Pagina on-Line dal 12/05/2012
4 – COME LA NATURA LAVORA NELLE MINIERE PER FARE I METALLI.
Così, continuando nella nostra suddivisione, spiegherò il modo in cui lavora la natura nelle concavità della terra, nelle miniere, per la procreazione dei metalli. In questo modo si potrà sapere in quali operazioni l’arte può imitarla e, conseguentemente, qual è la vera materia richiesta per fare i metalli sopra la terra. Ma, dal momento che si tratta del punto principale della nostra scienza, come dicono Geber all’inizio della sua Summa ed Avicenna, che proibisce di dedicarsi alla pratica se non si sono prima studiati i veri fondamenti in materia di miniere, nella mia spiegazione seguirò gli autori principali e più sperimentati nella pratica delle miniere, secondo la testimonianza dei loro scritti.
È ritenuto del tutto risolto e più che certo tra tutti i filosofi, che ogni semplice che sia congelato dal freddo abbondi, nella sua prima materia, di umidità acquosa, come dice Aristotele nel quarto delle Meteore. Per questo, poiché i metalli fusi sono congelati dal freddo, bisogna dire che essi abbondano, nella loro materia prima, di umidità acquosa. Tuttavia, Alberto Magno (che ha più da vicino di ogni altro studiato le cause della procreazione dei metalli) mostra assai bene che questa umidità acquosa non è affatto l’umidità comune che possiamo vedere nell’acqua e negli altri semplici, perché l’esperienza ci mostra che questa è convertita in vapore dalla violenza del fuoco, mentre i metalli fusi non sono affatto convertiti in vapore. Bisogna dunque dire che la loro umidità è mescolata con qualche altra materia che li trattiene sul fuoco e che impedisce che siano convertiti in vapore dalla violenza di questo. Ora, non vi è materia che resista di più al fuoco dell’umidità viscosa quando è mescolata con la parte terrestre e sottile, come testimonia Bono, filosofo italiano, e come ci è reso certo dall’esperienza. Perciò bisognerà dire che l’umidità dei metalli è di questa specie.
Ma, poiché vediamo che nei metalli vi sono delle umidità che sono consumate dal fuoco senza che, per questo, i metalli stessi ne siano consumati, come l’esperienza della loro purgazione ci mostra, ci è necessario confessare, con i principali autori della nostra scienza, che, nella composizione dei metalli, entrano due tipi di umidità viscosa. L’una dal di fuori, che essi chiamano estrinseca, ed una dal di dentro, che definiscono intrinseca. E poiché la prima è grossolana e non è perfettamente mescolata con la sua materia terrestre e sottile, essa è facilmente arsa e consumata dal fuoco. Ma la seconda è assai sottile e talmente mescolata con la sua parte terrestre, che tutte e due insieme non fanno che una materia semplice, la quale non può essere consumata in parte dal fuoco senza esserlo interamente. Da essa è procreato e fatto l’argento vivo che vediamo comunemente, il che è mostrato per esperienza (come ha ben detto Arnaldo da Villanova), esperienza che ci certifica che le due suddette materie sono perfettamente congiunte in esso. Perché o il terrestre trattiene l’umidità con sé, o l’umidità se lo porta via, come dice Alberto Magno. Questi, nel cercare le cause delle composizioni metalliche, ha ben compreso che la causa per la quale l’argento vivo è sempre in movimento, è che l’umidità domina sulla parte terrestre, così come, per la medesima ragione (ovvero per l’indicibile ed univoca commistione che li lega) il terrestre, dominando sull’umido, è causa che l’argento vivo non bagni affatto ciò che tocca, né il legno in cui si tiene.
Perciò, dunque, ci è abbastanza evidentemente mostrato che la sentenza di Alberto Magno è assai vera, quando egli dice, nel suo libro dei Semplici Metallici, che la prima materia dei metalli è l’umidità viscosa, incombustibile e sottilissima, mescolata per forte e mirabile miscela con la parte terrestre e sottile nelle caverne delle terre minerali. Il che non contrasta in nulla ciò che dice Geber nella sua Summa, quando dice che l’argento vivo è la vera materia dei metalli, perché la natura, che non è mai oziosa, ha procreato l’argento vivo da questa materia. A causa di ciò Bono ha detto assai bene che essa è la materia più prossima dei metalli, ma che la materia prima e principale è la detta umidità viscosa mescolata con la sua parte sottile e terrestre, come dice Alberto. Geber dichiara molto bene il medesimo quando dà, nella sua Summa, la definizione dell’argento vivo: è – egli dice – una umidità viscosa che è stata ispessita con l’aiuto della parte terrestre che entra nella sua composizione.
Bisogna ora considerare molto sottilmente il modo in cui la natura procede alla procreazione di tutte le cose in cui essa ha mescolato una propria materia che i filosofi chiamano agente, poiché tale materia non si produce da sola, come dice Aristotele, ossia non mostra i suoi effetti. Perché la natura, che è onnisciente, nella procreazione dei metalli, dopo aver creato la loro materia, ossia l’argento vivo, vi aggiunge il proprio agente, ossia un tipo di terra minerale che è come crema grassa, decotta ed ispessita per lunga cottura dal calore che è nelle caverne delle miniere. Chiamiamo comunemente questa terra zolfo e, rispetto all’argento vivo, essa è ciò che il caglio è per il latte, l’uomo è per la femmina, e l’agente in comparazione alla materia soggetta. Questo zolfo dei filosofi ci si dice essere di due tipi: uno è per sua propria natura facile a fondere, e l’altro è solo congelato e non fondibile.
Perciò, affinché la natura mostri la potenza e forza dell’agente, ossia dello zolfo, nella materia alla quale esso è congiunto, essa ha fatto sì, per mezzo di una mirabile composizione, che i metalli fossero congelati per l’azione dello zolfo fondibile, perché essi pure fossero fondibili, così come ha composto gli altri metalli semplici per mezzo dell’azione non fondibile affinché essi pure non fossero fondibili: è il caso della magnesia, della marcassite e di altri simili. Ma, poiché l’agente non può in alcun modo essere parte materiale del composto, come dice Aristotele, la natura, lavorando sotto terra alla procreazione dei metalli, dopo aver mescolato detto zolfo all’argento vivo per una indicibile composizione, ne fa e crea il metallo principiale, ossia l’oro, separandone (per decozione perfetta) il suo agente, ossia lo zolfo: il che è la causa per la quale l’oro è più perfetto di tutti gli altri metalli, perché esso è la principale ed ultima intenzione della natura nella procreazione dei metalli, così come ci certifica l’esperienza quando essa non li trasmuta a miglior stato. Ed è la ragione per cui l’argento vivo si mescola meglio e più facilmente con l’oro di qualunque altro metallo, perché esso non è altro che argento vivo cotto dal suo proprio zolfo e del tutto separato da questo per mezzo della detta cottura. Ora, poiché la separazione dello zolfo è la causa della perfezione dell’oro, ugualmente, a causa della sua permanenza negli altri metalli, questi sono detti imperfetti. Ed ecco la causa per la quale l’argento è meno perfetto dell’oro ed il rame più imperfetto dell’argento, ovvero per mancanza di cottura, poiché solo per mezzo di questa il loro agente (ossia lo zolfo) ne è separato.
In ciò è chiarito il principale e più gran segreto della nostra scienza. Infatti, poiché bisogna che essa segua la natura nelle sue operazioni, è necessario che prima di perfezionare la nostra divina opera, noi ne separiamo l’agente, ossia lo zolfo, il che è stato nascosto da tutti i filosofi nei loro scritti, rinviandoci alle operazioni della natura, le quali mi sembra di aver chiarito abbastanza.
Ma, affinché si conosca perfettamente in cosa la nostra scienza può seguire le operazioni della natura, ci conviene chiarire il metodo principale e più usuale di cui essa fa uso nella perfezione dei metalli, abbiamo già detto che la perfezione o imperfezione dei metalli è causata dalla privazione o commistione del loro agente, ossia dello zolfo, ed abbiamo mostrato il primo modo di cui fa uso la natura per comporre il principale e più perfetto di tutti i metalli, che è l’oro. Ma essa fa uso di un altro metodo che sembra diverso dal primo, per quanto in realtà entrambi non siano che uno stesso, se si considerano il fine e la vera intenzione della natura, che non sono altro che il purgare e nettare il metalli dal loro zolfo. Infatti, ciò che essa compie nel primo metodo con una perfetta cottura, lo fa nel secondo per mezzo di continua e lunga digestione, digerendo e purificando i metalli imperfetti poco a poco, fino a quando non siano ridotti in oro. Che ciò sia vero, l’esperienza ce lo dimostra nelle miniere d’argento, dove ordinariamente si trova del piombo ed, in alcune, i due si ritrovano talmente mescolati insieme che coloro che sono esperti nelle cose delle miniere dicono (dopo aver scoperto l’argento che sembra quasi imperfetto per mancanza di digestione) che bisogna lasciarli così e chiudere le miniere, affinché nulla della materia sottile evapori per trenta o quaranta anni e, in questo modo, il tutto possa portarsi a perfezione. Il che, riporta Alberto Magno, fu fatto ai suoi tempi nel reame di Schiavonia. Ed io ho udito affermare lo stesso ad un maestro che era grandemente esperto in fatto di miniere (2).
È dunque in questo secondo modo che la natura perfeziona i metalli, ed è questo modo che la nostra arte segue nelle sue operazioni, ossia il perfezionamento dei metalli imperfetti per privazione del loro zolfo, il quale è separato attraverso la proiezione che noi eseguiamo su di esso di questa divina opera quando i metalli sono fusi, perfezionandoli in fino oro per mezzo di una perfetta ed esuberante decozione amministrata dalla nostra arte.
E così come i diversi metodi che la natura usa per la purificazione dei metalli non fanno si che noi possiamo trovare diversi tipi d’oro (diversi in perfezione, intendo), così i diversi metodi che noi usiamo in superficie (che sono altri e differenti dalle operazioni della natura) non provocano alcuna differenza tra il nostro oro e quello minerale, visto che noi facciamo uso della stessa materia che la natura usa sotto terra nelle miniere. Il che è confermato da Aristotele nel 9° della sua Metafisica, quando dice: quando l’agente e la materia sono simili, le operazioni sono sempre simili, ancorché i mezzi per compierle siano diversi. Perché i mezzi e la materia sono due cose differenti. Perciò, se la materia è una e del tutto simile, tutte le operazioni che sembrano all’inizio contrarie fanno infine un medesimo effetto, come testimonia il medesimo filosofo.
Ora, a proposito del fatto che la materia della quale facciamo uso per perfezionare i metalli sulla terra sia del tutto simile a quella di cui fa uso la natura sotto terra per la procreazione dei metalli, Geber, nella sua Summa, dice che la nostra scienza segue la natura il più possibile. Lo stesso dicono Ermete, Pitagora, Senior e molti altri. Poiché, dunque, essa segue la natura, bisogna confessare necessariamente che essa usa una materia simile, e questa, nella nostra, scienza, non può essere che una sola. Abbiamo così mostrato abbastanza che non vi è che una sola materia in natura, che abbiamo chiamato argento vivo; essa non si trova da sola, ma è piuttosto mescolata col suo proprio agente, che è il suo vero zolfo.
Questa stessa materia, dunque, che i filosofi hanno chiamata argento vivo animato, sarà la vera materia della nostra scienza per perfezionare la divina opera, visto che tale materia, senz’altro, è la vera materia usata dalla natura nelle concavità della terra e nelle miniere nella procreazione dei metalli, come abbiamo a sufficienza mostrato in precedenza.
La ragione per cui i filosofi l’hanno chiamata argento vivo animato è per mostrare la differenza che vi è tra essa e l’argento vivo comune che è rimasto tale, poiché la natura non vi ha aggiunto il suo proprio agente. Bisogna dunque che né l’argento vivo comune, né lo zolfo comune siano la vera materia dei metalli, come molti hanno falsamente stimato. E che ciò sia vero, l’esperienza ce lo testimonia poiché non si trovano mai l’argento vivo comune, né lo zolfo comune mescolati insieme nelle miniere. Come dunque essi, nelle concavità della terra, potrebbero essere la vera materia dei metalli e, di conseguenza, della nostra scienza? Questo afferma anche Geber nella sua Summa, quando parla dei principi di questa. E, in altro luogo, egli dice assai bene che il nostro argento vivo non è altro che un’acqua viscosa ispessita attraverso l’azione del suo zolfo metallico.
È la nostra vera materia che la natura ha preparato per la nostra arte (come dice Valerandus Sylvensis) riducendola in una specie certa, conosciuta ai veri filosofi, senza trasmutarla ulteriormente dal suo stato. Dunque, tutte le materie che noi potremmo mescolare insieme, siano esse metalliche o meno, ammesso che la natura le abbia già preparate, sono la vera materia della nostra scienza. In questo modo non ci restano che due cose da fare, ossia il purificare la detta materia, perfezionarla, e quindi congiungerla attraverso la cottura. È di questa materia che ha scritto Razi nel libro dei Precetti: il nostro mercurio, egli dice, è il vero fondamento della nostra scienza, dal quale solo si estraggono le vere tinture dei metalli. Alfidio ha dichiarato lo stesso quando dice: stai attento, figlio mio, perché tutta l’opera dei sapienti filosofi risiede nel solo argento vivo. Questa è la ragione per la quale Ermete ci comanda di conservare bene questo mercurio, che egli chiama coagulato e nascosto nelle stanze dorate. Di questo stesso mercurio ha parlato Geber, quando dice, libro II, parte I, cap. VII: lodato sia l’altissimo Dio che ha creato questo argento vivo e gli ha dato una tale potenza che non ve n’è un altro che gli sia pari per il perfezionamento del vero magistero della nostra scienza. In breve, non vi è autore sapiente che abbia scritto e che non sia di questa opinione.
Tuttavia io so bene che gli operatori di oggi mi accuseranno chiedendomi come è possibile che io osi riprendere tanti sapienti che ci hanno preceduto, i quali ci hanno lasciato per iscritto non solo la teorica della nostra scienza, ma anche la pratica. In essa costoro ci insegnano a sublimare l’argento vivo, che essi chiamano mercurio, con vetriolo e sale, e poi mostrano come bisogna rivivificarlo con acqua calda, al fine di mescolarlo con dell’oro che essi chiamano sole, e per questo mezzo dissolverlo per fissarlo, perfezionando in questo modo la nostra divina opera, come hanno scritto Arnaldo da Villanova nel suo Grande Rosario e Raimondo Lullo nel suo Testamento.
Affinché li possa contentare, palesandogli la loro stessa ignoranza, non farò che seguire gli stessi autori che essi invocano, i cui scritti ci testimoniano che tutte queste diverse operazioni, distillazioni, separazioni di elementi, riduzioni ed altre simili, non sono state scritte che per nascondere e velare la vera pratica della nostra scienza. A conferma di ciò, Arnaldo da Villanova, dopo averci insegnato tutte queste operazioni nell’ultimo capitolo – che è il 32° – del suo Rosario, ci dice, in fine della sua ricapitolazione: abbiamo mostrato la vera pratica ed il vero mezzo per perfezionare la nostra opera divina, ma in parole assai brevi, le quali sono tuttavia abbastanza prolisse per coloro che le intenderanno. Nel parlare di tante, diverse e lunghe operazioni, si è sempre inteso parlare della vera preparazione e pratica della nostra divina opera. Lo stesso ci testimonia la fine del Codicillo di Raimondo Lullo, laddove egli risponde a coloro che vorrebbero domandargli perché mai ha scritto dell’arte quando, in precedenza, aveva testimoniato che non si può arrivare alla vera conoscenza di questa attraverso la lettura dei libri: affinché – egli dice – il lettore fedele sia introdotto ed reso abile nella vera conoscenza della nostra divina opera, la preparazione della quale noi non abbiamo mai esposto chiaramente. Le grandi e diverse preparazioni che egli ha insegnato nei suoi libri non sono altro, dunque, che la sola ed unica pratica che è richiesta per portare a perfezione la nostra divina opera.
Ve ne saranno altri che saranno più sapienti di me e volentieri mi riprenderanno dicendo: perché hai scritto che la nostra divina opera è fatta d’una sola materia, ossia del solo argento vivo animato, visto che Geber, nella sua Summa, al capitolo della coagulazione del mercurio, dice che essa è estratta dai corpi metallici preparati con il loro Arsenico? Rosinus, al contrario dice che la nostra divina opera è fatta dal vero zolfo incombustibile, e Salomone, figlio di David, testimonia il medesimo quando dice: Dio ha preferito a tutte le cose che sono sotto il cielo il nostro vero zolfo. Pitagora, nella Turba dei filosofi, ha scritto che, la nostra divina opera è perfetta quando gli zolfi si congiungono l’uno con l’altro. Dunque, la nostra opera è fatta di zolfo e non di solo argento vivo animato.
Per ben rispondergli e contentare i loro spiriti sviati dal vero cammino, bisogna rammentargli di ciò che abbiamo spiegato in precedenza, parlando della materia dei metalli, quando abbiamo mostrato come la natura abbia aggiunto l’agente proprio all’argento vivo nelle miniere.
5 – DIVERSI NOMI DELL’OPERA, DELLA MATERIA E DI QUALE ESSA SIA.
Ora, poiché la nostra opera non ha un vero nome proprio, gli uni gli hanno dato un nome, gli altri un altro, di modo che Lilium ha scritto assai bene che la nostra divina opera ha tanti nomi quante cose vi sono al mondo. Con ciò egli voleva dire che essa ha infiniti nomi, perché, per quanto essa sia sempre la stessa, fatta d’una sola materia, tuttavia i filosofi gli hanno dato diversi e variabili nomi a seconda della diversità dei colori che appaiono durante la sua decozione.
Così coloro che l’hanno chiamata argento vivo animato, come noi, hanno considerato che la nostra prima materia, che gli antichi filosofi hanno chiamato chaos, partecipa, ai suoi inizi, ed è veramente del tutto simile, alla natura e materia dell’argento vivo dal quale la natura compone e perfeziona i metalli nelle cavità della terra, come abbiamo mostrato abbastanza in precedenza.
Analogamente, coloro che hanno chiamato la nostra divina opera pietra filosofale (che è oggi il nome più diffuso) hanno avuto riguardo alla fine della cottura della nostra materia, poiché, alla fine, essa è fissa e non si volatilizza più al fuoco, ed essi hanno tra loro in comune l’abitudine di chiamare pietra qualunque cosa non evapori e non sublimi al fuoco.
Altri hanno inventato molti altri nomi (basandosi su diverse ragioni), che qui sarebbe troppo lungo elencare, come dice Malvescindus: se chiamiamo la nostra materia spirituale, diciamo il vero; se la diciamo corporale, non mentiamo; se la definiamo celeste, è il suo vero nome; se la chiamiamo terrestre, parliamo assai propriamente. Con ciò egli chiarisce abbastanza che la varietà dei nomi, che coloro che ci hanno preceduti hanno attribuito alla nostra divina opera, è stata causata da diverse ragioni fondate sulla diversità dei colori e delle altre modificazioni che appaiono durante la cottura.
Così coloro che l’hanno chiamata zolfo (come testimoniano le autorità che si potrebbero citare contro di me) hanno avuto riguardo all’ultima cottura nella quale la nostra materia è fissa. Essa, sebbene all’inizio mostri la vera apparenza di argento vivo, poiché è volatile, alla fine si dice invece fissa. Allora, ciò che era invisibile all’interno (cioè le parti fisse che chiamiamo zolfo) si fa manifesto per la continua e definitiva cottura con la quale domina il volatile. Questa è la ragione per la quale la nostra materia non è più definita volatile (da coloro che considerano l’ultima cottura) ma piuttosto zolfo fisso, come dice Arnaldo da Villanova nel suo Gran Rosario quando parla dell’ultima cottura della nostra divina opera: è – egli dice – il vero zolfo rosso attraverso il quale l’argento vivo può essere perfezionato in oro fino.
Perciò, possiamo veridicamente e giustamente concludere che la materia dalla quale noi componiamo la nostra divina opera non è che una sola, del tutto simile alla materia della quale la natura fa uso sotto terra e nelle miniere nella procreazione dei metalli, nonostante tutte le autorità contrarie ed tutti gli altri simili pareri che ci possano essere opposti. Perché, come dice Aristotele ( e come anche l’esperienza ci dimostra) la diversità dei nomi, in sé, non fa le cose diverse.
6. SPIEGAZIONE DEI PRINCIPALI TERMINI DELLA SCIENZA.
Per concludere la nostra suddivisione, ci restano da spiegare i termini della nostra scienza. Intendo spiegare, ovvero riferire, le sentenze dei buoni e principali autori che ci hanno preceduto. Questi, tra gli altri, parlando della composizione della nostra divina opera, fanno uso di quattro termini in particolare, ossia dei quattro elementi, del perfetto lievito, del vero veleno, e del coagulo perfetto, che essi hanno in altro modo denominato il maschio, comparandolo alla femmina, così come essi comparano il loro caglio o coagulo al semplice latte.
Al fine di spiegare bene ciò che essi intendono per quattro elementi, occorre sapere ciò che tutti i filosofi naturali hanno dichiarato al riguardo della prima materia che essi chiamano chaos, nella quale dicono che tutti e quattro gli elementi erano confusi e dalla quale questi, a causa della loro reciproca contrarietà, ognuno mostrando le proprie qualità, essi ci si sono manifestati. È questa la ragione per la quale Alessandro ha scritto, nella sua Epistola, che tutto ciò che ha mostrato ai nostri antenati la qualità del caldo essi l’hanno chiamato fuoco, ciò che era secco e coagulato terra, ciò che era umido e labile acqua, e ciò che era freddo e sottile, ventoso, essi l’hanno chiamato aria.
Di questi quattro elementi due sono racchiusi negli altri due, come dice Razi nel libro dei Precetti: ogni composto è fatto dai quattro elementi, dei quali due sono nascosti negli altri due visibili, ossia l’aria all’interno dell’acqua ed il fuoco all’interno della terra, come abbiamo già detto. Tuttavia, poiché i due racchiusi, ossia l’aria ed il fuoco, non possono mostrare la loro azione senza gli altri due, essi sono chiamati i due elementi deboli, mentre gli altri due sono chiamati i forti. Questa è la causa per la quale i filosofi dicono che i compositi sono perfetti quando l’umido e il secco (ossia l’acqua e la terra) sono congiunti ugualmente, con l’aiuto della natura, con il freddo ed il caldo, ovvero con l’acqua ed il fuoco. Ciò si compie attraverso la conversione dell’uno nell’altro. Per questo Alessandro, nel Libro dei segreti, dice: se tu converti gli elementi l’uno nell’altro, troverai ciò che cerchi. Bisogna aver ben chiara questa sentenza, poiché, essa, quando è ben intesa, ci addita la vera materia e la perfetta pratica della nostra scienza.
Per ben comprenderla, ci occorre parlare un po’ più specificamente dei quattro elementi e della loro natura, poiché essi sono necessari alla composizione della nostra divina opera. Ermete, quando ne parla, dice che dalla nostra terra sono creati tutti gli altri elementi. Al contrario Alfidio, dice che l’acqua è l’elemento principale, dal quale sono creati tutti gli altri elementi richiesti per la nostra divina opera. In ciò non vi è affatto la contraddizione che potrebbe sembrare, perché all’inizio della procreazione della nostra divina opera, non appare null’altro che acqua, che i filosofi hanno chiamato acqua mercuriale. Da questa, quando si ispessisce per congiunzione e decozione sovrannaturale, si crea la terra, senza la quale l’acqua è inutile. Ermete ha dunque detto molto bene che dalla terra escono gli altri elementi, poiché nella seconda operazione, essa sola mostra le sue qualità, così come solo l’acqua appariva al principio. Il che ha fatto scrivere ad Alfidio, a Valerandus ed ad altri che essa è l’elemento principale nella composizione della nostra divina opera. Sono questi i due elementi che i filosofi hanno comandato di conoscere bene prima di dedicarsi al lavoro, come dice Razi nel Libro delle luci: prima di cominciare – egli dice – bisogna conoscere bene la natura e la qualità dell’acqua e della terra, poiché in questi due sono compresi i quattro elementi. Altrimenti, il volatile trascinerà con sé il fisso, e, in questo modo, la nostra scienza ci sarà inutile. Questa è la ragione principale per la quale ci è comandato di convertire i quattro elementi, affinché la nostra divina opera sia ben qualificata e fatta fissa per poter resistere ad ogni violenza di fuoco, corruzione d’aria, ruggine della terra, rovina e putrefazione d’acqua, né più né meno dell’oro minerale, per ragione della sua gran perfezione.
Questa conversione degli elementi, non è altro, come dice Raimondo Lullo, che trasformare la terra, che è fissa, in volatile, e l’acqua, che è umida e volatile, in secca e fissa. Il che si compie attraverso la continua cottura nel nostro vaso, che non si deve mai aprire per tema che i nostri elementi si rovinino e si volatilizzino in fumo. Lo stesso testimoniano gli scritti di Razi e di altri filosofi, quando dicono che la vera separazione e congiunzione dei quattro elementi si compie nel nostro vaso, senza che nulla si tocchi con mani e con piedi poiché – essi dicono – la nostra pietra si dissolve, si coagula, si lava e si purga, si imbianca ed arrossa da sola, senza che vi si mescoli alcunché di estraneo. Arnaldo da Villanova è di questo medesimo avviso nel suo Gran Rosario dove, con poche parole, dice: non bisogna penare ad uccidere l’acqua, cioè a fissarla, perché, se essa è morta, sono morti – ossia fissati – anche tutti gli altri elementi.
Non è affatto vero che la falsa e sofistica separazione dei quattro elementi che fanno gli operatori di oggi sia ben fondata su questi scritti, e meno che mai sulle sentenze di tutti i filosofi, che vietano in modo particolare di sciupare i semplici nelle proprie preparazioni, perché essi dicono, è impossibile per l’arte dare le forme prime. Ora, è del tutto accettato che i quattro elementi non potrebbero essere composti senza distruggerli. Per questo non c’è alcun bisogno di usare di questa sofistica e falsa separazione di elementi per la composizione della nostra opera divina. E che sia vero che tale separazione sia falsa, è stato già sufficientemente provato innanzi, quando si è detto che due elementi sono racchiusi negli altri due. Non possiamo dunque arrivare alla perfetta separazione degli elementi, ed ancor meno possiamo conoscere la loro vera e dovuta congiunzione. Inoltre l’esperienza ci mostra, come ha ben scritto Valerandus, che gli elementi che essi dicono di aver separato non partecipano in nulla alla natura dei veri elementi, e ne fa fede il loro olio, che essi chiamano aria, il quale bagna tutto ciò che tocca, al contrario del comportamento naturale dell’aria. Mi è perciò sufficiente aver mostrato ciò al riguardo della natura e della qualità degli elementi, e della loro conversione, operazione richiesta nella nostra scienza, per mettere allo scoperto l’ignoranza degli odierni operatori ed introdurre i veri figli della scienza alla sua conoscenza.
Continuando dunque nella nostra ultima divisione, chiariremo cosa i filosofi abbiano inteso col termine lievito o fermento, dicendo che gli hanno attribuito due significati, usandolo nel primo senso quando comparano la nostra opera divina ai metalli. Perciò, cosi come un po’ di aceto inacidisce e converte molta pasta nella sua natura, così la nostra opera divina converte i metalli nella sua natura e, poiché tale natura è oro, essa li converte in oro. Ma poiché i filosofi non l’hanno usato con questo significato (che non presenta difficoltà), parleremo ora del secondo significato, nel quale risiede tutta la difficoltà della nostra scienza. Essi infatti intendono con il termine lievito il vero corpo e materia che porta a perfezione la nostra opera divina; questo corpo è sconosciuto agli occhi, ma bisogna conoscerlo più tosto con l’intelletto. Perché, all’inizio, la nostra materia appare come volatile (come abbiamo spiegato in precedenza), e ci occorre congiungerla col suo proprio corpo, affinché, per questo mezzo, ritenga l’anima la quale, per mezzo di questa congiunzione (fatta per mezzo dello spirito) mostra le sue divine operazioni nella nostra divina opera. Come è scritto nella Turba dei Filosofi il corpo ha maggior forza dei suoi due fratelli che si chiamano spirito ed anima. Con questa parola non si intende ciò che intendevano Aristotele ed altri grandi filosofi (il che è degno di nota), ma piuttosto, si chiama corpo ogni semplice che, per sua natura, può sostenere il fuoco senza alcuna diminuzione, e tali corpi si chiamano fissi. I filosofi hanno chiamato anima ogni sostanza che, in sé, è volatile, ed ha la forza di far innalzare il corpo al di sopra del fuoco; essi lo chiamano, in altri termini, volatile.
Chiamano inoltre spirito ciò che ha la potenza di ritenere il corpo e l’anima e congiungerli insieme a tal punto che essi non possano essere separati, che siano essi perfetti o imperfetti. E per quanto, invero nella nostra opera non entri nulla di nuovo né al principio (intendo nella prima preparazione), né a metà, né alla fine, i filosofi, sotto diversi aspetti e per diverse considerazioni, hanno chiamato una stessa sostanza corpo, anima e spirito, come abbiamo già sufficientemente spiegato in precedenza.
Così, quando all’inizio, la nostra materia era volatile, essi l’hanno definita anima, perché essa trasportava con sé il corpo; ma quando nella nostra cottura ciò à che era nascosto si è poi fatto manifesto, allora il corpo ha mostrato la sua forza per mezzo dello spirito, vale a dire che ha ritenuto l’anima e, riducendola alla sua propria natura (che è fatta d’oro), l’ha resa fissa per sua potenza e con l’aiuto dell’arte.
In ciò diviene chiara la vera interpretazione di ciò che Hermes ha scritto, e cioè che nessuna tintura si fa senza la pietra rossa, perché, come dice Rosinus, il nostro vero sole appare bianco ed imperfetto durante la nostra cottura, ed è perfetto quando è di colore rosso. È dunque questo il fermento di cui ha parlato Arnaldo da Villanova nel suo Gran Rosario, quando dice che si mostra in questi due colori senza che mai lo si debba toccare e senza che gli si debba mescolare nulla, come tuttavia si potrebbe equivocare dai suoi scritti. Che ciò sia vero lo conferma Anaxagoras che dice che il nostro sole è rosso ed ardente, ed è congiunto con l’anima, che è bianca e della natura della luna, per mezzo dello spirito; per quanto, in verità il tutto non sia che argento vivo dei filosofi. Ciò è lo stesso di quanto spiega Morieno, quando dice non è possibile pervenire alla perfezione della nostra scienza fino a che la luna non è congiunta col sole, poiché senza di ciò la nostra scienza è inutile, come dicono del resto anche Hermes e tutti gli altri filosofi. Appare così chiaro come bisogna intendere ciò che disse Razi nel Libro delle Luci: alla fine, al perfezionamento della nostra opera, il servo rosso ha sposato la donna bianca. Ciò concorda con quanto dice Lilium, che la vera unione del corpo e dell’anima è fatta nel colore bianco e rosso attraverso un mezzo. Il che si compie in un certo tempo per mezzo della nostra cottura, la quale bisogna governare in maniera tale che la nostra materia non ne sia sciupata, perché, come è scritto nella Turba, profitto o danno nella nostra divina opera, provengono entrambi dall’amministrazione del fuoco.
Perciò io consiglierei, con Rasis, che nessuno inizi a praticare la nostra scienza senza prima conoscere ogni regime del fuoco che sia richiesto nella composizione della nostra divina opera, poiché essi sono tra loro assai diversi. In altri termini, bisognerà applicare quel terzo termine che viene chiamato veleno, e ciò deve avvenire nella seconda operazione, come abbiamo detto in precedenza. Non che, per questo, si debba aggiungere alcunché di velenoso, e meno che mai la teriaca o altre sostanze estranee, come alcuni hanno pensato arrestandosi all’apparenza della lettera. Bisogna piuttosto essere accurati e vigilanti nel non perdere l’ora giusta della nascita della nostra acqua mercuriale, al fine di congiungervi il suo proprio corpo, che in precedenza abbiamo chiamato lievito ed ora chiamiamo veleno, per due ragioni. La prima è che, così come il veleno non apporta nulla al corpo umano che danneggia, così, se sbagliamo la detta congiunzione nell’ora determinata, esso non ci porta che danno, come abbiamo chiarito in precedenza. Per la stessa o simile ragione è detto veleno il nostro mercurio, che noi chiamiamo la nostra acqua mercuriale, perché esso la uccide e fissa, ed in ciò si chiarisce la vera interpretazione di ciò che dice Hamec: quando la nostra materia è arrivata al suo termine, essa è congiunta col suo veleno mortifero. E, nel contempo, si chiarisce anche ciò che dice Rosinus, ossia che questo veleno è di gran prezzo. Haly, Morieno e tutti gli altri hanno testimoniato al stessa cosa. E quanto a ciò che essi chiamano teriaca, è sempre una comparazione, perché, come dice lo stesso Morieno, ciò che la teriaca fa al corpo umano, la nostra teriaca lo fa al corpo dei metalli. Quanto ne hanno scritto si può adattare alla congiunzione del perfetto lievito, quando è fatta all’ora determinata, perché, per mezzo di essa, la nostra divina opera è perfezionata. Tali e simili autorità si devono dunque intendere secondo un senso allegorico e non secondo l’apparenza della lettera, come diversi hanno falsamente stimato.
Simile è l’interpretazione dell’ultimo termine, che è il più usato ed il peggio compreso. Perché la maggior parte lo intendono come sinonimo della nostra divina opera quando è perfetta, dicendo che, così come un po’ di caglio o coagulo, congela molto latte, così un poco della nostra materia gettata sull’argento vivo lo congela e riduce alla sua propria natura. Ma ciò significa allontanarsi grandemente dalla verità, poiché per questa via essi concludono che la nostra materia non può essere comparata ai metalli, poiché questi sono già congelati. Bisogna perciò intendere che, quando il nostro mercurio appare semplice, allora è labile, ed è chiamato dai filosofi latte, mentre il suo caglio o coagulo è ciò che noi abbiamo in precedenza chiamato lievito, veleno e teriaca. Perciò, così come il caglio non è in nulla differente dal latte se non per un po’ di cottura, così il nostro coagulo non è in nulla differente dal nostro mercurio che per la cottura che egli ha in precedenza acquisito, il che è il grande e sovrannaturale segreto che ha spinto i filosofi a definire divina la nostra scienza, perché di fronte ad essa ogni senso umano ed ogni ragione vengono meno, come abbiamo innanzi chiarito. Ed è questo il coagulo che Hermes chiama fiore d’oro, ed al quale i filosofi intendono alludere quando dicono che nella coagulazione dello spirito si compie la vera dissoluzione del corpo, e al contrario, nella dissoluzione del corpo è fatta la vera congelazione dello spirito. Perché, per suo mezzo, il tutto si perfeziona, come dice Senior: Quando ho visto che la nostra acqua (ovvero il nostro mercurio) si congelava da solo, ho creduto fermamente che la nostra scienza fosse autentica. Per questa medesima ragione, Alessandro ha scritto che non vi è nulla di creato nella nostra scienza che non sia composto da maschio e femmina, chiamando il nostro coagulo maschio, poiché è ciò che agisce, e tutti i filosofi hanno attribuito l’azione al maschio e la passione alla femmina, chiamando il nostro mercurio femmina, dal momento che su di esso il detto coagulo agisce e mostra la sua potenza. Ed è questa la ragione per cui i filosofi hanno scritto che la femmina ha delle ali, perché il nostro semplice mercurio è volatile, ed è trattenuto dal suo coagulo. Il che gli ha fatto scrivere che bisogna far montare la femmina sul maschio e, poi, il maschio sulla femmina; e lo stesso intendono quando, nella Turba dei filosofi, dicono che bisogna onorare il nostro re e la regina sua moglie e guardarsi bene dal bruciarli, ovvero dal rovinare la nostra cottura. Perché, come ha detto Arnaldo da Villanova nel suo Gran Rosario, l’errore principale nella nostra divina opera è la cottura repentina.
Tali e variabili termini hanno usato gli antichi nei loro libri, ma, poiché questi sono i principali, io metterei fine alla loro spiegazione, perché, una volta ben intesi questi, la vera materia è conosciuta e, in questo modo, tutti i libri ci sono chiari e resi facili, come dice il buon Trevisano.
Perciò io concluderò con tutti gli autori, i cui scritti ho collazionato al meglio che mi è stato possibile, che non vi è che una sola materia dalla quale è composta la nostra divina opera, e questa è composta dal solo semplice mercurio, che i filosofi hanno chiamato, in termini appropriati e senza alcun equivoco, acqua mercuriale e coagulata per azione del suo proprio zolfo, e che Hermes ha assai propriamente definito fiore d’oro; questa ha acquisito, attraverso la nostra lunga e continua decozione, una perfezione grandissima ed eccellente che gli permette di portare a compimento, una volta congiunta con essi per proiezione, tutti i corpi metallici imperfetti, convertendoli in oro fino quanto quello minerale. E ciò per diverse ragioni che abbiamo in precedenza dedotto, ed attraverso le quali è ormai abbastanza chiaro il perché i metalli imperfetti sono da tale materia perfezionati. Perché, allo stesso modo in cui non vi sono semplici differenti in tutto e contrari per qualità che possano essere mescolati perfettamente insieme, così anche la nostra divina opera può esser fatta solo dall’argento vivo animato, né può tollerare di essere mischiata con lo zolfo che è rimasto nei metalli per mancanza di digestione, come abbiamo già detto. Essa, tuttavia, essendo onnipotente e perfetta per la grandissima digestione, separa il detto zolfo dai metalli e perfeziona l’argento vivo che resta in fino oro. Che ciò sia vero, ce lo mostra l’esperienza, perché, quando ne facciamo proiezione su dell’argento vivo comune, lo troviamo pressoché tutto convertito in oro, cosa che non avviene, al contrario, per gli altri metalli, perché da un marco di alcuni di essi non ne recuperiamo nemmeno sei once. Ma, per le medesime ragioni, più i metalli sono cotti, meno diminuiscono.
Dunque, per continuare il mio piccolo Opuscolo, metterei fine alla seconda parte e comincerei la terza ed ultima, nella quale mostrerò la vera e perfetta pratica della nostra scienza sotto diverse allegorie; queste, il nostro buon Dio, se gli piacerà, manifesterà ai veri fedeli ed ai perfetti amanti della scienza che si affaticheranno nella lettura dei miei scritti, la cui vera intelligenza Egli chiarirà per mezzo del suo Spirito Santo, per usarne ad onore del nostro caro Signore, fratello e vero Redentore Gesù Cristo, al quale sia lode e gloria per tutti i secoli dei secoli. Così sia.
LA PRATICA MOSTRATA SOTTO ALLEGORIA
I filosofi e veri cosmografi hanno lasciato per iscritto che la terra che è oggi abitabile è divisa in tre parti principali, ossia in Asia, Africa ed Europa, che essi hanno detto collocate sotto quattro regioni: sotto l’oriente e l’occidente, sotto il mezzogiorno ed il settentrione (3). Queste regioni sono rette e governate da diversi imperatori, re, principi e grandi signori, ciascuno dei quali ha varie e differenti cose in gran conto, tanto per la rarità che per il valore e la singolarità che vi hanno trovato. Quest’ultima qualità non ha gran credito come la prima, come l’esperienza mi ha mostrato quando viaggiavo per diverse contrade; infatti, nei luoghi dove il numero di persone colte era assai grande, ho visto, con gran dispiacere, i sapienti poverissimi e grandemente reietti, e gli ignoranti ricchi e favoriti in ogni cosa. Ma, laddove la mancanza e la rarità di gente colta era grande, l’ignoranza regnava talmente che la maggior parte delle persone, pressoché tutti, non erano che gente ignara e maleducata; in questi luoghi i sapienti erano in gran buona opinione di tutti, e favoriti dai più grandi. Così, la mancanza di ricchezza delle miniere, che sono quelle da cui ci vengono l’oro e gli altri metalli, è causa del fatto che alcuni tra questi metalli siano stati, e saranno in futuro, in gran stima nella gran parte di queste regioni, così come l’abbondanza degli stessi in altre regioni, ha fatto si che gli stessi metalli siano stati e saranno in futuro disprezzati dai grandi signori; questi, magari, hanno alta stima di cose di poco o nessun valore, che non hanno nulla di perfetto se non l’apparenza, la quale gli ha sempre abbagliato gli occhi impedendogli di conoscere le cose grandi e perfette. Queste ultime d’altronde, adirate dal loro modo di fare, si ritirano (come volentieri fanno i sapienti quando vedono che gli ignoranti gli sono preferiti), decise a mostrare il proprio sapere e la propria potenza (4).
Queste regioni (come oggi giorno parte del mondo) erano governate da uno che le sottomise e rinforzò a tal punto, con una tale diligenza, che si credé che prima che volesse smettere, il resto del modo gli si sarebbe assoggettato grazie all’aiuto delle sue compagnie, e, principalmente, per il consiglio del suo fedele provveditore. Ma mentre era così impegnato, egli si accompagnava con diversi e sleali stranieri, i quali, desiderando ed attendendosi di essere ben ricevuti e meglio ricompensati dagli imperatori, re ed altri grandi principi [al modo delle spie (5) di oggigiorno], si recarono presso costoro per rivelare ciò che avevano potuto apprendere dell’impresa di questo buon governatore. Ma di tali notizie, i re non tennero alcun conto, credendo che, per quanto l’impresa del detto governatore potesse essere temibile, non vi fosse potenza terrena che potesse resistere alla loro.
Dunque, mentre nelle loro corti e grandi palazzi non si parlava che di ridere, cantare, amoreggiare, frequentare ordinariamente i festini, dedicarsi a smancerie, correre ai cavalli, organizzare tornei per combattere coi colori in favore di dame, giocare a pallacorda, partecipare alle assemblee, apprezzare i ruffiani, chiacchieroni e vecchi delatori, prendersi gioco della gente di cultura chiamandola per celia filosofi (che è un titolo appropriato, di questi tempi, a ben poca gente, ma pur tale che i grandi monarchi anticamente non l’hanno affatto disdegnato, così come farebbero anche quelli di oggi, se fossero ben consigliati); allora, dicevo, questo buon principe tutto canuto, accompagnato dalle sue buone compagnie e dal fedele provveditore, fece perlustrare il terreno ed aveva già assediato una delle principali città dell’Impero, quando l’imperatore fece riunire il suo campo, accompagnato da diversi re e grandi signori, i quali, tutti insieme, lo andarono ad incontrare. In tal modo essi gli fecero abbandonare l’assedio non appena che furono arrivati, e ciò non senza causa, perché il fedele provveditore lo faceva sempre adirare volendolo far ritirare in qualche fortezza che fosse degna di lui, in cui non facesse un così gran caldo. E poi, oltre al soccorso che gli abitanti della città portavano al nemico (facendo quotidianamente delle grandi e coraggiose sortite contro le compagnie del buon principe), l’imperatore poteva contare su cinquantamila fanti e seimila cavalieri, a quel che si diceva, senza contare la forza di nobili e gran signori che seguivano la sua cornetta, rinforzati da un gran numero di artiglierie che nel tiro facevano meraviglie.
Perciò questo buon principe, dopo aver riunito tutte le sue compagnie, che si accordarono al buon consiglio del suo fedele provveditore, tolse l’assedio dalla città (che era peraltro difesa da un forte in parte di ferro), ritirandosi al meglio che poté e col miglior ordine che gli fosse possibile, poiché si sentiva ancora debole. Ciò fu causa che egli lasciasse indietro, alla coda, per consiglio del detto provveditore, le compagnie più valenti che aveva per sostenere sempre le scaramucce con l’esercito dell’imperatore che li seguiva dappresso, e per sorvegliare e difendere in questo modo la sua retroguardia che era debole, non fosse che per un ruscello che gli era favorevole. Queste compagnie, benché avessero un bel daffare, fecero così bene il loro dovere che non vi fu nessuno degli altri ad essere ucciso. Ve ne fu anche qualcuno abbattuto che fu risollevato dalla prodezza e valentia degli altri.
Ma la matassa non si sbroglia così, perché l’indomani l’imperatore seguì dappresso questo buon principe con tutto il suo campo, e quest’ultimo fu costretto (seguendo in ciò il consiglio del suo fedele provveditore) a rifugiarsi in un forte che era sempre stato stimato imprendibile, perché era tutto rotondo e fondato su un cerchio circondato da muraglie, in cui poteva ricevere tutti i viveri e le munizioni che voleva da una contigua torre fortificata, ben provvista di tutto ciò di cui aveva bisogno, grazie ad un solo uomo, ovvero il detto provveditore (6), senza che nessuno se ne accorgesse; non diversamente da quanto il sultano Solimano e le sue genti ordinariamente facevano a Napoli della Romania, passando sotto una roccia, quando tennero la città assediata per venti anni o più.
Ora questo buon principe alloggiò tutte le sue compagnie nei pressi di questa torre, dimorando all’interno del corpo del castello in una piccola e bella camera ben circondata e guarnita di tutte le cose richieste alla comodità di una camera degna di un sì grande signore. E, tra le altre cose, essa fu arricchita di un bel gabinetto, eccellentissimo, simile in parte a quelli che si vedono nel ducato di Lorena, dal quale egli non si mosse fin tanto che rimase nel detto castello, fino alla fine dell’assedio, a causa del grande e singolare piacere di cui godeva nel guardare da quattro finestre, senza muoversi di lì, e vedere il contegno dei suoi nemici; costoro non potevano nuocergli in nulla, poiché la sua porta principale era così ben chiusa che non vi era nessuno che la sapesse o la potesse aprire, eccetto forse il suo principale e fedele provveditore, il quale diede ordini tali che mai di nulla ebbero bisogno durante un anno in cui l’imperatore lo tenne d’assedio (7). Quest’ultimo dapprincipio gli portò diversi assalti, con l’aiuto ed il favore dei grandi signori che egli aveva con sé. Ciò costrinse il buon principe (che già era stato tanto rudemente assalito) a dividere tutte le sue compagnie sotto cinque insegne colonnelle (8), affinché ciascuna facesse la guardia per ranghi e sostenesse gli assalti che si presentavano nei rispettivi quartieri. Ed allo scopo di resistere alla forza ed ai fastidi che l’imperatore gli arrecava ordinariamente, si faceva consigliare da coloro che gli erano vicini, i quali gli dicevano: “se noi lo lasciamo così, egli avrà giusta occasione di burlarsi di noi, proprio lui che altre volte è stato in nostro potere, visto che dice di essersi ritirato a causa del cattivo trattamento ricevuto. Il che, una volta usciti di qui, gli offrirebbe giusto pretesto di vendetta su noi e sui nostri”.
Tali e simili parole furono causa che l’imperatore deliberasse di prenderlo per fame e, ciò nonostante, di irritarlo continuamente con diversi assalti. Tuttavia, poiché si avvicinava l’inverno, egli si ritirò con una parte dell’armata, lasciando il resto innanzi al castello sotto il comando di un gran signore che lo aveva seguito in questa spedizione. Costui non oziava punto, di modo che non passava giorno senza che venisse all’attacco fino al combattimento corpo a corpo. Di sortite, coloro che erano dentro, non ne facevano affatto perché il principe lo aveva vietato. Questi, era stato avvertito dal suo fedele provveditore dell’ordine che l’imperatore aveva lasciato alla sua partenza (9), di non togliere l’assedio prima che fosse passato un anno intero, o fino a che lui non si fosse arreso. Egli ordinò, tanto per la conservazione della sua persona che per l’avanzamento del suo regno, che ciascuna delle insegne colonnelle gli portasse, durante il suo turno, un’insegna conquistata negli assalti sui suoi nemici, in caso contrario esse avrebbero conosciuto la sua mala grazia. Se tuttavia avessero, con diligenza ed ardimento, adempiuto ai suoi comandi, gli assicurò che lui stesso, aiutato dal suo fedele provveditore, avrebbe guadagnato l’insegna colonnella dei nemici, ci avesse anche dovuto impiegare tutta la vita, e avrebbe condiviso con loro il bottino; che esse portassero la loro appropriata e naturale insegna e sarebbero divenute più ricche di tutti coloro che le avevano assediate (10).
Se questa ordinanza fosse gradita a queste buone compagnie, che non desideravano altro che vedere il loro principe grande per poter prosperare, l’esperienza che seguì ne ha resa certa testimonianza. Perché, prima che il termine giungesse, gli portarono le insegne che egli aveva domandato, grazie al buon ordine dato dal suo fedele provveditore per la duplicazione del cerchio che un gran principe di Francia (ammirevole per il suo sapere) gli aveva insegnato.
Ora la prima insegna era dei pistolieri tedeschi. La seconda era disseminata di diversi colori dell’amica, che l’amante aveva portato all’assalto. La terza rassomigliava grandemente alla cornetta del re François [D]. La quarta era la stessa arricchita da un grande e bel crescente. La quinta era assai simile all’insegna colonnella dell’imperatore, ed animava talmente il cuore di questo buon principe che lui stesso all’indomani se ne andò sulla breccia, dove rimase a lungo, sempre vicino al suo fedele provveditore, così attento ai suoi affari. Lì patì una pena indicibile ed anche un gran caldo, che lo irritò molto. Ma alla fine egli mantenne la promessa fatta alle sue compagnie e conquistò l’insegna colonnella dell’imperatore (11).
Perciò, dopo essere stato ben pulito e rinfrescato dal suo provveditore, che lo festeggiò grandemente con le sue migliori vivande, che aveva conservato fin dall’inizio dell’assedio, mise in moto tutto il campo per la sortita che fece all’indomani, accompagnato dal suo buono e leale provveditore e dalle sue brave compagnie, che tutte portavano ed avevano in loro potere il colore naturale e proprio del loro buon condottiero (12). In tal modo non c’è né ci sarà in avvenire papa, imperatore, re sultano o gran signore che non venga a rendere omaggio a lui ed ai suoi. Gliene rendono ancora e gliene renderanno fino a quando rimarranno in questo basso mondo, per ordine dell’alto e sovrano Iddio, che distribuisce i suoi grandi ed ammirevoli beni a coloro che lo temono ed onorano, rispettando i santi comandamenti che il suo caro figlio e nostro solo Redentore Gesù Cristo ci ha spiegato nel suo santo Vangelo. A lui sia lode e gloria per tutti i secoli dei secoli. Così sia.
IL MODO DI AIUTARSI COL NOSTRO GRAN RE PER LA PROIEZIONE, PER FARE LE PERLE E PER LA SANITÀ.
Affinché il nostro opuscolo non rimanga imperfetto, mi resta da spiegare, per mettere fine alla terza ed ultima parte, il modo con cui fare la proiezione del nostro grande re sulle sue compagnie, insieme a come se ne possa usare per le pietre preziose, chiarendo infine qual profitto ne riporta la salute dei corpi umani.
PER FARE LA PROIEZIONE SUI METALLI.
Per ben convertire tutti i metalli imperfetti alla natura del nostro grande re, bisogna prendere un’oncia di questo, dopo che sia stato moltiplicato e rinfrescato, e gettarla su quattro once di oro fino fuso; troverete tutta la nostra materia frangibile, la polverizzerete e farete cuocere per tre giorni in un vaso appropriato e ben serrato all’interno della montagna chiusa, col calore dell’ultimo assalto. Di questa polvere ne getterete un’oncia su venticinque marchi d’argento o di rame, o su diciotto marchi di piombo o di stagno, oppure su quindici marchi d’argento vivo comune riscaldato in un crogiolo o congelato col piombo. Ma bisogna che, anzitutto, essi siano ben fusi e riscaldati, e vedrete, subito dopo, la vostra materia ricoperta di una schiuma molto densa. Poi, quando avrà compiuto la sua operazione, vi sembrerà che il crogiolo stia per esplodere. Allora farete fondere nuovamente la nostra materia e la troverete mutata in oro fino.
Ma, se per ventura non avete osservato i suddetti pesi, troverete le vostre materie in nulla cambiate dal loro primo colore. Perciò bisognerà poi passarle per una grande coppella senza mettervi del piombo, e, tre ore dopo, la coppella avrà consumato tutto ciò che non era stato perfezionato a causa del non avervi messo abbastanza della nostra divina opera, ed il resto rimarrà al di sopra del tutto pulito; lo passerete per il cemento regale per lo spazio di sei ore, e troverete tutto l’oro che sarà stato convertito con l’aiuto del nostro grande re, fino ad un grado pari a quello dell’oro minerale. Ed è questo il procedimento che Raimondo ha insegnato nel suo Codicillo, ed egli stesso insegna il secondo che segue nel suo Testamento.
IL MODO DI USARE LA NOSTRA OPERA DIVINA PER LE PERLE E I RUBINI.
Per fare le perle rotonde e della grandezza che si vorrà, bisogna pulire e rinfrescare il nostro grande re, subito dopo che le sue buone compagnie gli abbiano riportato quella bella insegna bianca seminata da quel gran crescente, senza attendere la fine dell’assedio. E quando sarà stato rinfrescato una volta sola, ne prenderete due o tre once (perché è il mercurio che Raimondo Lullo chiama esuberato) che metterete su delle ceneri dentro un alambicco adatto e ben serrato per distillarle, in principio, ad un fuoco piccolo e lento. E quando con tale fuoco non ne distillerà più, cambierete recipiente, e, dopo averlo ben lutato, gli darete un fuoco buono e forte, fino a quando non distilli più. Poi prenderete questo secondo liquore e lo metterete in un nuovo alambicco per distillarlo bene in un bagnomaria per tre volte, una dopo l’altra, rimettendo ogni volta ciò che avrete distillato sulle fecce, che saranno viscose e si scioglieranno ciascuna volta con la detta acqua in poco tempo. Ma la terza volta farete distillare tutto per ceneri. Poi prenderete ciò che sarà distillato e lo metterete in un nuovo alambicco per distillare accuratamente per bagno per quattro volte, mettendo sempre da parte le fecce, fino a quando la vostra acqua distillata non sarà chiarissima e lucente in bianchezza, come perle orientali; ne userete come di seguito.
Mettete delle perle che siano ben chiare, ma tanto minute quanto vorrete, nel fondo di una piccola cucurbita, e metteteci sopra della vostra acqua per lo spessore di un dorso di coltello; copritela accuratamente col suo cappello e, nelle tre ore successive, le perle si fonderanno in pasta bianca, ma al di sopra verrà un liquore chiaro che vuoterete dolcemente per inclinazione, senza agitare nulla, senza omettere di mettere la detta pasta [E] nell’altro alambicco il quale, ben lutato e coperto, metterete nel bagnomaria (come se voleste sublimare) per tre giorni, e poi lo toglierete. Fatto ciò prendete uno stampo d’argento tutto cavo e rotondo, diviso nel mezzo e dorato all’interno, della rotondità e della grandezza di cui volete le vostre perle, facendovi un buchetto nel mezzo, in modo che un piccolo filo d’oro, come un pelo, vi possa passare, e riempirete della detta pasta, per mezzo di una spatola d’oro, prima una metà dello stampo, poi subito dopo l’altra; metterete poi il detto filo nel mezzo, a metà del buco, e chiuderete bene lo stampo, passando e ripassandone il filo attraverso il buco, affinché le perle siano ben forate. Poi aprirete lo stampo e metterete la vostra perla su di una placca d’oro, coprendola con un coperchio d’oro, senza toccarla con le mani, e la farete seccare all’ombra, senza che il sole la tocchi. Quando avrete in questo modo fatte tutte le vostre perle, ed esse saranno ben secche, le infilerete nel detto filo d’oro senza toccarle con le mani e metterete il filo in un tubo di vetro fatto come una canna, che abbia un piccolo buco da un lato e l’altro completamente aperto; appendete poi, il tubo in un matraccio dove ci sarà il liquore sublimato, senza che esso lo tocchi. Poi lutate attentamente il tutto affinché nulla ne esali, ed esponetelo all’aria per otto giorni, sempre senza che il sole lo tocchi; mettetelo poi al sole per tre giorni, rimestando il vostro matraccio regolarmente di tre ore in tre ore, e, grazie al vapore del detto liquido, le perle saranno perfette.
Allo stesso modo potrete fare rubini della forma e grandezza che vorrete, procedendo con lo stesso metodo col mercurio rosso, dopo averlo pulito e rinfrescato una volta solamente.
MODO DI USARE LA NOSTRA DIVINA OPERA PER I CORPI UMANI, PER GUARIRLI DALLE MALATTIE E CONSERVARLI IN SALUTE.
Per far uso del nostro grande re per recuperare la sanità, bisogna prenderne un grano pesante dopo la sua uscita e farlo sciogliere in un vaso d’argento con del buon vino bianco, il quale si convertirà in colore citrino. Poi, fatene bere al malato un po’ dopo la mezzanotte, e sarà guarito in un giorno se la malattia non è che di un mese. E se la malattia è di un anno, sarà guarito in dodici giorni; se invece lo affligge da lungo tempo, sarà guarito in un mese, usandone nel modo descritto ogni notte. E per rimanere sempre in buona salute, bisognerebbe prenderne all’inizio dell’autunno ed all’inizio della primavera, sotto forma di elettuario confettato. Con questo mezzo, l’uomo vivrà sempre gioioso ed in perfetta salute fino alla fine dei giorni che Dio gli avrà decretato, come hanno scritto i filosofi. Questi hanno attribuito tali ammirevoli operazioni alla nostra opera divina, per la grande ed esuberante perfezione che il nostro buon Dio le ha dato per mezzo della nostra cottura, acciò che, per questo mezzo, le povere e vere membra del nostro Signore Gesù Cristo e vero Redentore, ne siano sollevate e nutrite. A lui si lode e gloria con il Padre e lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.
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Note della Bibliothèque des Philosophes Chimiques:
(2) Barba, direttore generale delle miniere del Perù sotto Carlo Quinto, riporta in un trattato che ha composto sulla maniera di lavorare le miniere, che, avendone fatta esaurire una d’argento, egli la fece riempire dei suoi detriti e, venti anni dopo, ripassando per lo stesso posto, egli riconobbe che la miniera era pressoché tanto abbondante d’argento di quando egli l’aveva fatta aprire per la prima volta, cosicché egli la fece rilavorare nuovamente con gran profitto. Il che dimostra che i detriti di questa miniera erano carichi di parti mercuriali e solforose che la natura aveva poi finito di condurre alla perfezione dell’argento.
(3) L’America essendo stata scoperta nel 1492 da Amerigo Vespucci, e la conquista essendone cominciata dal 1497 da Cristoforo Colombo, è stupefacente che Zachaire, che ha scritto verso la metà del sedicesimo secolo, riporti qui che la terra non è divisa che in tre parti, Asia, Africa ed Europa.
(4) Questo discorso sembra vertere sul disprezzo che i grandi della corte del re di Navarra avevano mostrato per la scienza di Zachaire, che, quando andò a Pau, non era ancora adepto. Esso verte forse anche sulle importune sollecitazioni che i suoi parenti ed amici, poco versati nella filosofia ermetica, gli fecero per impegnarlo a lasciare i suoi lavori chimici ed a provvedersi di una carica di magistratura.
(5) Con le spie che vanno ad avvertire i re, i principi e gli altri grandi signori, del progetto che il buon governatore concepisce di soggiogarli, col consiglio del suo provveditore, Zachaire intende, io credo, parlare dei sofisti: questi, attraverso le loro promesse di procurare tutto l’oro e l’argento che si possano desiderare, fatte non a potenze effettive, come in questo racconto, ma a persone ricche ed avare, le coinvolgono, con questa vana speranza, in imprese al di sopra delle loro forze, nelle quali non mancano di soccombere. Il che giustificherà la condotta del nostro imperatore del racconto, che non è, con tutti i principi e gran signori suoi alleati, che l’emblema degli zolfi arsenicali e delle materie eterogenee che impediscono ai principi materiali del mercurio filosofico di congiungersi radicalmente, poiché la loro congiunzione non può farsi che attraverso le colombe di Diana; ed è questa la congiunzione, tanto difficile a farsi, che i filosofi chiamano lavoro d’Ercole.
(6) Il Provveditore è l’artista. Il governatore è lo zolfo solare congiunto con il mercurio filosofico. Il forte imprendibile circondato di muraglie è il matraccio di vetro nel quale l’artista tiene la sua materia, dopo averla preparata nella prima opera. La torre dalla quale si ricevono i viveri e le munizioni è l’athanor, nel quale l’artista getta del carbone per mantenere un calore continuo che è come il nutrimento dell’elixir durante la seconda operazione.
(7) Il gabinetto nel quale il buon governatore rimane fino alla fine dell’assedio, è il matraccio di vetro o uovo filosofico del quale abbiamo appena parlato. Zachaire meglio di qualunque altro filosofo, ne presenta all’immaginazione del suo lettore un’immagine assai esatta.
(8) Le cinque insegne colonnelle sono i cinque metalli imperfetti che sostengono gli interessi del composto filosofico mentre passa per i regimi di un fuoco graduale, nella speranza che, dopo che l’artista lo avrà elevato al grado di maggior perfezione e sarà così divenuto un oro atto a comunicare una tintura aurifica, esso li farà parte della sua nuova perfezione e li convertirà nella sua stessa natura d’oro.
(9) Zachaire annota qui il tempo che ha impiegato a fare la pietra dei filosofi, ma è da supporre, come pensano i sapienti, che egli avesse già il suo mercurio preparato; ciò sembra tanto più verosimile dal momento che la guerra che l’imperatore fa al buon governatore designa il tempo che egli ha impiegato per la prima operazione, e che il tempo della seconda operazione è indicato dall’anno di durata dell’assedio del forte, vale a dire il tempo che l’artista deve impiegare a far passare per i regimi il suo composto filosofico ed esaltarlo fino al rosso perfetto.
(10) Con le insegne dei nemici che il buon governatore pretende che le sue insegne conquistino durante il loro rispettivo turno, sotto pena della sua malevolenza, noi dobbiamo intendere i colori con i quali il composto filosofico passa sotto il regime di ciascun pianeta, come il nero sotto il regime di Mercurio e di Saturno, il grigio sotto il regime di Giove, il bianco sotto il regime della luna, il verde sotto il regime di Venere ed il citrino sotto il regime di Marte. Da parte sua, egli promette di conquistare le insegne colonnelle dei suoi nemici con l’aiuto del suo fedele provveditore; vale a dire che, passando dal regime di Marte a quello del sole, si ottiene, mediante il lavoro dell’artista, la vittoria su ciò che gli impediva di ottenere, col soccorso dell’arte, una tintura esuberante per comunicare la perfezione dell’oro ai metalli imperfetti, separando dal loro principio mercuriale gli zolfi combustibili e le superfluità impure che hanno impedito alla natura di farne metalli perfetti.
(11) Tutti i regimi di cui abbiamo parlato sono qui annotati, principalmente il regime del sole, indicato col calore eccessivo patito dal buon governatore. L’artista, durante questo ultimo regime, spinge il fuoco al suo quarto grado, con la precauzione, nondimeno, di non spingerlo fino al punto da far rompere il matraccio nel quale il composto è giunto al rosso.
(12) Col rinfresco portato dal provveditore, bisogna intendere le imbibizioni che fa l’artista quando ha ritirato dal matraccio la pietra perfetta al rosso. E le prime vivande che ha conservato e che regala al buon governatore, sono il mercurio filosofico che lo stesso artista ha conservato per fare queste imbibizioni. Dopo di che, fermentando la sua pietra con l’oro purificato, ed in seguito moltiplicandola, egli ne fa una polvere che proietta sui metalli imperfetti, per convertirli in oro mediante l’attrazione del loro mercurio aurifico, come abbiamo appena spiegato nella penultima nota di questa parabola.
Note del traduttore:
[D] La recente edizione della Bibliothèque curata dalle edizioni Beya (cfr. Bibliothèque des philosophes chimiques, Beya-Dervy, Paris 2003, tome I, p.583) qui contiene un errore, poiché invece di François riporta un français che non è nel testo originale. Per una curiosa coincidenza lo stesso errore il lettore potrà riscontrarlo nella prima traduzione italiana del testo di Zachaire curata da Sabina e Rosario Piccolini, ed inclusa nella raccolta Lo specchio dell’Alchimia (Mimesis, Milano 1996, poi inclusa nel secondo volume della raccolta in quattro volumi Il filo di Arianna, sempre edita per i tipi della Mimesis) che traducono “Roi François” con re francese.
Il riferimento del testo è qui ovviamente a re François Ier (1494-1547).
Cornette era invece chiamato lo stendardo dei reparti di cavalleria (Cornette blanche era chiamato per esempio il primo reparto di cavalleria, il cui capitano era anche il luogotenente della cavalleria reale) e, per estensione, l’ufficiale incaricato di portarlo. Cornette, altresì, veniva chiamata anche la stola di seta onorifica che proprio François Ier concesse di portare ai professori del College Royal di Parigi.
[E] “… sans rien troubler, ni sans mettre la dite pâte dans l’autre alambic lequel, étant bien couvert et luté…”. L’edizione di Sabino e Rosaria Piccolini preferisce un’altra traduzione, di senso contrario, e cioè, ignorando il ni: «senza agitare nulla né mettere della suddetta pasta nell’altro alambicco».