose altre che bisognerebbe essere buon teologo per haverle tutte a mente; che al confessore non si dovevano dire peccati occulti, che non era Giudice competente; et faceva giurare secretezza, et prohibiva il confessarsi ad altri che quelli della sua Congregazione: si lessero altre cose tante, ma non si nominavano le persone né luoghi, ma persona nominata due volte fu Giacomo Filippo, che era dai seguaci del Borri stimato precursore del Regno di Dio et il Borri Pro Cristo, et che Giacomo Filippo hora si trova in Paradiso sopra di S. Ignatio.
«Nel Canone metevano et Pro Josepho Francisco Borro Imperatore totius Matris Ecclesiae, et che quelli discepoli che erano sino a dodeci fatti con l’aggiunto di Andrea Brusati d’Assola, Diocesi di Milano, sacerdote chiamato il Tomasino perchè fu duro in credere, il quale comparve sopra il palcho dopo levato il ritratto del Borri, et che diceva la messa con quelle aggiunte, et haveva havuta la gratia del Borri di essere come S. Paolo con facoltà di deporre il Papa se fosse bisognato, et con tutte le altre dotrine bestiali sopradete, fu, per essersi riconosciuto, condenato a carcere perpetuo et assoluto dalle scomuniche per esser stato heretico et datoli l’habito di penitenza con una Croce avanti e l’altra a dietro con altre penitenze salutari.
«L’istesso fu fatto al cercante per il monastero da S. Pelagia, che fu l’ultimo ad esser abiurato, essendovene stati altri due di mezzo tra il Brusati et detto cercante. Ho osservato che al Borri, quando furono fatti prigioni quelli suoi, gli fosse d’altri detto: ma che fatte? ove sono le promese? et che egli disse: mundum venit hora mea, et che poi doppo alcuni altri giorni replicatoli il medesimo, ripigliasse che sarebbe andato su la piazza del Duomo a predicare et che haverebbe convitato il popolo et sarebbe intrato nel arcivescovato et haverebbe amazato tutti quelli Ministri.
«Il giorno seguente fu condoto dal Boia il Borri in statua sopra d’una careta per Roma, et poi in Campo de fiori fu apiccato il suo ritrato alle forche con darli l’urtone il Boia e poscia abrugiarlo».
A poca distanza di tempo seguì l’abiura di altri seguaci, nella Metropolitana milanese, e l’avvenimento è così narrato nella seconda delle relazioni citate: (4)
«Milano, alli 26 del mese di marzo 1661. — La nuova che alli dua del mese di Genaro prossimo passato fosse in Roma terminata la causa di Giuseppe Francesco Borri milanese, autore d’esecrabili Dogmi contro la Fede Cattolica, e che nella Chiesa di S. Maria della Minerva, alla presenza di tutto il Sacro colleggio e di tutto il popolo, doppo letto il di lui Processo, sentenza, e consegnata l’imagine del medesimo alla Corte secolare per farla abbruggiare il giorno seguente dal carnefice con suoi empij scritti in Campo dei Fiori, seguisse il solennissimo abiuro delli Preti Andrea Brusati e Gio. Pietro Schilizino cercante di S. Pelagia suoi seguaci, con la pubblicazione dei loro Processi e sentenze, mosse in tutti grandissimo e santo desiderio di sentire che seguirebbero delli Corei detenuti nelle carceri di questa Santa Inquisitione di Milano; come, quando, in che luogo et in qual modo si dovessero far abiurare? Applicò Mons. Ill.mo Litta Arcivescovo di Milano all’utile e soddisfatione commune, che haverebbe apportata quando l’abiuro dei complici del Borri fosse seguito nella sua Chiesa Metropolitana, suggerendo a Mons. Ill.mo Vizzani, assessore del S. Officio, gagliardissimi motivi, da parteciparsi alla sacra suprema Inquisitione, in riguardo di che, benignamente condiscesero gli Emin.mi P.i Cardinali Inquisitori Generali, e con lettere delli 19 Febraro dell’anno corrente ne concessero ogni opportuna facoltà.
«Esseguendo dunque Sua Sig.ia Ill.ma gli ordini del Santo Tribunale, oltre varie Congregationi particolari, una consulta tenne avanti di sé con l’intervento del Padre Inquisitore di Milano et altri di più periti e pratici Ecclesiastici del suo Clero, col parere e consulta dei quali si deliberò che per non impedire il corso alle Prediche Quadragesimali, il sabbato immediato alla Festa dell’Annonciatione della Beata Vergine Maria, 26 del cadente mese di marzo, fosse giornata molto proporzionata a simil fontione, massime che, concorrendo alla città da tutta la Diocesi e Provincia infinite persone per occasione dell’Indulgenza perpetua in forma di Giubileo che si espone annualmente a vicenda nella Metropolitana e nel Ven.do Hospitale Maggiore nel medesimo giorno dell’Annonciatione, moltissimi mossi da santa curiosità vi si sarebbero trattenuti.
«Pubblicaronsi la Domenica antecedente nella Metropolitana gli Avvisi e l’Indulgenza di Quindici anni et altre tante Quarantine che la S.tà di N. S. come haveva fatto in Roma ha concesso a chi fosse intervenuto all’abiuro, e se ne affìssero ne’ luoghi più publici della Città gran quantità di copie.
«Fra tanto fabbricossi nel choro senatorio della Metropolitana palcho capace di ben trenta persone, contiguo ad uno dei vasti pergami di bronzo per comodità dei Padri Domenicani destinati alla lettura dei Processi; ampio, spatioso, alto, conspicuo e senza verun apparato, che di nude tavole, eccettuatone un tavolino con tapeto pavonazzo, sopra del quale doveva collocarsi il Missale e stola per l’abiuratione, con due sedie, l’una per il Padre Vicario, l’altra per li Fiscale del S.to Officio, Ministri necessarissimi all’abiuro.
«S’intimò la fontione per le hore 18, ma impatientando il popolo, cominciò la mattina del sabbato per tempo ad affollarsi; moltissimi Cavaglieri, Titolati e Dame per godere opportunamente di quella, convennero tre hore prima ne’ luoghi da loro la sera antecedente apostati e preparati, trattenendosi con grandissima patienza sino che terminò la Fontione. Precedette longhissimo segno della Campana Maggiore del Duomo, che durò un’hora in ponto, e doppo con tocchi interpolati continuò sino al fine in segno di mestizia.
«Calò Mons. Ill.mo Litta Arcivescovo alle hore dieciotto dalle sue stanze nella Metropolitana in Cappa, accompagnato dal suo Capitolo in habito chorale e da tutto il Clero della Metropolitana, seminaristi et altri ecclesiastici con corteggio innumerabile dei Titolati, Cavaglieri e Nobiltà, che lo servivano assistiti da ventiquattro tedeschi alabardieri. L’attendeva ivi il Padre inquisitore, fattosi portare prima come maltrattato dalla podagra, collocato in choro vicino alla sede archiepiscopale nel luogo destinato ai vescovi con postergale, tapeto avanti e cussini pavonazzi, alla cui sinistra sedeva mons. Biandrà, vicario generale con rochetto e mantelletto pavonazzo, habito solito; stando alla destra della sede pontificale fuori dei cancelli al luogo solito il Tribunale archiepiscopale; li signori Consultori sotto al stendardo di S. Pietro Martire, che si collocò in faccia al Palcho, stavano disposti nella parte del primo choro, luogo destinato al senato quando interviene alle prediche, ornato con postergali et inginocchiatori di colore verde, et li quaranta del S. Officio con Padri Domenicani in altre banche inferiori ornate di tapeti verdi parimenti. Quattro giudici secolari con stuolo di sopra cento birri assistevano al di fuori del gran Duomo, acciò non seguisse tumulto nell’entrare et uscire, che faceva dalla Metropolitana il numerosissimo popolo amassato da tutte le bande.
«Arrivato alla sede Mons. Ill.mo Arcivescovo con molta fatica, collocati e disposti nei suoi luoghi il Capitolo e Clero, distribuito il corteggio in varie e nude banche a ciò preparate, li rei custoditi da trenta birri adunati dal barigello archiepiscopale si condussero in palcho a vista di tutto il gran popolo ondegiante, che sembrava un mare, calcolandosi da matematici, computisti et uomini pratici che passasse il numero di quarantamilla persone, oltre il continuo flusso e riflusso di chi partiva e sopragiongeva, essendo tutte piene le vicine piazze e contrade. Diede principio alla fontione il Padre Inquisitore con dotto ed erudito breve ragionamento, delle prerogative e sodezza della nostra Fede, che a qualonque fiero empito d’heretica pravità non si move, alle scosse de’ perversi dogmi persevera immobile e ferma nei suoi fondamenti, a differenza della mal stante heresia che ad ogni soffio di verità si scuote, traballa e si sconvolge: doppo del quale, dato segno che si cominciasse la lettura dei processi, fu dal gran pergamo con chiara, alta et intelligibil voce primieramente pubblicato il Processo e sentenze del Borri.
«Susseguentemente si condusse nel mezzo del palcho Lazaro Francesco Pontio, sacerdote secolare milanese d’anni 35, e fattolo inginocchiare sopra gradino a ciò preparato, col lume acceso nella mano destra, e con la faccia rivolta al popolo, fu letto il processo e sentenza, e doppo vestito d’habito di penitenza con una croce nel petto e l’altra negli homeri, il barigello lo condusse a sedere in altra parte del palcho a vista di tutti. Al secondo, cioè Antonio Bonardo, pure sacerdote secolare milanese d’anni 39, nell’istesso modo e forma si lesse il processo con la sentenza, vestito e collocato come sopra.
«Il terzo, Carlo Mangino, chierico da Voghera, d’anni 25, inginocchiato e col lume in mano, sentendo concludere dal processo che contro di lui si leggeva, che le consolationi e dolcezze da lui sentite nel ricevere l’Eucharistia, in comprobatione che fosse vero l’empio dogma dal Borri insegnato, dell’incarnatione dello Spirito Santo nel ventre di S. Anna, erano immaginarie e finte, balzò senza verun riguardo in piedi e con temerario ardire disse e replicò che le dolcezze da lui sentite non furono altrimenti immaginarie o chimeriche, ma vere; diede segno nell’istesso atto di voler, con la mano destra che haveva di libertà, cacciarsi qualche scrittura dalle bisaccie, se non fosse stato da birri impedito, che v’accorsero, lo trattennero e vi posero un freno o sia sbadacchio alla bocca, acciò non vomitasse nuovo veleno d’heresie; e d’ordine di Mons. Ill.mo Arcivescovo fu fatto rimovere, cessandosi di proseguire la lettura del suo processo, già che con segni e gesti si mostrò perverso et haveva animo d’esagerare.
«Quarto complice, Cesare Barberio chierico milanese di anni 23, nel modo e forma come sopra fu condotto e fatto inginocchiare nel palcho e gli fu letto il processo e sentenza: lo stesso fu fatto al quinto Federico Pirola, laico milanese d’anni 26, et al sesto Bartolomeo Gabrieli, chierico secolare da Paruzano, diocesi di Novara, d’anni 24, e questi tre non furono altrimenti vestiti d’habito di penitenza come li primi Pontio e Bonardo, per essere questi solamente sospetti d’heresia.
«Compiute le letture dei processi e sentenze dal Padre Vicario e Fiscale del S. Officio, con l’assistenza del loro Cancelliere, si fecero abiurare ad uno ad uno nel palcho pubblicamente, tenendo essi la mano sopra al Missale, sotto al quale era la stola, e dal Padre Inquisitore doppo la fontione privatamente furono assoluti e liberati dalle censure. Solo il Mangini non fu nè abiurato nè assoluto presumendosi contumace nelle perverse sue opinioni, e così circa le ore 23 terminossi felicemente con grandissima et universale sodisfatione il solenne abiuro ad eterna memoria dei posteri.
«Al Mangini fu fatta subita et diligente perquisitione nelle Carceri Archiepiscopali, ove si depositarono li rei quella notte per esser l’hora tarda, trattati ivi con ogni carità, siccome antecedentemente alla fontione, per ordine di sua Sig. Ill.ma; ed esso, fattosi sligare le mani, cacciò volontariamente da sé una scrittura, che teneva fra le coscie, quale fu ricevuta dal fiscale della santa Inquisitione alla presenza di due testimonij, e senza esser letta consegnata dall’istesso fiscale a Mons. Ill.mo Litta arcivescovo, soggiongendo esso Mangini che la scrittura era un compendio di quello che voleva dire nel palcho, ma che né più né meno rilaverebbe quando fosse esaminato: la mattina seguente furono tutti ricondotti alle carceri della santa Inquisizione».
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Esule forzato, il Borri rimase lontano dall’Italia una decina d’anni; e dei suoi viaggi e delle sue gesta non intendiamo occuparci, nulla o ben poco avendo da aggiungere a quanto ne scrissero il Cantù e il De Castro.
Ricorderemo solo ch’egli lasciò ben presto la Svizzera, e dopo breve soggiorno a Dresda (5), passò a Strasburgo, dove nel 1660 pubblicò il libercolo Gentis Burrorum Notitia, per magnificare l’origine della famiglia sua, che diceva antichissima; fu poscia ad Amsterdam, e quivi si acquistò fama di medico illustre, e vennero a consultarlo ricchi malati da lontane città di Francia e di Germania, e guadagnò molto denaro, che non gl’impedì tuttavia di contrarre grossi debiti, amando condurre vita principesca. E sebbene i buoni olandesi l’avessero nominato cittadino ad honorem di Amsterdam, i debiti lo costrinsero a emigrare in Danimarca. Già noto come medico senza rivali, non gli riuscì difficile di penetrare nella corte di Federico III, il quale, trovandosi in cattive condizioni finanziarie, accolse con lieto animo il profugo alchimista, e assai fidò nel suo filosofico fornello per aumentare le scarse ricchezze. Il fornello valse pure al Borri l’amicizia della regina Cristina di Svevia, che lo volle seco in Amburgo e ciecamente gli fu prodiga di molto oro…. naturale, per aiutare i suoi segreti e insistenti esperimenti, diretti ad ottenere la tramutazione dei metalli inferiori in oro artificiale; di tali costose esperienze la regal donna non tardò a stancarsi, ma non così l’ingenuo Federico che l’ospitò ancora in Copenaghen, continuando a somministrargli denaro, senza perdere la pazienza, a malgrado dei risultati poco lusinghieri per lo scienziato italiano.
Né si accontentò il Borri di essere il chimico di corte; ebbe la pretesa di erigersi a consigliere intimo del sovrano, e di questo tempo egli avrebbe scritto anzi una specie di trattato politico, un Opuscolo che uscì alle stampe nel 1681, quando l’autore aveva già perduta la libertà; è però dubbio ch’esso sia opera sua, al pari di quelle lettere scientifiche che furono pubblicate nello stesso anno. Forse quel bizzarro ingegno che fu Gregorio Leti, o il furbo editore di Colonia, avranno pensato di adoperare il nome di chi era tanto celebre, per comporre un libro che poteva esser facilmente venduto (6).
Il Borri visse tranquillo e potente nella Danimarca sino al 1670, finché durò cioè il regno di Federico; morto costui, il successore Cristiano V, non avendo simpatia alcuna per l’alchimia, e meno ancora per l’alchimista milanese che gli pareva un abile scroccone e nulla più, minacciò di muovergli processo, e quegli, odorando il vento infido, abbandonò subito la corte e il paese stesso: percorsa rapidamente la Germania, egli decise di recarsi in Turchia; ma mentre si disponeva ad attraversare l’Ungheria, (agitata da gravi lotte politiche, per aver l’Austria aboliti i privilegi di cui quella terra generosa era tanto fiera, e piena quindi di armati che arrestavano ogni persona sospetta, e sopratutto gli stranieri), fu il Borri fermato a Goldingen nella Moravia. Saputosi l’esser suo, fu senza indugio mandato a Vienna sotto buona scorta; intervenne allora il nunzio pontifìcio, cardinale Pignatelli, che reclamò il prigioniero in nome del S. Uffìzio, quale malvagio e pericoloso eretico già condannato in contumacia.
Le trattative per l’estradizione furono piuttosto lunghe e laboriose, come si rileva dalle lettere, scambiate fra la nunziatura di Vienna e la corte di Roma, che noi abbiamo tratte dall’Archivio Vaticano; dalle quali anche risulta non esser vero ciò che altri suppose, che le imperiali autorità desiderassero di trattenere il Borri nelle carceri viennesi, nel dubbio ch’egli avesse avuta parte in una grave congiura da poco scoperta nell’Ungheria e terribilmente punita.
Le lettere che qui pubblichiamo dicono chiaro che il principe di Locovitz e altri familiari della corte di Leopoldo, appassionati cultori delle scienze occulte e sinceri ammiratori del Borri, subito avevano a lui offerto quanto occorreva perchè iniziasse le sue misteriose esperienze; si comprende dunque che quei cortigiani facessero il possibile per salvare chi poteva dare a loro milioni e vita lunga. Ma il nunzio seppe insistere e ottenne il suo scopo: si leggano infatti le seguenti lettere, disposte non in ordine di data, bensì secondo lo svolgersi della quistione.
I. — (Arch. Vatic, Lettere della Nunziatura di Germania, vol. 187: i foll., non sono numerati).
Di Vienna, 27 aprile 1670: mons. Pignatelli al sacro Collegio.
« …. In Moravia, nelle presenti congiunture di sospetto, arrestandosi come succede hoggi e in quelle parti et altrove per questi confini ogni forastiero, seguì lo stesso del Pori o Borri che sia, famoso heresiarca milanese che di Danimarca, di dove doppo la morte di quel rè fu licenziato, se ne passava nell’ Ungheria superiore; e perchè vols’egli nell’atto d’esser fermato tirar un colpo di pistola, che non offese, al capitano che l’arrestò, fu da questo fatto prigione, onde vedendosi perso, prese il veleno senza che alcuno se ne avvedesse; ma dicend’egli poscia che non sarebbe vissuto più di 16 hore, si fecero le diligenze per riconoscere la persona: il che seguito, gli accorti comandanti fattagli sperare dalla clemenza cesarea la liberazione, l’indussero a non perdersi et a prendere il contraveleno. Aspettasi hora qua, dove vien condotto ben custodito e guardato».
II — [Lettere, ecc., vol. 187).
Di Vienna, 4 maggio 1670: «E’ stato poi qua condotto con buona guardia il Borri milanese, famoso heresiarca; e perchè sono molti quei che lo favoriscono, forse per la curiosità dei segreti, ch’egli ha già propalati d’havere, io non lascio d’adoperarmi affinchè venga ben custodito e guardato, come segue, et ha la pietà somma di S. M. comandato».
III. — [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Roma, 7 giugno 1670; a mons. Pignatelli: «Io sperava che la cifra di V. S. de 18 maggio mi portasse qualche avviso dell’affare del Borri, per poter sodisfare all’attenzione e al zelo con che N. S. lo riguarda; e se bene il tempo non serviva per far ch’io potessi ricevere le risposte delle lettere, che intorno alla materia medesima le ho scritte, nondimeno l’importanza di essa per continuazione di negotio, mi faceva credere che la diligenza di V. S. non haverebbe preterito di tenermi ragguagliato di tutte le cose particolari che fossero succedute in ordine al fine che si ha; ed acciocché V. S. possa eccitare più precisamente la pietà dell’Imperatore e secondare il sentimento e desiderio di S. B., le si trasmette un Breve che si sarebbe prima spedito se si fosse creduto necessario, e di cui l’uso si rimette alla prudenza di V. S., che non lascerà di considerare tutto il più, che possa conferire al conseguimento di ciò che si pretende, per operare con fervore e con frutto. Del rimanente non altro debbo a V. S. sopra le particolarità che l’accennato foglio, se non che havendone fatta la lettura a N. S., è stata da S. B. gradita l’applicazione e la sincerità delle riflessioni spiegate da lei».
IV. — [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Vienna, 1 giugno 1670: «Fin da che fu qua condotto il Borri milanese io m’avveddi quanto efficacemente veniva egli protetto e favorito anche da principali ministri di questa Corte, a segno che intendevano di lasciargli godere ogni libertà; e perciò io non mancai d’adoperarmi e con S. M. e con quei che tengono conto della coscienza della M. S., nella più efficace maniera, et a segno che poi, se bene con grandissimi stenti, finalmente si indussero a restringerlo et a ritenerlo con guardie per meglio assicurarsi della persona di lui. E con tutto che fin qui non vogliano sentire che si parli di doversi tenere a disposizione di N. S., chi per venirgli raccomandato da principi forastieri, e chi per proprio interesse o allettato dalla speranza di poter ricavare da lui segreti di grandissima importanza, ad ogni modo col mezo dei sudetti religiosi e di qualcheduno di questi Ministri più zelanti, spero di poter superare tutto e d’indurre la M. S. ad assentire a ciò che si conviene».
V. — [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Roma, 21 giugno 1670: «Le notizie da V. S. per la sua cifra del primo corrente, sopra le utili diligenze ch’ella haveva fatte per impedire che il Borri non havesse la libertà che gli veniva procurata, e che anzi rimanesse attentamente custodito, sono state gratissime a S. S. che ha di cotesto importante affare una singolar premura. V. S. non tralasci però di secondarla col zelo suo, impiegando tutta l’opera della prudenza e della destrezza per ottenere, com’appunto ella mi ha significato di sperare, che il Borri si dia alla dispositione libera di S. B.; e se di qua, oltre al Breve trasmessole, alcuna cosa potrà farsi la quale conferisca al fine che si ha, godrò che V. S. me la suggerisca, dovendosi far tutto ciò che sia possibile per conseguirlo».
VI. — [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Vienna, 8 giugno 1670: «Già da altre mie haverà l’Em. Vostra inteso quanto passa in ordine all’affare del Borri e le difficoltà grandi che ho avute perchè venisse ben guardato, com’è seguito. Pervenutami poi l’humanissima dell’E. V., coll’ordine di procurare ciò a nome della S.tà di N. S., io ne rinnovai con la dovuta premura gli offitij presso la M. Sua, che è dispostissima al solito; ma i ministri e particolarmente il principe di Locovitz, che è quello che hoggi fa tutto, mi rispondono che per interessi di stato sono in necessità di ritenerlo così, senza dichiararsi per hora a dispositione di chi, volendo, dicono essi, venir prima in chiaro s’egli habbia havuta veruna parte ne i veleni che vogliono siano stati dati a S. M., fin da che la M. S. stette sì gravemente ammalata, parendo loro haver giusto titolo di creder così, mentre egli è passato per corti sospette, et hora, in tempo delle maggiori ribellioni, si portava in Ungheria. Io però gli ho tutti per pretesti, con fine di guadagnar tempo per qualche loro interesse, come ho pur detto con altre a V. E.; ma questo ancora si supererà, tanto maggiormente ch’essi medesimi me lo fanno sperare tra pochi giorni, dichiarandosi apertamente che chiaritisi del fatto, non intendono di tenerlo che a dispositione della S. S. Continuerò io le mie parti con tutta la vigilanza et applicatione possibile, et attenderò insieme gli ordini più precisi che con le prime mi fa l’E.V. sperare, per dar loro la dovuta esecutione e l’ultima mano all’affare sudetto».
VII. — [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Roma, 28 giugno 1670: «Mentre cotesti Ministri si dichiarano apertamente che non intendono di ritenere il Borri che a dispositione di S. S., chiariti che siano s’egli havesse parte nel fatto de’ veleni, ancorché V. S. si persuada essere ciò un pretesto di particolare interesse, forse per guadagnar tempo come ella mi ha significato per la sua cifra de 8 cadente, può sperarsi di havere il negotio in sicuro, che rispondendo alla singolar premura di S. B. diviene per la medesima una materia di notabil sodisfatione. Ciò non ostante, se oltre al Breve trasmessole, V. S. giudicherà che da questa banda possa darsi aiuto maggiore alla diligenza di lei per assicurare affatto il fine che si ha, sarà gratissimo a S. B. ch’ella ne suggerisca i modi creduti opportuni, tutto volendosi fare che sia possibile per conseguirlo».
VIII. – [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Vienna, 15 giugno 1670: «In questo punto torno dall’audienza dell’Imperatore, dove mi sono portato a rappresentargli quanto passa, e la M. S. ha nuovamente comandato al signor principe di Locovitz e al signor Cancelliere di corte unitamente insieme, affinchè mi facciano l’accennata consegna del Borri. Ma mi dice in somma confidenza il suddetto Cancelliere, che la difficoltà di questa maggior dimora si ristringe hoggi solo in voler Locovitz ricuperare l’oro che trovasi haver dato al sudetto Borri».
IX. — [Lettere, ecc., voi. 188].
Di Vienna, 15 giugno 1670: «Nonostante le opposizioni validissime del signor principe di Locovitz, intorno al particolare del Borri, mi sono adoperato tanto particolarmente con il Cancelliere, huomo il più zelante e il più grato a S. M. fra questi Ministri, e con li P.P. Miller confessore et Emerigo cappuccino, ambedue efficacissimi e potenti presso la M. S., che ha questa finalmente ordinato che mi venga quanto prima consegnato il sudetto Borri. A tutto ciò ha molto bene et opportunamente cooperato l’efficace zelo e premura della M.tà dell’Imperatrice Eleonora, benché pregata da Locovitz di fare l’opposito, fin con seriamente proponerle che haverebbe il Borri colla sua conosciuta virtù potuto far molte cose in vantaggio di lei».
Qui il Nunzio dà notizie riguardo ad altri argomenti, e ritornando in fine al Borri, assicura che egli non fu trattenuto «a titolo di esaminarlo per negotij politici, ma in sostanza per far oro, havendolo fatto trasportare ad altro quartiere, dove si trovano fornelli et altre commodità».
X. — [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Roma, 5 luglio 1670: «Le diligenze impiegate da V. S. per havere il Borri, quali sieno state, assai apparisce nell’ordine che l’Imperatore havea dato a’ suoi Ministri di consegnarglielo, non ostante tutte le contradittioni dei personaggi che si sono interessati nell’affare per salvarlo. Gratissimo è stato questo avviso a N. S. per la relazione che ho fatto alla S. S. delle due cifre de 15 giugno, come inesplicabile appunto è la premura di S. B. di vedere che all’ordine della consegna corrisponda l’effetto; intorno a che ogni dubio, per piccolo che sia, mi fa desiderare tutta l’applicatione dell’opera e lo sforzo maggiore della prudenza e della destrezza sua, per superare le difficoltà che si fossero fraposte overo si fraponessero. Anzi S. B. altrettanto confida del zelo di V. S. in questa grave congiuntura, quanto io goderò del merito ch’ella acquisterà colla S. S. e colla Sede Apostolica».
XI. — [Lettere, ecc., vol. 187] (7).
Di Vienna, 20 giugno 1670: «Fu poi hieri da me il signor principe di Locovitz a dirmi in nome della Maestà dell’Imperatore che questa sera a punto mi haverebbe fatto consegnare il Borri. Ond’io, subito che sarà seguita questa consegna, c’havrò all’ordine tutto il necessario (a che non si perderà punto di tempo) per la sicura condotta del medesimo; non lasciarò di trasmetterlo costà secondo il comandamento della S. Cong. del S. Offitio e dell’Em. Vostra medesima, alla quale ne porgo questo riverente cenno in continuazione del mio debito, e le faccio per fine profondissimo inchino».
XII. — [Lettere, ecc., vol. 188].
(E’ una copia di lettera indirizzata dalla Sacra Congregazione del S. Uffizio nel giugno 1670 al Nunzio di Vienna, incaricandolo di far condurre il Borri al porto di Trieste per ivi imbarcarlo).
XIII. — [Lettere, ecc., vol. 188].
Di Vienna, 29 giugno 1670: Il Nunzio, dopo aver toccati diversi argomenti, scrive che il principe di Locovitz e gli altri cortigiani sentirono assai dolore per aver dovuto consegnare il Borri, parendo loro «d’aver perso chi doveva far qua milioni e dar loro vita lunga; tanto è grande la fede che tutti comunemente haveano nei segreti di lui».
XIV. — [Lettere, ecc., vol. 187].
Di Vienna, 29 giugno 1670: «Feci giovedì di buon hora la spedizione della persona del Borri, per cotesta volta, accompagnata da una squadra di 30 soldati e da due miei servitori, che per la strada di Gratz e Lubiana dovranno condurlo a Trieste, in conformità degli ordini della S. Congreg. del S. Offtio. Ho scritto poi anche a mons. Nunzio in Venezia, affinch’egli, non trovandosi pronto l’imbarco a Trieste, lo provegga tempestivamente e con gente bastante per la sicura e celere condotta del medesimo. Spero che, se bene il Borri sudetto per alcune palpitazioni di cuore solite a venirgli di quando in quando, non volea, per quanto m’avvisano, che mangiar poco e bever meno, sia con tutto ciò per condursi vivo costà, per la buona ed esattissima cura c’havevano di lui i sudetti miei servitori. E senza più di nuovo profondamente m’inchino, ecc.».
XV. — [Lettere, ecc., vol. 187].
Di Vienna, 6 luglio 1670: «Tutto che in questa settimana non possa dar io all’Em. Vostra verun avviso certo del proseguimento del viaggio del Borri per costà, per non haver da quattro giorni in qua nuova di lui, non essendo per anche comparsa da quelle parti la posta ordinaria, né ritornato tampoco un mio huomo che a posta vi ho inviato per haverne qualche notizia, non dovrà recare a V. E. alcuna ammirazione, non potendo ciò nascere che a causa delle continue pioggie che pur tuttavia non cessano e c’hanno in questi giorni portate via le case intere, fuori e ne’ borghi di questa città, et allagate a segno le campagne e strade, c’ha quasi levato il commercio in questi contorni».
XVI. — [Lettere, ecc., vol. 187].
Di Vienna, 13 luglio 1670: «Mi pervenne poi nel fine della decorsa settimana la nuova dell’arrivo del Borri a Gratz, dove si trattenne alcuni giorni a causa dell’acque, c’havendo allagato d’ogni intorno il paese, rendeano impraticabili le strade. S’era poi mosso di là per Lubiana, e sicome spero che siano per esser migliori le strade, così potrà da qui avanti riuscir meglio a chi lo conduce di seguitar senz’altro trattenimento, se bene mi avvisano di stentar molto per fargli prender cibo. Di qui intanto non si lascia di spiccar sempre nuovi ordini per ogni maggior sicurezza».
XVII. — [Lettere, ecc., vol. 187].
Di Vienna, 20 luglio 1670: «Colle ultime lettere in data de 15 del corrente, da Lubiana scrittemi dal mio huomo che sopraintende alla condotta del Borri, sento esser questo giunto in quella città, benché con mille stenti a causa delle pessime strade et acque grosse trovate. Dalla medesima se ne sarebbe passato a Trieste subito, se gli fosse riuscito di ritruovare nuova gente, della quale v’era grandissima penuria per quei luoghi. Spero poi che a Trieste truoverà l’imbarco che da mons. Nunzio di Venezia, in conformità dello scrittogli e della maggior comodità che ne ha, gli sarà stato preparato».
Nel lungo viaggio da Trieste a Roma, il prigioniero fu sempre piuttosto malinconico: in una sua biografìa, conservata nel Cod. Ottob. 2762 (fol. 17 1-7) della Bibl. Vaticana, dove l’anonimo autore inveisce contro di lui, accusandolo di aver satirizzato verso i ministri della Chiesa come cane arrabbiato, si leggono questi curiosi particolari a proposito del viaggio stesso:
«Per tutto fece [il Borri] dimostrazione di ricevere le cortesie di ciascuno, avendo grati i trattenimenti che se li facevono; ma quando arrivò a Fano, dove ritrovossi in quel tempo per vicelegato mons. Bentivogli bolognese, quest’huomo [il B.] non voleva né parlare né mangiare né conversare con veruno benchè ne fosse pregato da gentiluomini del paese e da cortigiani di Monsignore. Era grande il disgusto di questo prelato in vedere l’ostinazione che in tutto mostrava, essendo scorsi giorni che non aveva gustato alcun cibo, e perchè l’istanze che si facevano di lui in Roma, che da tutti fosse ben trattato…., erano di grande stimolo a Monsignore…., si portò dal Borri nelle carceri dell’Inquisitione e disse queste parole al medesimo: «Homo di tanto spirito, galante e giovane, non sta bene che ne viva immerso in una sì fatta ipocondria; via via, allegramente signor Borri; lei non deve temere, che la Chiesa maternamente benigna l’accoglierà in modo differente da quello ch’ella si pensa». Allora rispose il Borri: «Monsignore, io vorrei sapere da V. S. Ill.ma ingenuamente se io sia prigione effettivamente ad istanza del St. Offizio o pure dei signori Chigi; ma di grazia, me lo dica liberamente, se gli aggrada».
Senza riflessione alcuna né punto pensarvi, disse Monsignore che esso era prigione per ordine del S. Offizio e non altrimenti ad istanza dei signori Chigi.
«Se così è, disse il Borri, io ormai non temo né ho più occasione di temere l’ultime ruine mie, perchè spero in Dio esser libero dal fuoco»; e così respirando da tanta malinconia che gli affliggeva l’animo, mangiò con Monsignore e cercò di sollevarsi quanto potè. Temeva lui d’esser strumento della potenza del cardinale Flavio Chigi, perchè in tempo del zio [Alessandro VII], lui fu tiranno e della sua persona e della sua dignità, e fu non ordinaria la maledicenza che andò seminando di questa casa.
…. Seguitando il suo viaggio, giunse ai confini di Terni, …. e perchè nelle carceri dell’Inquisitione non vi poteva esser ricevuto, per non esser quelle né sicure né capaci in materia tanto gelosa, fu subito e adirittura condotto in quelle di Mons. Governatore; …. sendo ora di pranzo, fu interrogato se avesse voluto mangiare carne o pesce, et egli rispose che essendo in quel giorno la vigilia di S. Lorenzo voleva del pesce, perchè era buon cattolico. Fece istanza d’un pettine che subito gli fu dato e donato dal medesimo Governatore, e nel desinare fu nobilmente servito et in servitio d’argento; alla sua tavola mangiò anco il Padre Vicario con il signor Francesco Ranieri, Cancelliere del S. OffIzio di Terni, e in tavola non comparvero mai coltelli, sicome era seguito in tutti gli altri luoghi, ma la roba era già trinciata.
Dopo desinato, fu visitato da molti signori e specialmente da padri Gesuiti e dal signor conte Bartolomeo Canali, che era stato suo condiscepolo nel seminario romano, quando successe l’accennata sollevaziona. Fugli detto dal padre Anton Venturi, gesuita e lettore di filosofia nel collegio di S. Lucia di Terni, che egli andava a Roma per caldi eccessivi [si era alla metà d’agosto], ed esso replicò subito le precise parole: a Non teme questi caldi chi è destinato ai maggiori, già che io so molto bene che se è stata abbruciata la mia statua in Roma, correrà l’istesso pericolo l’originale».
…. Il sopra accennato cancelliere del St. Offizio di Terni aveva un male che bene spesso lo tormentava terribilmente, e per vedere se pure una volta ne potesse esser libero, aveva usato tutti quei medicamenti possibili che i medici del paese e fuori gli avevano ordinato. Sapeva dunque che il Borri in materia di medicina era eccellentissimo; gli confidò la sua fastidiosa e molesta indisposizione; il quale comprese la qualità del male, e adoperandosi volontieri per guarirlo e forse per acquistar fama, ordinogli una ricetta scritta di propria mano. Esso consolato dal suddetto, messe in pratica quanto prima quei medicamenti ordinatigli e in pochi giorni guarì affatto.
Il resto della nobiltà di Terni, non vi restò alcuno tanto di dame che di cavalieri che non andassero a vederlo alle carceri del governatore, et essendo compitissimo, complimentò con tutti benché si vedesse vicino alle porte di Roma, che vuol dire vicino all’ultimo dei suoi giorni … ».
Arrivato finalmente in Roma, il Borri fu rinchiuso in Castel S. Angelo, e subito si rinnovò il processo a suo carico; ma la sentenza si fece attendere non poco, perchè i giudici non erano concordi: i signori consultori, narra l’anonimo biografo del Codice ora citato, si divisero in due parti fazionarij, volendo gli uni, in ossequio alla sentenza del 1661, mandare l’imputato alla morte, e opinando invece i più miti, che il carcere perpetuo fosse la giusta pena.
Secondo il De Castro, prevalse il parere dei secondi, anche perchè era stato solennemente promesso all’imperatore Leopoldo di risparmiare all’eretico alchimista la pena capitale; ma ciò non risulta affatto dalle lettere del Nunzio: è evidente che la relativa mitezza del giudizio, derivò soprattutto dalla condotta che il Borri tenne durante le sue peregrinazioni in Europa, non avendo egli più insistito nella propaganda per la sua confusa riforma religiosa, ma soltanto coltivato lo studio delle scienze mediche e dell’alchimia.
La sentenza proclamata nel 1672, oltre al carcere perpetuo, lo condannò a recitare una volta al giorno il simbolo delli Apostoli e li sette salmi penitenziali, a ricevere una volta il mese i sacramenti, e lo riammise, dopo la funzione dell’abiura, tenutasi nel settembre di quell’anno nella Chiesa della Minerva, nel grembo della Chiesa cattolica, riserbando a chi spettava, il diritto di aumentare diminuire la pena, secondo i suoi portamenti (8).
Rimase fin al 1678 nelle carceri dell’Inquisizione; e chiamato allora per ordine di Innocenzo XI a curare il duca d’Estrées, ambasciatore di Francia, ebbe la ventura di guarire l’illustre malato, ottenendo in premio di passare da quelle carceri a Castel S. Angelo; più tardi gli fu anche concesso di passeggiare libero per le vie della città e di dedicarsi alla medicina.
Era quindi naturale ch’egli si occupasse col solito ardore di scienze occulte, e ciò gli procurò l’amicizia e la protezione di molte nobili e ricche famiglie romane, perchè quelle misteriose ricerche esercitavano sempre il loro irresistibile fascino; prigioniero dunque a metà, per così dire, e accarezzato dai patrizi, il Borri non lamentava certo la sua sorte. Ma nel 1691, un altro Innocenzo, il XII, che era l’antico Nunzio di Vienna, e che fu pontefice rigidamente severo verso tutti, si mostrò inflessibile anche verso il Borri, sua vecchia conoscenza; gli fu quindi negato il piacere d’uscire per la città, e in Castel S. Angelo terminò quasi dimenticato i suoi giorni nel novembre del 1695.
Nel Cod. Urbinate 1690, della Vaticana, così è scritto a fol. 184: «Morse il suddetto Borri in Castel S. Angelo ivi ristretto dalla sacra Inquisitone, di novembre del 1695 (9) stante una infetione d’aria per l’inondatione del fiume che partorì e nelli borghi e nella fortezza quasi un contaggio. Mentre il detto visse nella detta fortezza Adriana attese alla chimica, facendo di molte cure, fra l’altre del Duca di Lestre (sic), che fu permesso di andarlo a curare nel suo palazzo. Come parimente fu permesso nella malattia et ultima infermità del signor cardinale Verginio Orsino del mese d’agosto del 1676, che fu l’ultima malattia della sua vita».
Arturo Magnocavallo.
NOTE:
(1) G. De Castro, Un precursore milanese di Cagliostro in questo Archivio, serie III, fasc. IV, 350-89. Il De Castro, citando tutti quelli che del Borri più o meno scrissero, non accenna a ciò che ne disse il Cantù, Eretici d’Italia, III, 329-32, Torino, 1866.
(2) Trovasi nei seguenti mss.: Cod. Vatic. lat. 9430 (Libro di diverse memorie di Roma), fol. 70-76; Cod. Urbin. 1728 (miscell.), fol. 119-148; Cod. Ottob. 2472 (miscell.), fol. 317-27 della part. II; Cod. Ottob. 2762 (miscell.), fol. 178-190; Cod. Cappon. 171 (miscell.), fol. 46-53; tutti della Bibl. Vaticana. Tale sentenza è pure conservata nel Cod. Arm. III, part. II, dell’Archivio Vaticano; nei Codd. LIII, 89 e LVII, 69, della Bibl. Barberini, e nel Cod. 2378 (miscell.), fol. 77-108, della Casanatense.
Questo elenco, certo incompiuto, di mss. quasi tutti contemporanei al processo, dimostra la grande curiosità ch’esso suscitò; la quale, data la relativa importanza dell’avvenimento, s’acquietò ben presto, e in pochi libri infatti la lunga sentenza fu pubblicata. Cfr. G. Brusoni, Della Historia d’Italia, 748-51, Venezia 1671; Vita del cavagliere Borri, ecc., Colonia, 1681, e L’Ambasciata di Romolo ai Romani ecc., Bruxelles, 167 1, (due operette anonime, attribuite a Gregorio Leti); Amoenitates literariae, quibusvariae observationes ecc., V, 149-62. Francoforte-Lipsia, 1725-31; (in quest’ultimo è riportata la sentenza nel testo latino).
(3) Sono nel Cod. Ottob. 2472, part. II, fol. 311-13 e fol. 315-16 della Biblioteca Vaticana.
(4) Il De Castro, op. cit., 369, riportò ciò che ne scrisse Marco Cremosano nel suo Diario, pubblicato dal conte Porro Lambertenghi, secondo il cod. della Trivulziana; ma la relazione di Marco è più breve e meno compiuta di questa del cod. Vaticano.
(5) Il Cantù e il De Castro non accennano affatto al soggiorno del B. in Dresda, mentre se ne discorre chiaramente in due curiose lettere tedesche del 1660, pubblicate nelle Amoenitates, ecc., V, 143-5.
(6) Istruzioni politiche del cavagliere G. Borri milanese, date al Re di Danimarca, Colonia, 1681- Le lettere scientifiche sono raccolte sotto il titolo: La chiave del Gabinetto del cavagliere G. Borri, ecc., Colonia, 1681; esse trattano della formazione naturale e artificiale dei metalli, del segreto per trarre la semente dall’oro, del modo di congelare il mercurio e di ridurlo in argento, ecc. Si veda in proposito De Castro, op. cit., 375 e segg.
(7) In calce è scritto: L’originale di questa lettera è restato alla S. Congregatione del S. Offitio, addì 3 luglio 1670.
(8) Copia di questa sentenza sta nel Cod. Urbinate 1690, della Biblioteca Vaticana, fol. 173-184. Il Brusoni, nell’altra edizione della sua Historia d’Italia (Torino, 1680), ne diede sommaria notizia.
(9) Il Cantù, op. cit., Ili, 331, reca invece la data 20 agosto 1695.