Auguste Bouché-Leclercq in età matura
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Traduzione di Massimo Marra ©, tutti i diritti riservati, riproduzione vietata con qualsiasi mezzo e per qualsiasi fine.
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II
Non bisogna tuttavia credere che l’astrologia non si sia urtata che con resistenze ispirate all’interesse della società o che, sia come scienza che come religione, abbia pacificamente invaso le intelligenze colte, nel cui seno ella trova il suo terreno d’elezione, senza incontrare alcun avversario. L’assenza di contraddizione presuppone l’indifferenza, e le dottrine di cui non si discute muoiono della loro bella morte.
L’astrologia greca, perfezionata a provvista di dogmi razionali grazie alla collaborazione degli Stoici, non aveva potuto esser considerata dai filosofi delle altre scuole come una semplice superstizione. Ella era stata introdotta, dalle sue origini, nei cenacoli scientifici, in una posizione che non dovette mai conquistare, ma solo conservare. Ebbe fiera opposizione dai dialettici della nuova accademia, più tardi dagli scettici, neo-pirroniani ed epicurei, dai fisici che la respinsero come pleonasmo ciarlatanesco figlio dell’astronomia, dai moralisti che giudicarono pernicioso il suo fatalismo, infine dai teologi che la trovarono incompatibile con i loro dogmi.
Da Carneade fino ai padri della Chiesa, la lotta contro l’astrologia non è cessata un istante, ma fu sempre, per così dire, una lotta senza vincitori, perché già i primi assalti avevano messo in luce pressoché tutti gli argomenti che, in seguito, si ripeteranno senza mai rinnovarsi. Non è nostra intenzione, in questa sede, il seguire passo a passo, epoca per epoca, la strategia dei combattenti e la filiazione delle argomentazioni. Ci sarà sufficiente classificare questi ultimi in un qualsivoglia ordine, e di esaminarne il valore logico. Vedremo probabilmente che bisogna saper distinguere a prima vista le parti principali di una costruzione assai complessa, parti che sono, nel medesimo tempo, le più rovinose. Gli avversari dell’astrologia, difatti, non hanno fatto altro che suggerire agli astrologi dei perfezionamenti ai loro metodi e, per aver continuato ad impiegare degli argomenti che non portavano a nulla, hanno fatto sempre più la figura degli ignoranti.
Lasciamo provvisoriamente da parte la preoccupazione principale che ha dominato e perpetuato il dibattito, ovvero il bisogno di sganciare la liberà umana dal determinismo astrologico. L’astrologia greca non è né più né meno fatalista della filosofia stoica da cui eredita l’impianto teorico, e dal punto di vista morale ella può ripararsi dietro l’autorità di moralisti di alta reputazione.
Sono gli Stoici che hanno messo, per così dire, al sicuro il principio stesso, la ragione prima ed ultima della fede astrologica, attraverso i loro dogmi. La solidarietà di tutte le parti dell’universo, la similitudine tra la frazione e il tutto, la parentela dell’uomo col mondo, del fuoco intelligente che l’anima con gli astri da cui è discesa per lui la scintilla della vita, le affinità del corpo umano con gli elementi nei quali l’essere umano è immerso e che subiscono l’influenza dei grandi regolatori celesti, ed infine la teoria del microcosmo, che forniva una riserva inesauribile di risposte agli attacchi esitanti. Ma, tra il principio e le conseguenze ultime, vi era ben posto per delle obiezioni. L’astrologia caldea si era sviluppata su di una base di idee semplici: ella datava dal tempo in cui il cielo non era che il coperchio della terra, quando tutti gli astri erano posti a poca distanza su questa volta, ed in cui i pianeti si muovevano tra le stelle come pastori che attendevano al loro gregge. La scienza greca aveva dilatato il mondo, l’influenza degli astri, respinti ad enormi distanze, non era più un postulato del senso comune. I pianeti sono troppo lontani, diceva Cicerone, almeno i pianeti superiori, e le stelle fisse sono ancora oltre. Gli astrologi rispondevano che la Luna e il Sole anche sono lontani, e ciò nonostante essi solevano le maree. Senza dubbio i Caldei non immaginavano un mondo così grande; ma i pianeti, che essi credevano più piccoli, erano ora riconosciuti come infinitamente più grandi, e vi era dunque compensazione. Era sufficiente, per mantenere il dogma astrologico, identificare l’azione siderale alla luce: laddove arriva la luce penetra anche l’azione.
C’era, in questa risposta vittoriosa, un punto vulnerabile, che gli assalitori non hanno saputo scoprire. Se la luce di un astro irraggia tutto intorno a lui, perché la sua azione astrologica non si produce che sotto certi angoli e certi aspetti? Gli astrologi non sarebbero stati a corto di risposte, ma gli sarebbe stato necessario attingerle ad un ordine mistico. Così come vi sono sette pianeti, così, in virtù dell’armonia generale, ciascun pianeta agisce in sette sensi o aspetti, e non di più. Senza dubbio, i logici puri, non sarebbero stati convinti da un’argomentazione di questo tipo; ma per costoro gli astrologi avevano i pitagorici e tutti gli amatori delle ragioni occulte. È forse certo che non vi siano più di sette pianeti? E, se ve ne sono di più, i calcoli degli astrologi, che non ne tengono conto, non sono forse per questa ragione falsi? Gli astrologi potevano o scartare l’ipotesi o rispondere che l’azione di questi pianeti era trascurabile in quanto essi restavano invisibili, e che la loro azione veniva accuratamente considerata quando essi appariva sotto forma di comete. Senza dubbio, sarebbe stato preferibile far entrare nei calcoli le posizioni di tutti gli astri, invece di limitarsi ai pianeti ed ai segni dello zodiaco. Ma di quale scienza di esige che raggiunga il suo ideale? Gli astronomi moderni non possono più escludere dalle loro formule la rete infinita di attrazioni che suppone la teoria della gravitazione universale.
La discussione, probabilmente, procedeva, ma lasciava in piedi l’idea fondante che gli astri agiscono sulla terra, ed anche l’idea più precisa che gli astrologi, se anche non calcolavano tutte le influenze celesti, prendevano almeno in considerazione le principali. Ma qui sorge un punto delicato, una domanda temibile da cui gli avversari dell’astrologia trassero un vantaggio abbastanza mediocre. Come si pretendeva di determinare la natura delle influenze astrali? Come si sapeva che alcuni pianeti erano propizi, altri avversi, e ciò in misura maggiore o minore, a seconda dei casi? come giustificare le ridicole associazioni d’idee correlate alla forma puramente immaginaria delle figure dello Zodiaco, l’influenza immaginaria dei pianeti sui segni e dei segni sui pianeti, allorché questi ultimi – lo si sapeva da lungo tempo – sono a grande distanza dalle costellazioni e non sembrano affiancate a queste che per un banale effetto di prospettiva? Gli astrologi avevano la scelta tra diversi generi di risposta.
Agli spiriti positivi, essi affermavano che le teorie sospette si fondavano sull’esperienza, su di una serie di osservazioni prolungate nel corso dei secoli o anche per interi periodi ciclici della vita cosmica. Si aveva un bel ridurre le datazioni favolose invocate dai Caldei, ne restavano sempre abbastanza da costituire una rispettabile tradizione. Cicerone lo sente tanto bene da nascondere dietro Panezio il suo attacco: «Quando si dice – scrive – che i babilonesi hanno impiagato quattrocentosettantamila anni a provare le loro esperienze sui bambini che nascevano, ciò è una frode: perché se avessero preso l’abitudine di farlo, non avrebbero più cessato; ora, noi non abbiamo alcun garante che dica che ciò si fa, o anche solo sappia che ciò si sia mai fatto.». L’argomentazione è abbastanza debole: non è necessario che un’usanza si continui perché sia confermato che essa fosse effettivamente praticata nell’antichità. E, quanto al passato, gli astrologi non si facevano pregare nel sostenere che i documenti caldei esistevano, e che non è sufficiente l’ignorare una tradizione per sopprimerla.
Le cose erano ancor più facili con i mistici, che traevano dalla rivelazione divina tutto ciò che gli uomini non avevano potuto inventare da soli. C’erano a questo riguardo tradizioni di ogni tipo, tanto più confuse in quanto non esisteva alcuna distinzione tra astronomia ed astrologia. Un’idea cara ai greci era che la previsione dell’avvenire, avendo per fine ultimo – confessato o meno – il cambiamento del destino, era stata insegnata agli uomini da dèi detronizzati e insorti: da Atlas, figlio di Urano o dal titano Giapeto, padre delle Pleiadi e delle Hyadi, o da Prometeo, creatore ed educatore della specie umana, o ancora dal centauro Chirone, catasterizzato nel Sagittario dello zodiaco, a meno che, prestando fede agli orfici, non si sostituisse a questi rivelatori Orfeo, o le Muse o Eumolpo. Il brevetto di invenzione dell’astrologia era all’asta, ed era aggiudicato dai mitografi.
Ma i diritti della Caldea e dell’Egitto non si lasciavano dimenticare facilmente. I neo-egizi invocavano le rivelazioni del loro Hermes (Thot) o del loro Asclepio (Eschmoun) dai quali erano stati istruiti Nechepso e Petosiris. I Caldei avevano dalla loro, a dire degli evemeristi, una Ishtar o una Venere che avrebbe insegnato l’astrologia ad Hermes, che diveniva così punto d’unione tra Caldea, Egitto e mondo greco-romano.
Tutte queste leggende, rimpastate e mescolate da aggiotatori che si sovrapponevano gli uni agli altri, si prestavano ad ogni tipo di fantasia.
La palma che si disputavano Egiziani e Caldei poteva essere loro rapita dagli etiopi, sotto il pretesto che Atlante era un libico, o figlio di Libya. Facendo di Eracle-Melqart un discepolo di Atlante, ci si procurava una specie di commesso viaggiatore dell’astrologia, che impiantava la dottrina ovunque piacesse ai mitografi di collocarne le gesta. Attraverso i suoi collegamenti fenici, la leggenda di Ercole rientrava a volontà nel circolo d’attrazione della Caldea. Gli stessi ebrei – quelli d’Alessandria probabilmente – confermarono le pretese caldee, attribuendosi, a detrimento di Egizi, Fenici e Carinzi, il ruolo di propagatori della scienza dei corpi celesti. Secondo loro Abramo aveva importato questa scienza dalla Caldea, sua patria, in Egitto, ed i Fenici, istruiti dagli Ebrei, l’avevano a loro volta importata con Cadmo in Beozia, dove Esiodo ne aveva raccolto qualche fondamento. In una parola tutti gli dèi, eroi, re ed antenati dei popoli avevano contribuito, per maggior gloria di astrologia e astronomia, alla nascita e diffusione della dottrina, quasi sempre confusi gli uni con gli altri e prestandosi mutuo appoggio e collaborazione.
Ogni tipo di fede genera da sé le prove che le occorrono, e non esita, nell’interesse della buona causa, a conferirgli l’aria di antichità che si conviene. A conferma di tutte queste belle invenzioni, i fabbricanti di apocrifi scrivevano dei trattati di scienze astrali sotto il nome di Orfeo, di Ermete Trismegisto, dei più antichi patriarchi o filosofi. I partigiani della rivelazione e della tradizione ininterrotta, così trincerati dietro l’autorità di tali antenati, non avevano più nulla da temere dai rari scettici che l’esempio del grande astronomo Claudio Tolomeo non aveva convertito. Era una specie di consenso unanime, di volta in volta basato sulla fede o sull’esperienza, che aveva definito la natura, qualità e quantità degli influssi siderali. Le associazioni di idee più inette si trovarono in tal modo ad essere giustificate. Più, anzi, esse erano bizzarre, più diveniva evidente, per taluni, che esse dovevano essere state conosciute per rivelazione.
Una vota ammessi i principi generali dell’astrologia, le obiezioni non servono più che a suggerire agli astrologi dei perfezionamenti dei loro procedimenti. Cicerone assicura che gli astrologi non tengono conto dei luoghi ma solo dei tempi, e che, per essi, tutti quelli che nascono nel medesimo tempo, non importa in qual paese, hanno il medesimo destino. Favorino e Sesto Empirico dicono lo stesso. È probabile che Cicerone non fosse al corrente dei progressi dell’astrologia della sua epoca, e coloro che ripetono la sua obiezione sono sicuramente in errore. Si conosce sufficientemente il ruolo che avevano, nel poema di Manilio ed in tutti i trattati posteriori all’era cristiana, la questione dei “climi” e delle ascensioni oblique (άναφοραί) varianti a seconda dei climi, per dire che gli astrologi avevano messo a frutto la critica e non la meritavano ormai più. Non è, d’altronde, nemmeno sicuro che una tale critica fosse giusta indirizzata agli antichi Caldei della Caldea. Questi ultimi, non avrebbero potuto avere idea dei climi; ma, d’altro canto, essi credevano che l’influenza di un astro non era ovunque uguale nello stesso momento. Sulle loro tavolette essi scrivevano: «Se la Luna è visibile il 30, buon auspicio per il paese d’Accadia, cattivo per la Siria». Ma il progresso delle conoscenze geografiche e storiche fornisce materia ad un argomento con vari livelli di complessità, assai imbarazzante, che dovette essere formulato da Carneade. Riportato ai suoi elementi più semplici, esso può essere così riassunto:
1° – vi sono degli individui che, nati in circostanze differenti, hanno il medesimo destino;
2° – inversamente, vi sono degli individui che, nati in circostanze simili, hanno attitudini e destini differenti.
Vediamo ora l’uso che si fece di questa macchina da guerra.
Se ciascun individuo ha il suo destino particolare, determinato dalla sua genitura, come avviene che si vedono perire nello stesso tempo in un naufragio, un assalto, una battaglia, quantità di individui che non sono nati né nello steso tempo né nello stesso luogo? Forse, dice Cicerone, tutti quelli che sono periti nella battaglia di Canne erano nati sotto i medesimi astri? A questa obiezione gli astrologi rispondevano che le influenze universali (καθολικά) dominano le influenze più ristrette che generano le geniture individuali. Le tempeste, le pestilenze, le guerre, i flagelli collettivi di ogni genere, prevalgono sui risultati dei calcoli di interesse particolare. Così Tolomeo raccomanda espressamente di lasciare un margine, nei calcoli delle geniture individuali, per i casi di forza maggiore provenienti da fenomeni di portata più universale. La risposta era abile; la predominanza del generale sul particolare, del tutto sulla parte, sembrava una verità di senso comune. Ma l’argomento di confutazione non era per questo esaurito. Come avviene, diceva Carneade, che vi sono intere popolazioni in cui gli individui hanno il medesimo temperamento ed i medesimi costumi? Tutti gli individui della stessa razza sono dunque nati sotto il medesimo segno? Se la Vergine fa la pelle bianca ed i capelli lisci, ripeteva ancora tre secoli più tardi Sesto Empirico, allora alcun Etiope doveva esser nato sotto il segno della Vergine.
Al tempo di Sesto Empirico la breccia prodotta dalle argomentazioni di Carneade era ormai riparata, ed i pirroniani avrebbero potuto prendersi la briga di leggere Tolomeo, che cita precisamente, per mostrare che egli ha risposto partitamente all’obiezione, l’esempio dell’etiope la cui pelle è invariabilmente nera e quello del Germano o del Galate che hanno la pelle invariabilmente bianca. Gli astrologi invocavano anche in questo caso la predominanza delle influenze generali, non più solo accidentali, ma piuttosto fisse, le quali, agendo in modo continuo, creavano i tipi etnici. Essi trasposero a loro uso e consumo una teoria tanto antica quanto moderna, e moderna al punto che si credeva comunemente fosse nata appena ieri: quella che suppone l’uomo generato dall'”ambiente” in cui egli vive e si adatta per non morire. È sufficiente aggiungere alla serie delle cause un anello in più, rapportando all’influenza degli astri le qualità del sole, delle acque, dell’aria e le attitudini ereditarie che tali fattori determinano. Ciò era altrettanto difficile da confutare che da dimostrare.
Abbiamo anche dimostrato d’altronde, che, per precisare le loro idee e poter rispondere affermativamente alla domanda un tempo tanto imbarazzante: «Tutti gli individui della stessa razza nascono dunque sotto lo stesso segno?» gli astrologi avevano confezionato delle carte geografiche delle influenze astrali. Essi contavano senza dubbio sul fatto che la pazienza dei critici non sarebbe giunta al punto da domandare loro conto dei criteri minuti delle loro ripartizioni, e, in effetti, essi sono stati tanto poco mestati su questo punto dai loro avversari da non aver avuto bisogno di accordarsi tra loro per adottare un sistema unico.
Avendo spiegato la razza per mezzo dell’ambiente, e l’ambiente per mezzo degli astri, sembrava che la questione fosse divenuta priva di senso; ma la teoria stessa dell’influenza dell’ambiente, affermata e propugnata come argomentazione contro gli astrologi al tempo in cui questi non la condividevano, veniva ora negata in funzione anti-astrologica. Vi è un argomento storico su cui sembrano fare a gara tutti i polemisti cristiani posteriori a Bardesane: se la razza è determinata dalle influenze terrestri ed astrali esercitate sull’habitat, come spiegare che certi gruppi, come la razza ebraica o la setta dei cristiani, o ancora i “magi persiani”, conservano in ogni clima i medesimi costumi e le medesime leggi? L’ebreo dunque – dirà ancora Gregorio di Nissa – sfugge all’influenza degli astri quando porta dappertutto la sua «macchia di natura»? L’argomento era di un certo peso, e non lo si indeboliva di certo dicendo che ebrei e cristiani portavano con sé ovunque andassero la loro legge, perché ciò significava ammettere che la legge era più forte degli astri. Bardesane rinforzava ulteriormente la sua argomentazione facendo osservare che un despota o un legislatore può cambiare sul posto i costumi di una nazione, benché la nazione in questione rimanga sottomessa alle supposte influenze della teoria dei climi.
Ma gli astrologi non erano presi di mira solo per mezzo di questa argomentazione, diretta contro ogni specie di fatalismo scientifico e, in fondo, essi non erano più imbarazzati di un darwinista moderno a cui si domandasse perché le diverse razze conservano le loro caratteristiche specifiche al di fuori del loro habitat primitivo ed originario. Gli astrologi potevano trarre vantaggio dal far concessioni ai loro avversari al fine di difendersi dall’accusa di fatalismo di stretta osservanza. Era sufficiente che l’identità etnica fosse rapportata ad una origine che dipendeva a sua volta dagli astri.
Questa discussione concernente le condizioni fisiche della vita ed i rapporti dell’ambiente con gli astri fece sorgere altre difficoltà ed altre soluzioni. Il ragionamento fatto per le specie umane era infatti applicabile anche a quelle animali le quali, sia diffuse che confinate nei loro rispettivi paesi d’elezione, dovevano essere ancor più soggette alle fatalità naturali dell’ambiente. «Se – dice Cicerone – lo stato del cielo e la disposizione degli astri ha tanta influenza sulla nascita di ogni esser vivente, si è obbligati ad ammettere che tale influenza si esercita non solo sugli uomini, ma anche sulle bestie: ora, si può affermare cosa più assurda di questa?». Favorino si divertiva a chiedere dell’oroscopo delle rane e dei moscerini, e Sesto Empirico ride dell’imbarazzo di un astrologo che egli immagina di fronte ad un uomo ed un asino nati sotto lo stesso segno.
Bisogna essere prudenti nell’impiegare la parola “assurdo”. Vi è stato senza dubbio un tempo in cui si diceva degli schiavi e del popolino ciò che i nostri logici moderni dicono degli animali: si trovava semplicemente assurdo che il loro destino fosse scritto nel cielo o che essi potessero aspirare all’immortalità. Il progresso delle idee democratiche aveva spinto indietro la barriera piantata tra uomo ed animale. Gli astrologi esitavano ad abbatterla; e, ciò nonostante, la logica, anche la loro logica particolare, li spingeva ormai a farlo. Perché, ad esempio, i tipi animali, che riempivano della loro presenza la maggior parte dello zodiaco e tendevano a produrre sulla terra dei tipi a sé simili, non avrebbero dovuto manifestare la loro azione che sugli uomini? Alla fine, i pratici, se non i dottori dell’astrologia, accettarono questa conseguenza della simpatia universale, ed ebbero dalla loro le anime sensibili che facevano fare l’oroscopo ai propri cani, o gli allevatori di bestiame, che volevano consulti sulle attitudini dei loro prodotti. I cattivi burloni che presentavano all’astrologo, senza avvertirlo, un tema di genitura di un animale, ne rimanevano meravigliati se l’indovino riconosceva la tipologia del cliente. Il ragionamento fu esteso, senza ormai che se ne ridesse, al regno vegetale e minerale, giustificando così, per il regno vegetale, i vecchi calendari dei contadini, e preparando nel contempo dal lato del regno minerale le stravaganti ambizioni degli alchimisti, che ricercheranno le congiunzioni astrali adatte a generare i metalli o le pietre preziose.
Così, la serie di difficoltà nate da questa semplice domanda: «Perché dei gruppi di individui possono avere il medesimo temperamento o il medesimo destino?» aveva portato gli astrologi a costruire sulle razze umane, sulle specie animali, sul ruolo dell’ambiente e dell’eredità, teorie che valsero loro la reputazione di sapienti. Essi ebbero facilmente ragione dell’obiezione inversa, quella che domandava perché degli individui nati nelle medesime circostanze avevano attitudini e destini tanto differenti. Come avviene, si diceva, che tra tanti uomini venuti al mondo sotto i medesimi pianeti, non nasca una eguale quantità di Omeri, di Socrati, di Platoni? L’argomento poteva avere qualche valore ai tempi di Cicerone, ma già Favorino avrebbe dovuto sapere che era ormai del tutto logoro. Con la precisione richiesta dai metodi dell’astrologia colta, era altamente improbabile che vi fossero due temi di genitura identici. Gli elementi di calcolo, i sette pianeti ed i loro aspetti reciproci, i dodici segni dello zodiaco, i loro aspetti ed i loro rapporti con i pianeti, i decani, dodecatemori etc., tutto ciò, misurato con minuziosità e precisione, era sufficiente per creare milioni di diverse combinazioni, arrangiamenti e permutazioni matematiche. Se, come vedremo, perfino dei gemelli non avevano lo stesso oroscopo, a maggior ragione rilevanti potevano essere le differenze tra individui nati in istanti e luoghi diversi. Gli astrologi stoici avrebbero potuto promettere a Favorino dei nuovi Socrati e dei nuovi Platoni quando l’άποκατάστασις avrebbe fatto ricominciare al mondo l’esistenza già vissuta; nell’attesa, vi era posto per una diversità pressoché infinita di geniture.
Era a questo punto che i fautori della ragione attendevano gli astrologi.
Si conosce, grazie al celebre esempio della ruota del vasaio, la maniera con cui gli astrologi spiegavano come due gemelli potavano talvolta avere destini differenti. Gli esempi di gemelli di cui l’uno moriva in tenera età e l’altro giungeva all’estrema vecchiaia erano frequenti, e la difficoltà aveva tormentato a lungo gli uomini dell’arte. Essi spiegavano ciò grazie alla rapidità di rotazione della volta celeste, rapidità tale che gli oroscopi dei gemelli sono separati sul cerchio zodiacale da un apprezzabile intervallo. Ma essi sollevarono, con tale ragionamento, un coro di recriminazioni. Gli si domandava se essi erano capaci di raggiungere nella pratica quella precisione ideale da cui dipendeva, secondo il loro stesso parere, l’esattezza del pronostico. Qui, Sesto Empirico, sentendosi su di un terreno sicuro, attacca a fondo gli astrologi. Egli suppone all’opera due caldei, di cui uno impegnato a sorvegliare il parto, pronto a colpire un disco di bronzo per avvertire il suo collega appostato su di un’altura, e si fa forte nel dimostrare l’inanità di tutte le loro precauzioni.
Anzitutto, egli dice, fa difetto la condizione preliminare per precisare il momento dell’oroscopo. Questo momento cercato in realtà non esiste. Né il parto, né la concezione sono atti istantanei di cui l’istante possa essere determinato. Inoltre, anche ammesso che il momento oroscopico esistesse, gli astrologi non potrebbero afferrarlo. Data la debole vita del suono, al caldeo di sentinella presso la partoriente abbisognerebbe comunque del tempo per trasmettere il segnale necessario all’osservatore, del tempo quest’ultimo per effettuare si suoi rilievi e dunque, durante questi inevitabili ritardi l’istante oroscopico è già da un bel pezzo passato. L’osservazione è poi anche falsata dagli errori dovuti agli spostamenti della vera linea d’orizzonte dovuti all’altezza variabile dei luoghi d’osservazione o dalle alture che sbarrano l’orizzonte o dalla rifrazione atmosferica, o dalla maggiore o minore acutezza della vista dell’osservatore, dall’impossibilità di vedere le stelle durante il giorno e, anche di notte, alla difficoltà di concepire mentalmente delle divisioni ideali che il più delle volte non corrspondono a stelle visibili. È peggio ancora se, in luogo di trarre l’oroscopo da osservazioni dirette della volta celeste, ci si affida al calcolo dei tempi col metodo delle ascensioni (άναφοραί). Ci si dovrà servire di clessidre la cui precisione è necessariamente variabile a seconda della fluidità dell’acqua e della resistenza dell’aria. Anche a supporre che i professionisti del mestiere fossero capaci di scartare tutte le possibilità di errore, sicuramente gli ignoranti che consultavano i Caldei non potevano che comunicare all’astrologo dei dati di precisione sospetta, da cui non si potevano che trarre pronostici erronei.
Queste obiezioni sono molto forti, e esse avrebbero prodotto ancor più impressione se il nostro filosofo si fosse preso la pena di organizzarle in ordine di forza crescente, invece di iniziare con le più forti e far seguire argomentazioni più deboli e già confutate.
Il primo argomento, ovvero l’impossibilità di precisare il momento della nascita, era, per gli imprudenti che, a forza di sottilizzare, parlavano di momento indivisibile ed istantaneo. A qual momento di un parto, talvolta lungo, piazzare l’istante della nascita? Se i gemelli avevano degli oroscopi tanto indifferenti, si poteva applicare lo stesso ragionamento alla singola nascita e sostenere che la testa ed i piedi di un bambino non nascono sotto i medesimi astri. Si era dissertato a lungo tra filosofi, fisiologi ed anche moralisti, sul mistero della vita – vita organica, vita cosciente – e sul motore che gli dona l’impulso iniziale; gli astrologi potevano così prendere a prestito teorie già pronte, come ad esempio quella che faceva cominciare la vita umana propriamente detta al momento in cui il neonato respirava per la prima volta e riceveva così il primo influsso del mondo esteriore. Ma la cosa più sicura era senz’altro, su delle questioni su cui il rigore logico creava solo oscurità, lasciare tutto in una indistinta vaghezza. Il senso comunque creava molte meno complicazioni: non si vedevano difficoltà nel considerare la nascita di un bambino come un evento semplice e la nascita di due gemelli come un evento doppio, composto di due atti distinti e discernibili. Si è visto che, per finire con i logici, Tolomeo aveva deciso di non cercare più il momento esatto della nascita, ma di regolare il calcolo dell’oroscopo su altre considerazioni.
Tuttavia, ciò che importa constatare è che l’argomento rimase senza replica; d’altronde, esso non riguarda che gli astrologi ed i loro metodi pratici, lasciando intatta l’astrologia con i suoi principi e teorie. Altrettanto si dica – ed a più forte ragione – delle difficoltà sollevate a proposito degli errori d’osservazione. Quando anche fosse accertato che è impossibile fare una sola osservazione perfettamente esatta, ciò non proverebbe minimamente che la verità che si vuol raggiungere con tali osservazioni sia inesistente. Gli errori degli studiosi non sono imputabili alla scienza in sé. Con i loro strumenti perfezionati ed le loro formule di correzione, anche i nostri astronomi e fisici moderni non raggiungono certo l’esattezza ideale, ma vi si avvicinano solo. Gli astrologi antichi, analogamente, facevano del loro meglio per avvicinarsi alla perfezione, e non si poteva ragionevolmente chiedere di più. I loro contraddittori dimenticavano d’altronde che essi non erano più obbligati a fare in un istante, come si obiettava loro, tutte le constatazioni che e i rilievi che formano un tema di genitura. Con tutti i loro canoni e tavole essi potevano, fissando un sol punto di cerchio o istante definito, determinare a piacere la posizione simultanea di segni e pianeti, come potrebbero fare oggi i nostri astronomi con la conoscenza dei tempi astronomici, senza aver bisogno di osservare il cielo.
Così, l’assalto senza requie rinnovato contro i pratici a partire dalla determinatezza dell’istante oroscopale, non apriva brecce apprezzabili nell’impianto della teoria. La sua vittoria era stata che l’astrologia, abbandonando la più conosciuta e colta delle sue metodologie, aveva continuato a prosperare arrabattandosi con i procedimenti più popolari, che erano sufficienti ai nove decimi della sua clientela, ovvero con i calcoli delle opportunità o καταρχαί.
Cosa restava ancora da obiettare? Che se la catena delle cause e degli effetti era continua, il destino dei nascituri doveva essere virtualmente incluso in quello dei genitori, e così via, fino a regredire a l’origine prima della specie? Con ciò, non solo gli astrologi concordavano volentieri, ma essi erano forse stati i primi a pensarlo. In tutti i temi di genitura vi era la casa dei genitori, da cui discendevano congetture retrospettive sulle nozze e sui bambini, ed in cui era predeterminata la discendenza futura del nascituro. Così si rimproverava agli astrologi non di non assolvere questo compito, ma di ritenerlo possibile sulla base dei loro principi.
Non mancava, poi, a questo proposito, la critica di Favorino.
Su questo tema egli aveva imbastito un ragionamento estremamente capzioso, troppo sottile per essere efficace. Egli comincia con l’esigere che il destino di ognuno sia stato marcato dalle stelle ad ogni generazione, lungo la linea dei propri antenati, fin dalle origini del mondo. Ora, egli dice, poiché questo destino – sempre il medesimo – è stato più e più volte predeterminato da differenti disposizioni di stelle – essendo ogni tema di genitura diverso dall’altro – ne discende che delle combinazioni differenti di stelle possono arrivare ad un medesimo pronostico. Se si ammette questa conclusione, naturalmente, non vi è più né principio né metodo in astrologia: tutto crolla a partire dalla base. Così, in virtù delle loro dottrine gli astrologi sono obbligati ad ammettere un postulato contraddittorio rispetto ai principi della loro stessa scienza.
Occorrerebbe la pazienza di uno scolastico per analizzare questa mistura sofisticata, e non vi è, tuttavia, grande interesse a farlo, poiché la predestinazione è una questione che non interessa i soli astrologi e questi non pretendevano certo di spingere la loro investigazione nel passato remoto o nell’avvenire al di là dei limiti dell’intelligenza umana. Diciamo solo che l’ingegnoso improvvisatore cade nell’assurdo pretendendo che il tema genetliaco proprio di un antenato sia contenuto esplicitamente in quello dei discendenti, ovvero sia stato in realtà lo stesso di quello di ciascuno dei suoi discendenti, pur rimanendo essenzialmente personale. Ciò equivarrebbe a credere che gli astri potessero essere ciascuno nel medesimo istante in diverse posizioni differenti, o che il nonno, ad esempio, potesse essere nel contempo suo nipote.
Abbiamo concluso la nostra rassegna degli interlocutori che non fanno appello che alla ragione, con coloro i quali cercano di distruggere l’astrologia senza rimpiazzarla con una fede di loro gradimento. Dopo Sesto Empirico la pura logica non è più rappresentata; non si ritrovano più che teologi. La battaglia ingaggiata contro l’astrologia in nome della ragione raziocinante non raggiunse il suo obiettivo. Essa lasciò sussistere l’idea che gli errori degli astrologi erano imputabili alle imperfezioni di una scienza perfettibile, e che gli astri influivano realmente sul destino dell’uomo in virtù di un’energia fisica conoscibile attraverso l’esperienza, energia che può essere difficile, ma non impossibile da misurare e da definire. La polemica inscenata dai teologi – neo-platonici e cristiani – sarà ancor meno efficace, dal momento che gli avversari non sono più separati che da sfumature, e la preoccupazione fondamentale sembra non tanto abbattere la credenza astrologica quando il renderla ortodossa.
III
Sul confine tra la scienza e la fede, partecipante dell’uno e dell’altro ma poco curante del progresso dell’una e delle variazioni dell’altra, e soprattutto più indipendente di quanto non credano i moralisti, è assisa la morale, residuo e compendio delle abitudini della specie umana. Resterà sempre incerta la questione se l’astrologia sia o meno contraria alla morale; quel che è certo e che essa è parsa tale ad un buon numero di moralisti e che, su questo terreno comune a tutti, non c’è possibilità di distinguere tra razionalisti e mistici. Una occhiata gettata sulla disputa riguardante il fatalismo astrologico, sarà una comoda transizione per passare dagli uni agli altri.
Presupponendo la morale il libero arbitrio, ogni dottrina che tende a rappresentare i nostri atti come determinati senza l’intervento della nostra volontà è legittimamente sospetta ai moralisti. Tutti i metodi divinatori cadono in questa condanna, e l’astrologia non è oggetto particolare di attenzione se non perché le sue affermazioni sono più decisive e le conseguenze dei suoi principi più agevoli da scoprire. Ma, d’altro canto, vi è, nelle condizioni ed ostacoli che impediscono il libero esercizio della volontà, una sommatoria di fatalità che i moralisti ragionevoli non intendono contestare. Tale è il caso eccellente del nascere in un certo tempo ed in un certo luogo, con certe attitudini fisiche ed intellettuali, fatto che l’astrologia aveva la pretesa non di determinare, ma di comprendere e sfruttare per la comprensione dell’avvenire.
Abbiamo detto e ripetuto che l’astrologia greca aveva preso immediatamente coscienza del fatalismo inerente a suoi principi in seno alla scuola stoica, e che essa aveva potuto credersi riconciliata con la morale proprio attraverso gli stessi stoici.
A parte Panezio, tra gli Stoici non vi è che Diogene che abbia messo in dubbio il carattere fatale dei pronostici astrologici. Egli era dell’avviso che gli astrologi potevano «dire in anticipo di qual temperamento sarà ognuno e a quale ufficio gli sarà particolarmente adatto (22). In generale si concedeva volentieri agli astrologi che gli astri potevano agire sul corpo. Posto ciò, a seconda dell’idea che cui si faceva del vincolo di solidarietà che si voleva legasse l’anima al corpo, si era condotti ad ammettere una influenza mediata, più o meno efficace, sulla volontà. Toccava ai filosofi dibattere su questo punto: l’astrologia si accomodava a tutti i sistemi. Così i partigiani della libertà assoluta, Epicurei e Scettici, si guardavano dall’aprire questo varco al determinismo, o se l’opinione corrente gli forzava la mano, si affrettavano a dire che l’influenza degli astri, laddove fosse stata reale, comunque sarebbe sfuggita ai nostri mezzi d’investigazione. Risulta evidente, ciò nonostante, che anche questi scettici esitavano. Favorino accetterebbe, a rigore, che si possano prevedere «gli accidenti e gli eventi che si producono al di fuori di noi»; ma egli dichiara intollerabile che si abbia la pretesa di far intervenire gli astri nelle nostre deliberazioni interiori, trasformando l’uomo, animale ragionevole, in un marionetta i cui fili sono tenuti dai pianeti. È concepibile che il capriccio di un uomo che vuole andare ai bagni, poi non vi vuol più andare, ed infine vi si decide, possa corrispondere ad azioni e reazioni planetarie? (23) Ciò è assai ben detto: ma i nostri atti più spontanei possono dipendere, e strettamente, da circostanze “esterne”. Si supponga il nostro uomo apprendere che la sala da bagno dove voleva recarsi è crollata per effetto di un terremoto, a lui portato da un certa congiunzione di astri: si potrà dire che gli astri non influiscono in nulla sulla sua decisione?
Favorino crede di aver strappato agli astrologi la confessione che gli astri non regolano l’esistenza umana fin nel più infimo dettaglio, ed egli si rivolge subito contro di loro sostenendo che ciò è contraddittorio, e che, se si può predire l’esito di una battaglia, si deve anche poter prevedere la fortuna al gioco dei dadi o della roulette (24). Egli si batte così nel vuoto, perché non mancano i ciarlatani pronti a dargli soddisfazione (25), e non gli sarebbe sufficiente, per portare profitto alla sua causa, il constatare i loro errori, essendo questi ultimi sempre imputabili all’ignoranza dei pratici e non all’astrologia in sé.
Sesto Empirico ricorre alla vecchia logomachia filosofica, un tempo impiegata contro la divinazione in generale, dicendo che, poiché gli avvenimenti procedono da tre cause, la Necessità, la Fortuna o sorte ed il libero arbitrio, è inutile prevedere ciò che deve necessariamente succedere, ed impossibile fissare in anticipo sia il gioco del caso sia l’orientamento della volontà. Ciò che egli rimprovera all’astrologia, non è il suo essere fatalista, quanto piuttosto il supporre una fatalità che non esiste o non regna che su di un dominio ristretto.
Tutti questi dialettici più o meno scettici, si preoccupavano assai poco del criterio morale propriamente detto, il quale consiste nel giudicare delle dottrine attraverso le loro applicazioni ed a rigettare come false quelle che sono reputate immorali. Essi erano gente da pensare che, nel caso in cui una verità scientificamente dimostrata fosse andata contro la morale, sarebbe dovuto toccare ai moralisti rivedere i loro principi e tracciare differentemente la distinzione tra bene e male. Del resto, fino a quando lo stoicismo rimarrà in piedi, esso si baserà sul fatto, argomento irrefutabile in morale, che il fatalismo non è incompatibile con la virtù virile ed agente. Le cose andranno diversamente quando i teologi neo-platonici e cristiani attaccheranno il fatalismo in sé, rappresentato principalmente dall’astrologia. Costoro considereranno il fatalismo come empio da un doppio punto di vista, poiché la responsabilità di cui spoglia l’uomo, esso la riporta su Dio, divenuto autore del male come del bene.
Gli astrologi tuttavia avevano avuto il tempo di prepararsi alla lotta.
Essi si rendevano conto molto bene della difficoltà che vi era nel mantenere la responsabilità umana al riguardo di scadenze fatali provate ed annunciate in anticipo. Il problema non era nuovo e si era abbastanza spesso posto a proposito degli “oracoli infallibili” di Apollo. Essi avevano preso il partito molto saggio di transigere a spese della logica, di non rinnegare le loro dottrine e ciò nonostante di attenersi alla morale comune. Essi parlavano dell’inesorabile destino, della necessità e dei crimini che fa commettere. «Non c’è ragione» scrive Manilio «di scusare il vizio o privare le virtù delle loro ricompense. Poco importa da dove arriva il crimine; bisogna convenire che è un crimine. Ed è quindi anche fatale che esso debba espiare il suo destino» (26).
Il buon senso di questo romano – che era forse greco – va dritto all’ultimo rifugio aperto in ogni tempo a coloro che hanno una fede in due principi logicamente inconciliabili, al paradosso salvatore della morale in pericolo. Tolomeo si guarda bene dal porre l’antitesi così nettamente. Egli conosce lo scoglio verso il quale la logica spinge irresistibilmente coloro che a lei obbediscono, e dà un colpo di timone a lato. A sentir lui la maggior parte delle previsioni astrologiche sono, come tutte le previsioni scientifiche, fatali e condizionate al contempo. Vale a dire che esse si compiono fatalmente se il gioco delle forze naturali calcolate non è disturbato dall’intervento di altre forze naturali non contemplate nel calcolo. Ma dipende sovente dall’uomo il mettere in gioco queste forze intercorrenti e modificare il destino. È ciò che avviene quando un medico blocca, attraverso l’impiego degli opportuni medicamenti, il corso di una malattia che, senza il suo intervento, condurrebbe fatalmente alla morte. Alla peggio, quando interviene la fatalità ineluttabile, la previsione dell’avvenire dà all’uomo – diremmo allo stoico – il tempo di prepararsi a ricevere il trauma con calma e dignità (27). Tolomeo è giunto fino al limite estremo delle concessioni, senza altra preoccupazione che di rivendicare all’astrologia il nome di scienza “utile”. Non si saprebbe dire se la morale ne guadagni molto, perché il fatalismo mitigato può essere molto più pericoloso di quello che predica la rassegnazione completa. Tutti i crimini che si pretendono commessi ad istigazione degli astrologi hanno avuto per fine il modificare l’avvenire predetto.
Il fatalismo assoluto, al contrario, lascia le cose nel loro stato, e poiché il buon senso pratico non lo tiene in alcun conto, esso si riduce a non essere che una concezione metafisica.
Tale era lo stato della questione morale quando i teologi se ne impadronirono. Il nome di teologi (28), applicato anche ai Neo-platonici, sembrerà giustificato a tutti coloro che sanno fin dove arriva, nelle dottrine neo-platoniche, l’ossessione del divino e del demoniaco, che rimpiazza per essi l’idea di legge naturale e di forza meccanica. Del resto non è certo mancata a questi filosofi l’abitudine caratteristica dei teologi, quella di invocare dei testi ritenuti infallibili e di mettere il principio d’autorità al di sopra della logica. Al III secolo della nostra era la letteratura mistica, fabbricata in officine sconosciute, brulicava ovunque, soffocando il libero progresso dell’intelligenza e diminuendo la dose di senso comune necessaria all’equilibrio della ragione. In questi libri dettati dagli dèi, da figli di dèi, da re, da profeti e da sibille, l’astrologia aveva la sua parte, la sua buona parte. La moda era tale che i Caldei, spinti più oltre dalle tradizioni giudaiche e cristiane, passavano per detentori delle più antiche rivelazioni, degli oracoli più divini. Un certo “Giuliano il caldeo”, o “il Teurgo”, compose questi pretesi “oracoli in versi”, una miscellanea di ogni sorte di superstizioni orientali, un melange di magia, di teurgia, di metafisica delirante, che seduceva anche gli spiriti ribelli all’astrologia, e relegava in secondo piano, nel ruolo di comparsa gli dèi greci ed i loro oracoli. Questo libro divenne il breviario dei neo-platonici; essi lo consideravano come un riassunto della saggezza divina – riassunto che si preoccupavano di diluire ampiamente – e che ponevano sullo stesso piano del Timeo platonico, opera eccellente della saggezza umana (29).
La scuola neo-platonica, uscita dalla tradizione pitagorica e sviluppatasi in un ambiente simile, non poteva essere ostile all’astrologia. Solo, per assicurare l’unità del suo sistema metafisico, essa doveva negare agli astri la qualità di causa prima, efficiente, che era invece riconosciuta dall’astrologia sistematizzata dagli Stoici e, a maggior ragione, da quella generata dal Sabeismo caldeo. Plotino non credette nemmeno di dover lasciare alle stelle il rango di cause seconde, e le ridusse al livello di segni divinatori, comparabili ai segni interpretati negli altri metodi, riportando per di più all’unità la teoria della divinazione induttiva o rivelazione indiretta, accettata da lui interamente e senza obiezioni. Egli insegnava dunque che «il corso degli astri annuncia per ogni cosa l’avvenire, ma non lo compie» (Enneadi, II, 3). In virtù della simpatia universale, ogni parte dell’Essere comunica con le altre, e può, per chi sappia leggervi, ragguagliare sulle altre; la divinazione induttiva o congetturale non è che «la lettura di caratteri “naturali”» (Enneadi, III, 4, 6). Non bisogna seguire oltre le spiegazioni di Plotino se si vuol conservare un’idea netta della sua dottrina che doveva, secondo lui, attenuare il fatalismo astrologico e salvaguardare la libertà umana. Questa dottrina fu di grande conseguenza, perché, permettendo di considerare gli astri come semplici specchi riflettenti il pensiero divino – non più come agenti autonomi – e di assimilare la loro posizione e configurazione ai caratteri di una scrittura, essa rendeva l’astrologia compatibile con tutte le teologie, anche quelle monoteiste. Anche gli Ebrei, scandalizzati dagli dèi-planetari o dèi-decani e che aborrivano gli idoli disegnati nelle costellazioni, poterono rapportare senza scrupoli ad Enoc ed Abramo le regole di decifrazione applicabili a questa cabala celeste.
I successori di Plotino si impegneranno ad addomesticare, per così dire, l’astrologia, e farla entrare nel loro sistema, non per dominarla, ma per servirgli da prova e da punto d’appoggio. Porfirio, partigiano deciso del libero arbitrio, conserva sempre una certa sfiducia al riguardo dell’astrologia. Egli finisce per dichiararla scienza eccellente, senza dubbio, ma inaccessibile all’uomo e perfino al di sopra dell’intelligenza degli dèi e geni del mondo sublunare. Ciò nonostante, il suo rispetto religioso per il Timeo gli impediva di spezzare la catena che unisce l’uomo agli astri, ed egli è portato da ciò a spiegare e giustificare un buon numero di teorie astrologiche, e, segnatamente, quelle che più urtano il senso comune. A sentir lui Platone concilia il fatalismo effettivo – quello che insegnano “i saggi egiziani”, ovvero gli astrologi – con la libertà, nel senso che l’anima ha scelto essa stessa il suo destino prima di incarnarsi, essendo stata in origine posta lassù, nella “terra celeste” in cui ha trascorso la sua prima esistenza, dove era in grado di vedere i diversi destini possibili, sia umani che animali, scritti negli astri “come su di una tavola”. Una volta scelto, il destino non si può più cambiare: è l’Atropos mistico. È ciò che spiega come possano nascere sotto il medesimo segno uomini, donne, animali. Sotto il medesimo segno ma non nello stesso momento. Le anime munite del proprio destino e discese dalle sfere superiori attendono, per entrare nel nostro mondo sublunare, che la macchina cosmica, girando, realizzi le posizioni astrali previste dal loro destino. Che si immagini ad oriente, all'”oroscopo”, una torma di anime che appetiscono l’incarnazione, davanti ad uno stretto passaggio alternativamente aperto o chiuso dal movimento della grande ruota zodiacale, e quest’ultima forata da altrettanti buchi quanti sono i suoi gradi. Al momento voluto, spinta dalla Giustizia – che viene anche chiamata Fortuna – l’anima, poniamo l’anima di un cane ad esempio, passa attraverso il suo foro oroscopale mentre, l’istante dopo, attraverso un altro foro, passa un’anima umana.
Davanti a sì gravi elucubrazioni a malapena si riesce a rimanere seri: si crede di vedere allungare alle porte del teatro della vita questa coda di figuranti che attendono il loro turno e presentano al controllo della Giustizia il loro invito d’entrata stampato con caratteri astrologici. Porfirio non dice se queste anime, una volta entrate attraverso l’oroscopo, vadano ad animare degli embrioni o dei corpi completi, nei quali si precipiterebbero con la prima inspirazione di aria atmosferica. Ma egli, tuttavia, conosce le due varianti del sistema, e mostra che le si può combinare in una soluzione elegante che dispensa dal ricorrere alla previa esibizione ed aggiudicazione dei destini nella “terra celeste”. È sufficiente di supporre che l’anima scelga una condizione nel momento in cui ella vede passare innanzi a sé un oroscopo di concepimento; ella entra allora in un embrione, e in questo caso, l’oroscopo di nascita successivo non fa che manifestare la scelta precedente. Ecco di che soddisfare gli astrologi ed anche quei fisiologi che li hanno obbligati a calcolare l’oroscopo di concepimento, affermando che l’embrione non potrebbe vivere senza anima.
Attraverso ciò che ammette Porfirio, lo spirito forte della scuola neo-platonica, si può comprendere la fede di un Giamblico o di un Proclo, di mistici affamati di rivelazioni che sarebbero stati astrologi infaticabili se la magia, sotto forma teurgica, non gli avesse offerto una via più corta e più sicura per comunicare con l’Intelligenza divina.
Così, la prima ed ultima parola della dottrina neo-platonica concernente l’astrologia è che gli astri sono i “segni” (σημεĩα – σημαντικόν) e non gli “agenti” (ποιητικόν) del destino; con ciò le anime sono libere, non obbedendo ad una necessità meccanica, ma solo ad una predestinazione (εìμαρμένη) che esse stesse hanno fabbricato attraverso libera scelta.
Così concepita, l’astrologia diviene ancor più infallibile che concepita come semplice studio delle cause: è la decifrazione, attraverso regole rivelate, di una scrittura divina. Gli astrologi dovevano sempre ai neo-platonici la prima spiegazione logica dei rovesci improvvisi dell’oroscopo, che costituiva d’altronde il loro dogma più antico secondo il senso comune. Così si è non poco stupiti di vedere l’astrologo Firmico trattare da nemico Plotino, avversario della fatalità astrologica, e fare un sermone sull’orribile morte di quest’orgoglioso sapiente, che morì della morte degli empi, vedendo il suo corpo incancrenito cadere a brandelli e divenire sotto i suoi occhi qualcosa di innominabile (30). Bisogna credere, se la morte di Plotino era realmente così “famosa”, che certi astrologi avevano considerato come un affronto fatto alle loro divinità la distinzione metafisica tra i segni e le cause, e che Plotino aveva attirato sulla sua memoria gli strali dell’odium theologicum.
Essi potevano star sicuri: infallibilità e fatalità, quando si trattava dell’avvenire, erano sinonimi, e noi assisteremo in seguito a nuove battaglie intorno a questa idea-madre intentate da teologi che sono al contempo discepoli, alleati e nemici dei neo-platonici.
Abbiamo detto, ripetuto, e, ci pare, dimostrato, che l’astrologia, a seconda dello spirito dei suoi seguaci, poteva essere una religione o una scienza. Come scienza, essa poteva accomodarsi a tutte le teologie mediante un certo numero di paralogismi che gli astrologi del XVI secolo sapranno ben ritrovare quando proveranno e riusciranno a vivere in pace con la Chiesa.
Come religione – Firmico la chiama con questo nome e parla di sacerdozio astrologico (31) – l’astrologia tendeva a soppiantare le religioni esistenti, sia assorbendole che eliminandole.
La vecchia mitologia si era facilmente lasciata assorbire: i grandi dèi avevano trovato onorevole rifugio nei pianeti o negli elementi, e le leggende erano servite a popolare il cielo di “catasterismi”. La demonologia platonica non era capace di maggior resistenza. L’astrologia offriva anche alla sua miriade di geni, confinati nel mondo sublunare o debordanti al di là, un impiego bello e pronto, ovvero l’ufficio di astrologi, di esseri che leggevano la scrittura divina negli astri più da vicino che non l’uomo e dispensavano in seguito le loro rivelazioni attraverso i processi divinatori conosciuti. Quanto alle religioni solari, esse crescevano sullo stesso terreno dell’astrologia, che, lungi dal soffocarle, aiutava il loro progresso. I culti solari ed i dogmi astrologici formavano una religione completa, che, in certi astrologi, prendeva coscienza della sua forza al punto da spingerli ad una propaganda offensiva. «Perché o uomo», scrive lo Pseudo-Manetone, «sacrifichi inutilmente ai beati? Non vi è ombra di profitto nel sacrificare agli immortali, perché non si può cambiare la genitura dell’uomo. Fai omaggio a Kronos, a Cytherea e a Zeus, a Mene e al re Elios. Costoro, in effetti, sono i padroni degli dèi, sono padroni anche degli uomini e di ogni fiume, tempesta e vento, della terra fruttifera e dell’aria eternamente mobile (32)». È il linguaggio di un apostolo che, per il senso comune, doveva somigliare in modo singolare a un ateo. In generale, comunque, gli astrologi evitavano questi eccessi di zelo imprudente. Lungi dal dichiarare guerra ad una qualunque religione, Firmico assicura che l’astrologia spinge alla pietà, insegnando agli uomini che i loro atti sono regolati dagli dèi e che l’anima umana è parente degli astri divini, suoi fratelli maggiori, dispensatori della vita (33). Tutte le religioni, anche le monoteiste, per poco che tollerassero la metafora, potevano accettare queste elastiche formulazioni.
Tutte eccetto il Cristianesimo, che resta fedele allo spirito giudaico che l’aveva generato e che vede nell’astrologia una superstizione pagana. A dire il vero, è difficile trovare, sia nell’ebraismo alessandrino che nel Cristianesimo primitivo così rapidamente ingolfato di speculazioni gnostiche e platoniche, una vena di dottrina assolutamente pura da ogni compromesso con l’ossessiva, insidiosa e proteiforme mania che era divenuta una sorta di malattia intellettuale. Il fermento deposto nella cosmogonia della Genesi, regolata dal numero settenario, scaldava le immaginazioni mistiche e le spingeva dalla parte dei sogni caldei. È all’incirca all’era cristiana che apparve il Libro di Enoc (34), che riferisce i viaggi del patriarca nelle regioni celesti secondo i 366 libri scritti da Enoc stesso. Vi si ritrova una descrizione dei sette cieli in cui circolano i sette pianeti. Dio risiede nel settimo, rimpiazzando così Anu-Bel o Saturno. Il paradiso si trova nel terzo, probabilmente quello di Venere, mentre nel secondo e nel quinto (sicuramente quelli di Mercurio e Marte) vi sono degli angeli colpevoli. Le sfere celesti ospitano le anime, che preesistono al corpo, come nel sistema platonico. L’uomo è stato formato dalla Saggezza di sette sostanze, ad immagine del mondo, ed il nome del primo uomo, Adam, è l’acrostico dei quattro punti cardinali (35).
Non è una metafora indifferente, ma una reminiscenza del Libro di Enoc, quella che cade dalla penna di San Paolo, quando scrive ai Corinzi che egli è stato «rapito al terzo cielo, al paradiso» (36). L’apostolo viene così a conoscenza delle creature che hanno bisogno di essere riscattate «sia quelle che sono sulla terra, sia quelle che sono nei cieli (37)», degli «spiriti malvagi nei luoghi celesti (38)». Tutto ciò non può riferirsi che al cielo visibile. È, del resto, da questo cielo che cade un giorno Satana, anche lui visibile «come una folgore (39)». I numeri astrologici si possono ritrovare a piacimento nell’Apocalisse. Il veggente si indirizza a sette chiese, nel nome di sette spiriti; ha visto sette candelabri d’oro e nel mezzo una figura simile al Figlio dell’uomo, che teneva nella sua destra sette stelle. Il libro ha sette sigilli, l’Agnello sette corna e sette occhi, la Bestia sette teste; si odono riecheggiare sette tuoni, e le sette trombe dei sette angeli, i quali in seguito vanno a spandere sul mondo sette fiale piene della collera di Dio. Quanto al numero dodici, è il numero delle stelle che circondano la testa della donna “vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi (40)”, è il numero delle porte della Gerusalemme celeste e delle fondamenta delle mura, le quali fondamenta sono fatte da dodici specie di pietre preziose; l’albero della vita piantato nel mezzo della città celeste fruttifica dodici volte l’anno. Senza dubbio, tutto ciò non è astrologia; ma, d’altro canto, appare un misticismo simile a quello che anima la fede astrologica.
Si sa con quale intemperanza gli gnostici pretendevano infondere nelle dottrine cristiane una metafisica magniloquente ed incoerente, costruita con frammenti di tutte le superstizioni internazionali. Non ci attarderemo nell’analizzare tutte le chimere sbocciate nel cervello di questi orientali che tutte le Chiese cristiane hanno rigettato e che parimenti verranno rigettate al di fuori della civilizzazione greco-romana. I numeri e le associazioni di idee astrologiche vi sono disseminate a profusione. I 365 cieli di Basilide sono dominati dal grande Abrasax o Abraxas (41), nome costituito dalle cifre la cui somma vale 365 ed in cui si trovano ben piazzate, tra altre combinazioni, una dodecade ed una ebdomade. Al dire dell’autore dei Philosophumena, la dottrina dei Peracidi o Ofiti era tutta impregnata di teorie astrologiche e, per questo motivo, era estremamente complicata (42). I Manichei comparavano, si dice, lo Zodiaco ad una ruota idraulica provvista di dodici anfore, che, attinta la luce vagante nel mondo infero, regno del diavolo, la riversava nella navicella della Luna, la quale a sua volta la riversava nella navicella del Sole, la quale la riportava poi nel mondo superiore (43).
Tutti questi sognatori, ebbri di rivelazioni ed emancipati dal senso comune, torturavano, sfiguravano e combinavano in miscugli innominabili, tradizioni e testi di ogni provenienza conditi d’allegorie pitagoriche, orfiche, platoniche, bibliche, evangeliche, ermetiche. Le loro bande mistiche conducevano il carnevale della ragione umana, facendo piovere da ogni lato sulla folla sbalordita comunicazioni celesti, oracoli ed evangeli apocrifi, ricette magiche e divinatorie, talismani e filatteri. Non tutti erano partigiani dell’astrologia sistematica. Poiché si è potuto attribuire al più cristiano tra loro, il siriano Bardesane, una refutazione del fatalismo astrologico; ma certi contavano precipuamente di attirare a loro gli astrologi facendo posto nelle proprie dottrine ai dogmi “matematici”. I “Peratici” summenzionati si renderanno protagonisti, a tal fine, di prodigi di ingegnosità e, segnatamente, convertiranno i catasterismi tradizionali in simboli giudeo-cristiani.
IV
Bisogna attendere che questo tumulto sia placato per distinguere le correnti di dottrina cristiana che diverranno l’ortodossia ed avere a che fare con dottori che avrebbero impresso la loro impronta su dogmi destinati a durare.
Questa struttura dogmatica non fuoriesce dalla crisi così semplice come era in origine; gli era servito trovare risposte a tutte le questioni sollevate, e, in mancanza di testi rivelati, prendere a prestito le soluzioni dalla filosofia, la sola che al tempo fosse vivente e persino rinnovata, ossia il platonismo. Affascinati dalla meravigliosa epopea dell’anima che Platone gli mostrava discendere dalle sfere celesti ed ivi ritornare all’uscita dalla sua prigione d’argilla, i dottori cristiani riconobbero in Platone ed in Socrate dei precursori della Rivelazione messianica. Senza dubbio, essi si riservavano il diritto di effettuare una cernita in queste teorie, ed anche la possibilità di mantenersi sul piede di guerra contro i filosofi platonici; ma essi erano per metà disarmati contro il brulicare delle ipostasi ed emanazioni di ogni sorta, contro la demonologia, la magia e la teurgia che erano accolte senza resistenza dalla scuola neo-platonica. In via generale, essi consideravano le tecniche divinatorie e, più di tutte le altre, l’astrologia, come invenzioni diaboliche, il che era un modo di riconoscerle efficaci, e forse persino di esaltarne il gusto di frutto “proibito” (44). D’altronde essi non potevano spingere a fondo questa tesi, poiché il demonio non sa che parodiare gli atti divini, e bisogna guardarsi, nel condannare le false rivelazioni, dal discreditare le autentiche. Ora, era accettato che Dio, creatore degli astri cui aveva assegnato il valore di “segni” (45), se ne era talvolta servito per rivelare i suoi disegni, come era testimoniato dall’arretramento dell’ombra sul quadrante solare di Ezechia, dalla stella dei re Magi, dall’oscuramento del sole alla morte di Cristo e dai segni celesti che dovevano annunciarne il ritorno.
Il caso dei re magi, per gli esegeti e polemisti cristiani, fu di grave imbarazzo. Era l’astrologia, quella vera, quella dei Caldei o Magi, posta in bella evidenza e nel suo proprio ufficio proprio in occasione della nascita di Cristo, di cui la stella annuncia la regalità. Un oroscopo, benché regale, per Gesù Cristo, era il livello della fatalità comune passata sull’Uomo-Cristo; ed era anche, poiché il segno era stato compreso dagli uomini dell’arte, un certificato di veridicità consegnato all’astrologia, e da parte dello stesso Dio, che ne aveva dovuto osservare le regole per rendere il messaggio intelligibile. Dire che Dio si era servito di un astro per avvertire i Magi semplicemente perché questi erano astrologi (46) non indeboliva questa idea. Essi erano stati avvertiti: dunque essi comprendevano i segni celesti, e gli astrologi non mentivano dicendo che tali segni erano intelligibili.
C’era una transazione indicata chiaramente, di cui si avvidero subito i dottori della Chiesa: poiché l’astrologia era una pratica inventata o un segreto rubato dai demoni, e poiché Cristo era venuto a mettere fine al regno dei demoni, si trattava, si diceva, di ammettere che l’astrologia o la magia erano state veridiche fino alla nascita di Cristo e che esse erano venute ad abdicare, per così dire, nella persona dei Magi pagani alla culla del Redentore. È la spiegazione alla quale si arrestano Sant’Ignazio e Tertulliano (47). Gli gnostici Valentiniani avevano incrociato il soggetto in precedenza, e ne avevano tratto una teoria delle più seducenti. Secondo Teodoto la stella dei Magi aveva «abrogato l’antica astrologia» togliendogli la sua ragion d’essere; la grazia del battesimo «trasportava coloro che hanno fede in Cristo dal regime della predestinazione sotto la provvidenza di Cristo stesso». Il cristiano, soprattutto se gnostico, sfugge alla fatalità ed alla competenza degli astrologi (48). E sia! ma, in questo modo, l’astrologia era riconosciuta veridica per il passato, ed avrebbe continuato ad esserlo per la clientela pagana: gli astrologi contro cui si voleva lottare non domandavano di meglio! Gli si concedeva l’ultima parola del dibattito, ed essi potevano persino permettersi compassione per l’orgoglio di gente che poneva se stessa al di fuori della natura.
Succede talvolta ai Padri della Chiesa dei secoli successivi di ripetere che la predestinazione e l’astrologia sono esclusi dal regime della nuova legge (49); ma essi sapevano bene che questo argomento, d’ortodossia sospetta, non risolveva le difficoltà e ne sollevava di più grandi. Essi cercarono altre ragioni. Fecero notare che la stella dei Magi non era una stella ordinaria, né fissa, né pianeta, né cometa; che essa aveva viaggiato diversamente da tutti gli altri astri conosciuti, poiché aveva condotto i Magi a Bethlemme e non era, di conseguenza, in nulla assimilabile ad una stella oroscopale. L’oroscopo astrologico serve a predire il destino dei bambini che nascono, e non ad annunciarne la nascita. In una parola, la stella dei Magi era stata una fiaccola miracolosa, forse un angelo o anche lo stesso Spirito Santo, e, come tale, non apparteneva al repertorio dei segni astrologici (50). Il ragionamento non era molto serrato e poteva essere agevolmente capovolto. Restava dato che gli astrologi avevano ben divinato osservando il cielo, e, se l’astro era nuovo, bisognava tanto più ammirarne la sicurezza dei metodi che erano stati all’altezza di un caso affatto imprevisto (51). Era senza dubbio perché essi avevano visto l’astro miracoloso scostarsi dalla rotta ordinaria dei pianeti che essi l’avevano seguito, e ciò grazie al calcolo; perché, se essi avevano obbedito ad una suggestione divina – essi che erano istruiti dai demoni, a detta di San Gerolamo – non si vede perché Dio si sarebbe indirizzato di preferenza a dei sapienti.
La prova che il dibattito non tendeva necessariamente a discapito degli astrologi, è che l’autore cristiano dell’Hermippus si avvale del racconto evangelico concernente i Magi per mostrare che la fiducia nell’astrologia è compatibile con la fede cristiana, alla sola condizione di prendere la stella per segno ed annuncio e non per causa della «nascita del dio Verbo». Egli si interrompe, è vero, per raccomandare di mettere il chiavistello alle porte, ben sapendo che la sua opinione non è gradita a certa gente (52).
Vediamo qui riapparire ancora una volta lo scrupolo che eccita lo zelo dei dottori e che, una volta calmato attraverso la distinzione tra i segni e le cause, li lascia sprovvisti di ragioni perentorie o perfino disposti all’indulgenza di fronte alle altre pretese dell’astrologia. Che gli astrologi rinuncino a dire che gli astri regolano il destino; che, come Platone, Filone ed i Neo-platonici gli attribuiscano il solo ruolo di segni indicatori, di scrittura divina, e più di un avversario deporrà le armi, persuaso che allora non vi è più fatalismo astrologico e che la condotta del mondo è rimessa, come si conviene, al solo Dio. In fondo, Origene stesso non domanda altro (53). Egli non dimentica di far valere contro gli astrologi le obiezioni conosciute, l’argomento dei gemelli, l’argomento inverso tratto dalle specie, oppure la precessione degli equinozi, o infine le impossibilità che vi sono di soddisfare le esigenze della teoria; ma, contro l’astrologia in se stessa, concepita come interpretazione dei segni divini, egli non ha nulla da dire se non che essa è al di sopra dell’intelligenza umana. Egli non è ancora molto fermo su questo terreno: perché, infine, Dio non fa nulla invano. Perché mai tali segni rivelatori che, non essendo cause, sarebbero inutili in quanto segni se non fossero compresi? Sarebbero forse per le «potenze superiori all’uomo, gli angeli»? Ma gli angeli sono, per definizione, i messaggeri di Dio, e le profezie provano che Dio non disdegna di rivelare talvolta l’avvenire agli uomini. Del resto, non si ha bisogno di spingere Origene a concessioni; egli non rifiuta agli uomini che la conoscenza “esatta” del senso dei segni celesti. Non ostante tutte le riserve fatte sulla pratica, egli crede all’astrologia per le stesse ragioni dei neo-Platonici, e gli apporta anche, a suo rischio e pericolo, il conforto di citazioni tratte dalla Santa Scrittura (54). A dispetto della sfortuna postuma che, nel IV secolo, lo taglia fuori dal novero dei dottori ortodossi, si sa quanto fu grande, soprattutto nella chiesa greca, l’autorità di Origene. Così non si è stupiti di apprendere che numerosi cristiani, anche membri del clero, credevano di poter accettare le dottrine o di potersi dedicare alle pratiche dell’astrologia. Si racconta che il vescovo d’Emesa, Eusebio, era tra questi, e che per questo fu in seguito deposto dal suo seggio (55). Sant’Atanasio, pur essendo così rigido sul dogma, trova nel libro di Giobbe la traccia, e, di conseguenza, la conferma, di una delle teorie più caratteristiche dell’astrologia, quella delle case o domicili dei pianeti (56). Eusebio di Alessandria constata e deplora che i cristiani si servano di espressioni come «Peste sia della tua stella!» o «Peste sia del mio oroscopo!» o ancora «Egli è nato sotto una buona stella». Aggiunge che alcuni arrivano perfino ad indirizzare preghiere agli astri e dire, ad esempio, al sol levante: «Abbi pietà di noi!» come fanno gli adoratori del sole e gli eretici! (57)
Il pericolo, in effetti, era questo. La Chiesa non si curava di entrare in lotta con l’astrologia di stampo scientifico; ma essa non poteva lasciar risalire alla superficie il fondo religioso, il sabeismo che aveva generato l’astrologia e che, a misura che si abbassava il livello della cultura generale, tendeva a riprendere la sua forza originale. Il che spiega la ripresa delle ostilità, d’altronde abbastanza mollemente combattute, di cui abbiamo avuto un saggio a proposito della questione della stella dei Magi. I Padri della fine del IV secolo, non poterono che ricominciare da capo la lotta all’astrologia, senza d’altronde inserire nella polemica alcun argomento nuovo, nel nome della morale minacciata dal fatalismo (58). Come origenisti, essi non osavano impiegare contro il nemico delle armi teologiche, e, come dialettici, essi erano ben al di sotto dei loro predecessori. Essi fanno a gara a ripetere che, se il destino umano fosse prefissato dagli astri, Dio, che ha creato gli astri, sarebbe responsabile dei nostri atti, anche di quelli malvagi. La loro argomentazione si può riassumere nelle parole di Sant’Efrem: «Se Dio è giusto, Egli non può aver stabilito degli astri genetliaci in virtù dei quali gli uomini diventano necessariamente peccatori» (59). Era il linguaggio del buon senso; ma il buon senso, fatto di postulati empirici non è più ammesso del pugno nelle dimostrazioni della scherma intellettuale. Questi dottori che, per lasciare intera la nostra responsabilità non vogliono riconoscere limiti alla nostra libertà, chiudono gli occhi per non vedere le temibili questioni solevate dalla fede nella prescienza di Dio, e le difficoltà che aggiunge a questo problema generale lo stesso dogma cristiano. Il peccato originale, la grazia, e l’obbligo di accordare queste forme di fatalità con l’idea di giustizia, sono arcani di fronte ai quali il fatalismo astrologico sembra lieve ed accomodante. Inoltre, questi stessi dottori, si richiamavano imprudentemente alla stessa scienza, nel nome dell’ortodossia. Pur non avendo dei testi precisi da opporre all’astrologia, essi ne trovavano, e più d’uno, che gli proibiva di ammettere che la terra fosse una sfera, imponendogli di credere che al di sopra del firmamento vi fosse un serbatoio di acque celesti.
Essi mettevano in evidenza la loro semplicità, già trasformata in intolleranza, e si caricavano di polemiche inutili o perlomeno utili esclusivamente agli astrologi. Questi, in effetti, conservavano il prestigio della scienza greca, ed avrebbero anche trovato il loro tornaconto nel trionfo della cosmologia ortodossa del tempo, che era quella degli antichi Caldei (60).
La lotta così allargata, sviata, dispersa, fu ripresa e come concentrata in un’ultima battaglia, inscenata dal più grande tattico, il più imperioso ed ascoltato dottore della Chiesa, Sant’Agostino. Questi è di un’altra tempra rispetto agli Origenisti della Chiesa d’Oriente. Disdegna le precauzioni del linguaggio, gli argomenti dei moralisti, così come le preoccupazioni per il libero arbitrio umano, che egli comprime nella dottrina della grazia e della predestinazione; e, se talvolta impiega il raziocinio, è solo come arma leggera, riservandosi di utilizzare, per spezzare le resistenze nei ranghi dei cristiani, l’affermazione altera e l’autorità del dogma. Non bisogna aspettarsi di trovare in Agostino una logica serrata, e non si è nemmeno in grado di distinguere a tutta prima il fine che egli persegue. Non è per la libertà umana che egli combatte. Lungi dal fare causa comune con i difensori di tale libertà, egli li considera piuttosto come atei. Egli trova detestabile la negazione della prescienza divina opposta rifiuto categorico da Cicerone ai partigiani della divinazione (61). Egli ammette dunque, senza ombra di dubbio, la possibilità della rivelazione dell’avvenire – senza la quale bisognerebbe negare le profezie – e parimenti egli non considera come superstizioni necessariamente illusorie e menzognere le pratiche divinatorie. Ma aborrisce tanto più queste pratiche demoniache che, sempre in agguato, spiano i segni esteriori del pensiero divino e si impadroniscono di qualche frammento di verità che poi mescolano, quando gli piace, alle loro menzogne. Sant’Agostino accetta tutta la demonologia cosmopolita che minava da secoli l’assetto della ragione, e nessuno spirito fu mai più ossessionato dalla mania e dal contatto del soprannaturale. Manicheo o ortodosso, egli non vede nel mondo, nella storia come nella pratica di vita giornaliera, che la lotta tra Dio e il diavolo, tra gli angeli della luce e gli spiriti delle tenebre, questi ultimi imitanti i primi, impegnati ad opporre alle profezie divine i loro oracoli, disputando ai sogni veridici l’anima che veglia nel corpo addormentato, lottando a colpi di sortilegi magici con i veri miracoli. L’astrologia beneficia del gusto che Agostino aveva manifestato per essa e dello studio che ne aveva fatto (62). La scienza astrologica non è una di quelle volgari trappole tese dal demonio alle anime semplici, ma l’estensione abusiva, orgogliosa, atea, di una scienza che era per certi versi il capolavoro dello spirito umano. Se l’astrologia non fosse atea, se i “matematici” consentissero a non vedere negli astri che dei segni – e non delle cause – Agostino esiterebbe a condannare una opinione condivisa da grandi dotti. Ma, così come è concepita dalla maggior parte dei suoi partigiani, l’astrologia ha la pretesa di sostituire la fatalità naturale e meccanica alla volontà di Dio; essa è dunque nella via della menzogna, ed il campione dell’Onnipotente attacca, con la consueta foga, queste “empie divagazioni” (63).
Essendo le armi teologiche da tempo spuntite, è alla dialettiche che egli ricorre. Riprende tutti gli argomenti messi in campo dai tempi di Carneade, non aggiungendovi che la sua veemenza, del sarcasmo e un po’ di sofismi. La fastidiosa polemica intorno ai gemelli – con varianti per i gemelli di sesso differente – non acquista nulla con la sostituzione dell’esempio dei Dioscuri con quello di Esaù e Giacobbe; sia l’attacco che la reazione rimangono allo stesso livello. Egli stesso sa bene di aver fatto ricorso ad artifici retorici ed a trabocchetti dialettici. Essendo dati, dice, due gemelli, o essi hanno lo stesso oroscopo, ed allora tra loro tutto deve essere uguale, il che non è, oppure essi hanno, a causa della piccola differenza di tempo che intercorre tra le loro nascite, degli oroscopi diversi, ed allora «si esige che essi abbiano dei genitori differenti, cosa che due gemelli non possono avere» (64). Esigendo ciò non si comprenderebbe come degli stessi genitori possano avere più di un bambino, assurdità di cui l’astrologia in realtà non è assolutamente responsabile. Continuando l’esempio, questi due gemelli sono malati «nello stesso periodo». Il fatto è spiegato da Ippocrate con la similitudine dei temperamenti, da Poseidonio con quella dei temi natali. Sant’Agostino non si contenta di preferire la spiegazione del medico a quella dell’astrologo; egli vuole che l’espressione «nello stesso periodo» indichi una coincidenza matematicamente esatta. Egli scrive: «Poiché essi erano malati nello stesso tempo, e non uno prima e l’altro dopo, allora, di conseguenza, non dovevano essere nati simultaneamente? Oppure, se il fatto di essere nati in tempi differenti non implica che essi debbano ammalarsi in tempi diversi, perchè si sostiene che la differenza del tempo di nascita produce delle diversità solo per tutte le altre cose? (65)». Gli astrologi avevano venti modi per sfuggire a questo dilemma, senza contare la scappatoia di non addossarsi fin nel dettaglio la responsabilità delle affermazioni di Poseidonio. L’astrologia, resa edotta da secoli di discussioni, non affermava, o non affermava più, che i destini dei gemelli dovessero essere in tutto e per tutto simili, o del tutto differenti. Ma Sant’Agostino non vuole abbandonare la partita. Egli si abbarbica a Poseidonio. Questi pretendeva che i gemelli malati, se anche non fossero nati matematicamente nel medesimo momento, fossero stati in realtà comunque concepiti nello stesso momento; egli spiegava così le rassomiglianze nel destino dei gemelli attraverso la simultaneità della concezione, attribuendo invece le differenze alla non simultaneità delle nascite. Egli si metteva in una situazione difficile, ed Agostino cucina a suo gusto su questa simultaneità che poteva produrre due gemelli di sesso opposto e dai destini contrari: ma questa scarica di argomentazioni scivolava addosso agli astrologi abbastanza accorti da tirare un velo sul mistero della concezione, accontentandosi di speculare sull’oroscopo della nascita. Allo stesso modo egli consegue un’altra inutile vittoria, quando segnala una certa incompatibilità logica tra il metodo genetliaco, che suppone tutto prefissato al momento della nascita, e quello dei καταρχαί che pretende scegliere per le nostre azioni il momento più opportuno (66). Sono teorie differenti, che coesistevano e talvolta si combinavano, senza che nessuno si fosse mai preoccupato di riportarle all’unità. Sant’Agostino immagina sempre di avere a che fare con una dottrina pietrificata, immobilizzata in una ortodossia che permetta di afferrarla sotto una forma precisa, e sotto questa forma di sgominarla. Ma, Idra o Proteo, l’astrologia scappa da ogni lato alla sua stretta. Bisognerebbe colpirla nei suoi principi, negare risolutamente l’influenza degli astri o sostenere che, anche laddove ve ne fosse una, nulla se ne potrebbe conoscere. Ciò S. Agostino lo fa, ma senza convinzione, con riserve e concessioni che rendono all’avversario il terreno conquistato. Egli dichiara l’astrologia atea, e considera quella che insegna «che gli astri decidono del nostro destino senza la volontà di Dio» inaccettabile anche per dei semplici razionalisti (67). Ma conserva nel contempo opinioni concilianti che sa essere state quelle di Plotino ed Origene, e non senza stupore si constata che, in fondo, egli le fa le sue. Egli chiude la discussione dicendo che, se gli astrologi «tanto di sovente fanno previsioni mirabilmente vere», ciò non è per effetto della loro arte chimerica, ma per ispirazione dei demoni. Egli pensa di aver rovinato l’astrologia in quanto scienza umana, ed ecco che egli la restaura come rivelazione demoniaca, rivivificando nello stesso tempo il suo dogma fondamentale, perché se i demoni leggono l’avvenire negli astri, vuol dire che questo vi è effettivamente scritto. Era come raccomandare l’astrologia ai pagani, per i quali i demoni di S. Agostino erano degli dèi, senza nel contempo intimidire i cristiani che tenevano in minor stima i demoni e che mettevano al loro posto dei patriarchi nello zodiaco e degli angeli nei pianeti, pensando così di aver convenientemente esorcizzato e purificato l’attrezzatura astrologica già maneggiata dai pagani (68).
In fin dei conti, la polemica cristiana contro l’astrologia non era più concludente di quella degli scettici. I cristiani che non credevano agli oroscopi temevano, come tutti, le eclissi e le comete a causa delle sventure che esse annunciavano, e mai una volta si intese una volta per tutte che non si poteva essere cristiani senza aborrire l’astrologia. L’autore cristiano del dialogo intitolato l’Hermippus fa valere, al contrario, l’eccellenza ed il valore morale di una scienza che eleva l’intelligenza umana verso le cose celesti, e, ben lungi dallo spingere al fatalismo, ci insegna che l’anima spirituale sfugge all’influenza materiale degli astri (69).
Poiché non vi è dottrina codificata, né approvazione o riprovazione espressa, a nome della Chiesa Cattolica non vi furono più che misure generali per ciò che concerne le credenze e le pratiche astrologiche. In oriente ci si abituò a considerare l’astrologia come una dipendenza più o meno contestabile dell’astronomia, classificata nella categoria delle opinioni libere di cui la Chiesa non doveva occuparsi. In occidente, l’autorità di S. Agostino e la lotta contro Manichei e Priscillanisti, fece prevalere l’idea, al fondo vera, che l’astrologia era una delle forme della magia, una religione idolatrica che indirizzava i suoi omaggi ai demoni impiantati nei pianeti ed i decani dello zodiaco, la madre di tutte le pratiche di stregoneria applicate alla medicina, alla chimica o, per meglio dire, sparse come un’ossessione diabolica su tutte le vie aperte al pensiero ed all’attività umane. Ma nessuno riteneva la magia o l’astrologia pure chimere, e l’astrologia conservava, malgrado tutto, il prestigio che la scienza astronomica gli forniva con i suoi calcoli. I dottori ortodossi del Medio Evo non volevano esser sospetti di ignoranza proscrivendo una scienza che costituiva la gloria dei Bizantini e degli Arabi. Essi sopivano i propri scrupoli nell’opinione di mediazione che gli astri influivano sull’uomo, ma non potevano forzarne la volontà, opinione che implicava per forza di cose un’adesione formale al principio generatore dell’astrologia.
Ciò che ha ucciso l’astrologia non sono le argomentazioni di ogni sorta, filosofiche e teologiche, contro di lei dirette nel corso dei secoli. La filosofia le aveva funto da ausiliaria; i dogmi li aveva forzati ad adattarsi alla sua presenza (70). All’aurora dei tempi moderni, ella risorgeva più ardita che mai, fino a quando non ricevette il colpo mortale, un colpo che non era diretto contro di lei e che la colpisce di sbieco, con un’imprevista gravità. Fino a quando la scienza astronomica si era contentata di dilatare l’universo lasciando alla Terra la sua posizione centrale, le idee ingenue che avevano generato l’astrologia e che si erano saldate in un tutto compatto nella teoria del microcosmo, conservavano la forza persuasiva di una tradizione al contempo intelligibile e misteriosa, chiave dell’ignoto, depositaria dei segreti dell’avvenire. La geometria astrologica continuava a basare le sue costruzioni sulla sua base originaria, la Terra, senza dubbio sminuita come ruolo, ma rimasta al punto di convergenza di tutti gli influssi celesti. Una volta ridotta la Terra al rango di semplice pianeta lanciato nello spazio, la base stessa s’involava, tutta l’impalcatura crollava in un colpo. Di realmente incompatibile con l’astrologia non vi è che il sistema già proposto da Aristarco di Samo, ripreso e dimostrato poi da Copernico. L’incompatibilità è tale che non ha bisogno di essere espressa in forma logica. Essa si sente meglio ancora di quanto non si comprenda razionalmente. Il movimento della Terra ha rotto come fili di ragnatela tutti i legami immaginari che la collegavano agli astri – astri che parevano tributare alla Terra tutta la loro attenzione – e ciò che rimane, il concetto generale di attrazione, non sarebbe sufficiente a rinnovare tali legami neanche al più intrepido dei sofisti.
Ma idee che hanno fatto parte del senso comune per migliaia di anni non si lasciano eliminare in un giorno. La disfatta dell’astrologia fu ritardata dall’intervento di un’alleata che, difendendo l’antica concezione dell’universo nel nome dei testi sacri (71), faceva in sovrappiù gli interessi di gente che, in passato, era sempre stata tentata di colpir d’anatema. Interdicendo a Galileo, attraverso il Sant’Uffizio, di insegnare il movimento della Terra, la Chiesa obbediva a ciò che di più infallibile vi è in lei, l’istinto di conservazione. La fede religiosa non si sente a proprio agio che protetta, per così dire, sotto un cielo strettamente unito alla terra, e, benché la dignità del “giunco pensante” non sia logicamente legata al primato del pianeta su cui egli vive, sembra che egli sia in qualche modo meno qualificato ad essere il centro di un piano divino nel momento in cui si sa ospite su di un atomo e trasportato, con tutto il sistema solare, nel silenzio degli spazi infiniti.
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NOTE:
(22) Cicerone De Divin., II, 43
(23) Favorin., ap. Gell., XIV, 1, 23.
(24) Favorin., ap. Gell., XIV, 1, 24. La risposta che egli prevede e confuta: Magna sciunt, parva nesciunt, non è così cattiva. Tutto è scritto in cielo: ma si decifrano meglio i grossi caratteri che quelli piccoli.
(25) Gli astrologi indicavano: Qui mensis damnis, quae dentur tempora lucro (Giov. Satire, VI, 571) e le compilazioni astrologiche (per la maggior parte inedite) sono piene di ricette o “iniziative” (καταρχαί) per riuscire nelle imprese minori.
(26) Manil. Astron. IV, 107-118. Egli volge il fatalismo in consolazione per i poveri: il Destino, almeno lui, non si lascia corrompere (IV, 89 e sgg.).
(27) Tolom., Tetrab., I, 3.
(28) Non è forse inutile avvertire che il nome di theologi è stato usato all’inizio, segnatamente, dai cristiani (cf. Tertull. Ad nat. II, 1; Arnob. IV, 18, V. 100) per indicare i poeti e ierografi politeisti, ii, qui tehologi nominantur (Cic., Nat. Deor., III; 21, 53).
(29) Vedere Lobeck, Aglaophamus, p. 98-111, 224-226; i testi riuniti da G. Wolff, Porphirii de Philosophia ex oraculis haurienda, Beroli. 1865, e G. Kroll, De oraculis caldaicis (Bresl. Philol Abhandl. VII, I [1894], p. 1-76).
(30) Firmic., Mathes. I, 8, 21-30.
(31) Firmic., Mathes. II,. 28, 3.
(32) Maneth., Apotelesm., I, 196-207.
(33) Firmic., Mathes. I, 6, 14-15, 7 etc. Cf. i bei versi di Manilio (II, 105, 115-116) che Goethe sul registro di Brocken, il 4 settembre 1784:
Quis dubitet post haec hominem conjungere caelo?
Quiis caelo possit nisi caeli munere nosse,
Et reperire deum, nisi qui pars ipse deorum est?
(34) Cf. Ad. Lods, Le livre d’Énoch, frammento greco scoperto a Akhmim, etc., Paris 1895. R. H. Charles e W. R. Morfill, The book of the secrets of Enoch, translated from the Slavonic, Oxford, 1896. Il libro di Enoc era conosciuto, fino ad oggi (dal 1821) attraverso la versione etiopica. Si tratta di un assembramento di brani di differente datazione, anteriori e forse posteriori all’era cristiana.
(35) Α (νατολέ), Δ (ύσις), Μ (εσημδρία).
(36) II Cor., XII, 2-4.
(37) Coloss. I, 20.
(38) Efesini, VI, 12. Cf. III, 10.
(39) Luc., X, 18.
(40) Mulier amicta sole, et luna su pedibus ejus, et in capite ejus corona (Apocal., XII, 1), immagine conservata dall’iconografia cattolica per la Vergine Maria.
(41) Philosophum., VII,. 1, p. 361, Cruice.
(42) Op. cit. V, 2, p. 185-208, Cruice.
(43) Cf. J.-H. Kutz, Lehrb. D. Kirchengeschichte, § 26, 2.- I numeri astrologici ed in geni siderali, protettori dei mesi, giorni ed ore, hanno un gran peso nelle religioni orientali. Vi è stato uno scambio di influenze, azioni e reazioni, tra loro e l’astrologia.
(44) Vedi la ns. Histoire de la divination, t. I, pp. 92-104.
(45) È il testo della Genesi : Fiant luminaria in firmamento coeli… et sint in signa et tempora (I, 14, Cf. Psalm. CXXXV, 7-9), ed anche: docti a daemonibus (Hyeronim. In Esaiam, 19). San Giustino e Tertulliano li consideravano come maghi arabi: I Padri del IV secolo esitavano tra maghi della Persia e maghi di Caldea.
(46) Io. Chrys., Homil. III in Epist. Ad Titum
(47) Ignat. Epist. Ad Ephes., 19. Tertull. De Idolol., 9.
(48) Clem Alessandr. Excerpt. Ex Theodoto § 68-69. I teurghi, trovando che i loro incantesimi valevano bene il battesimo, dicevano altrettanto dei loro discepoli (Io. Lyd. Mens., II, 9) ed Arnobio (II, 62) canzonava in blocco tutti questi vanitosi personaggi.
(49) Io. Chrysost. Homil. VI in Math..
(50) Basil. Homil. XXV, p. 510. Io. Chrys. Loc. cit.. Anonym. Hermippus, I, 9, 51, p. 12 ed Krell et Viereck (Lips. 1895).
(51) Varrone riportava che Enea era stato condotto a Laurente dalla stella di Venere, la quale disparve quando vi fu arrivato (Serv. Aen. II, 801). Questo genere di miracolo non era affatto sconosciuto al tempo in cui scrivevano gli evangelisti.
(52) Anonym. Hermippus, I, 8, 48, p. 11 ed Kroll.
(53) Orig. ap. Euseb. Praep. Evang. VI, 11.
(54) Origene, partendo dai luminaria signa della Genesi, finiva col credere gli astri viventi, poiché il Salmista dice: laudate eum, sol et luna. Egli si domanda anche se essi non hanno peccato, visto che Giobbe dice: et stellae non sunt mundae in conspectu ejus, e se essi hanno preso parte alla redenzione, opinione che per S. Panfilo (Apolog. Pro Orig. 9) non è affatto eretica.
(55) Socrat. Hist. Eccl. II, 9. Sozomen. Hist. Eccl. III, 6.
(56) Athanas. Ap. Anal. Sacra, V, 1, p. 25, Pitra (Paris-Roma 1888).
(57) Io. Carol. Thilo, Eusebii Alexandrini Oratio Περί άστρονόμων e Cod Reg. Par. primum edita [Progr. Halae 1834] p. 19.
(58) Abbiamo inoltre il Katà eimarmenes di Gregorio di Nissa: il trattato omonimo del vescovo Diodoro di Tarso è perduto, salvo qualche frammento (ap. Phot. Cod. CCXXIII).
(59) Ephrem. Carmina Nisibena (in siriaco), LXXII, 16. Lo stesso, Isidoro di Siviglia, ( Orig. III, 70, 40).
(60) Vedere la memoria di Letronne, Des opinions cosmographiques dès Pères de l’Église, 1835 (Oeuvres choisies, II série, t. I, p. 382-414). Lattanzio (Inst. Div. III, 24) trova assurda la sfericità della terra: Diodoro di Tarso la confuta e S. Agostino difende chi vi crede.
(61) S. Agostino, Civ. Dei, V, 9. Egli giudica con ragione che un Dio che non conoscesse il futuro non sarebbe Dio. Secondo lui, Dio ha previsto tutto per tutta l’eternità, anche le nostre volizioni; ma noi rimaniamo liberi in tutti i casi in cui egli ha voluto e previsto che noi lo fossimo (ibid. V, 10). È questo libero arbitrio che egli oppone al fatalismo astrologico (De continent. 14), che presuppone una fatalità meccanica, inintelligente, immorale.
(62) Agostino, Confess. VII, 6.
(63) Jam etiam mathematicorum fallaces divinationes et impia delivramenta rejeceram (August., Confess., VII 6)
(64) Agostino, Civ. Dei, V, 2. Egli vuole dire in pratica che se tutto è uguale con il medesimo oroscopo, tutto deve essere differente con oroscopi diversi. Ma allora dei bambini nati dagli stessi genitori in tempi diversi non dovrebbero aver nulla in comune tra loro, neanche i genitori.
(65) Agostino, Civ. Dei, V, 5.
(66) Agostino, Civ. Dei, V, 7. Tolomeo aveva evitato questa contraddizione non occupandosi dei καταρχαί, metodo popolare, che egli stima senza dubbio al di sotto della dignità dei “matematici”.
(67) Agostino, Civ. Dei, V, 1.
(68) Così i Priscillanisti accomodavano l’astrologia; è soprattutto ad essi che pensa S. Agostino nell’attaccare l’astrologia.
(69) Egli ha cura di porre il libero arbitrio al riparo dall’influenza degli astri. È il solo punto che importa. Heuet, che ne sapeva abbastanza, dice di Origene che, se questo dottore credeva alla rivelazione dell’avvenire per mezzo degli astri, in eadem esset causa ac Apotelesmatici omnes et hodierni astrologiae patroni, quorum sententia, integra modo servetur libertas arbitrii, haereseos nota immunis est (p. Danielis Huetii, Origenariorum, lib. II, Queast. VIII, De astris, in Patrol. Migne, Origen. opp., tom. VII, p. 973-989).
(70) I trattati di astrologia del XVI secolo sono sovente dedicati a principi della Chiesa. Quello di Fr. Junctinus (Speculum Astrologiae, 2 vol. fol. Lugduni 1581), oltre ad una dedica al vescovo di Spira, è munito di una missiva molto umile ad Reverendissimos antistites a Reverendos Inquisitores haereticae pravitatis, di cui l’autore invoca il patrocinio.
(71) Bisogna riconoscere che i teologi d’allora interpretavano in modo irreprensibile, tra gli altri testi, quello del Salmista: Qui fundasti terram in stabilitatem suam, non inclinabitur in saeculum saeculi (Ps. civ. 5).