Arturo Magnocavallo
Ancora intorno all’alchimista Giuseppe Borri.
Avevo appena pubblicate in questo Archivio (1) le poche pagine intorno al Borri, che i lettori forse ricorderanno quando, per gentile indicazione del nostro illustre Presidente, mi fu dato d’acquistare da un libraio fiorentino alcuni fogli, che devono aver fatto parte di un codice di miscellanea del sec. XVII (2), e dai quali ho dedotta qualche altra notizia che parmi non inutile aggiungere a quelle da me già riferite.
Si tratta, con ogni probabilità, d’una breve relazione sulla vita e sul processo di questo curioso tipo di alchimista, non firmata né finita, e scritta, per non so quale personaggio, da chi aveva avuta occasione d’incontrare il B. nelle sue peregrinazioni fuori d’Italia, e di trovarsi poi presente all’abiura da esso pronunziata in Roma nel 1672. Si legge infatti al principio: «Vidde Roma li 25 di settembre passato [1672] un sì famoso spettacolo, che tutta può dirsi – per ciò concorse al destinato luogo. Abiurò il Borri i suoi errori pubblicamente nella Minerva, e perchè stimo che sia per riuscir grato a V. S. questo mio tal quale ragguaglio, però le dico…» di qui incomincia una biografia del B., nella prima parte della quale si narrano fatti che più o meno conosciamo. È invece notevole laddove si discorre delle gesta da lui compiute in terre straniere. Scrive l’anonimo corrispondente:
«Ritirossi per tanto il B. in Germania, appresso il serenissimo Arciduca di Inspruch, che si dilettava d’Alchimia; ma dopo dal medesimo licenziato, si rifugiò in Olanda, dove si trattenne alcuni anni, et io lo viddi in Amsterdam, sfarzoso e trionfante per così dire, e qui in Roma hora ho veduto humiliato e supplicante. Ivi manteneva carrozza, cameriere, staffieri, riceveva comunemente il titolo d’Eccellenza. Conferiva ad alcuni ricchi il suo secreto di far l’oro nuovo, e cavava dalle loro borse il vecchio. Visitava qualche infermo, prima supplicato per esser medico non di professione ma di riputazione: onde non accettava il pagamento ordinario, ma il regalo straordinario. I rimedii che egli adoprava, non erano Galenici ma empirici. Con tutto ciò, vedendo che a lungo tratto non potea mantenersi nell’alto posto, mutò consiglio, e dove per lo passato si poteva di esso verificare il detto di S. Girolamo, in proposito di un simile: Nobilis factus est in scelere, diede nel vile, perchè divenne ladro, conforme allora publicamente si discorse. E però vero che, ciò supposto, anche in questo genere fu tra i più qualificati, perchè fece un magnifico furto, facendosi prestare molte argenterie da varij Signorì e gioie da un ricco ebreo; poi sparì in modo tale, ch’ogni diligenza di perquisitione nello Stato, e di lettere anche in diligenza mandate fuori in altre Provincie, niente giovò. Dicono alcuni, ch’esso haveva forsi nella fantasia quel fatto degl’Israeliti, «che fattisi prestare molte cose pretiose dagli Egittij, se le portarono via. Hebbero pertanto questo di buono quei Signori, che allora furono sgabbati che il B. havesse il gran secreto, così lo chiamano i Professori, cioè di far l’oro; il qual secreto ne anche consta che giamai l’habbia havuto alcuno, o sia stato in rerum natura».
Del soggiorno del B. in Danimarca e di ciò che seguì fino al suo arresto nella Moravia, il corrispondente non ci dice nulla che ignorassimo; ma egli ebbe la ventura di assistere alla solenne abiura pronunziata il 25 settembre 1672, e così racconta l’avvenimento, di cui non trovai finora, nelle altre relazioni dà me lette, che un rapido e scolorito cenno:
«Viddesi la gran Chiesa di S. Maria sopra la Minerva, che dicono superare in grandezza ogn’altra di Roma, fuor che quella di S. Pietro, distinta in tre partì, ogn’una delle quali non communicava coll’altre; la prima era dall’ingresso delle tre porte nel frontespitio sino a un terzo della lunghezza, dove trovavasi una divisione d’un tavolato, alto più che una statua d’huomo, che a scorrendo da un lato della Chiesa all’altro, impediva il Popolo, che qui fusse, che non potesse avanzar più oltre. Il restante della navata di mezzo sino alla Crociata, era chiuso con un simil tavolato, et una sola porticella riteneva nella parte di mezzo di rimpetto all’Altar maggiore, per la qual potessero entrare i Signori Cardinali, Prelati, Officiali del S. Officio et altri Signori cospicui. Vicino al pergamo, a due o tre passi verso le porte della Chiesa, era stato eretto un Palco libero e senza sponda alcuna, alto più che i tavolati sopradetti, affinchè ben fusse da tutti veduto il penitente: tutto il restante della Chiesa, cioè le due navate laterali corrispondenti al recinto dei Signori Cardinali, era riservato per li Signori qualificati e per chi pareva ai Ministri del S. Offitio, che gli intromettevano per la porta dell’orto, custodita dalle guardie di Palazzo. Due hore avanti al levar del sole, la Domenica mattina, fu condotto il B. in carrozza serrata dalle carceri del S. Offìtio, accompagnato da una squadra di cento venti sbirri al convento della Minerva, e fattolo entrare in sacrestia, et indi nel piccolo oratorio determinato per l’oratione dei sacerdoti avanti e dopo la messa, ivi fu trattenuto sino all’hora della funtione: venuto il tempo del pranzo, hebbe lauta mensa, ma esso non prese altro che un par d’ova: discorreva senza titubar in conto alcuno, però modestamente disse che volentieri faceva quest’atto publico dell’abiuratione, perchè havendo tanto scandalizzato e si publicamente il mondo con la sua vita passata, era ben anche il dovere che publicamente ne facesse la detestatione e la penitenza.
«Circa le 19 hore arrivò la compagnia de Svizzeri di S. S.tà a custodire la porta dell’orto per lo quale dovevano entrare gli Em.mi, i Prelati e altri privilegiati, e per maggior cautela ci venne anche una compagnia de Moschettieri, i quali in poca distanza postisi in ordine, tennero colla loro presenza il popolo nel dovuto rispetto, et in oltre la compagnia de Cavalleggieri di S. S.tà teneva i posti attorno la Chiesa e Convento. Forniti d’entrare in cento tutti i Signori Cardinali, circa le 21 hore, si diede principio alla funtione. In Chiesa non v’era persona alcuna, né la mattina era stata offitiata. Il primo che vi entrasse fu il B. condottovi dal Capitan Bargello, accompagnato da alcuni sbirri, e lo fece entrare in un gabinetto di tavole fatto a posta sotto il Palco. Entrarono gli Em.mi per la sua porticella custodita da parte della compagnia de Svizzeri nel preparato recinto, e si assentarono in numero di 25, buona parte della S. Congr.e del S. Offitio, in lunga linea sopra alti banconi di rimpetto al Pulpito e Palco; altretanto numero de Prelati in circa sedevano nel medesimo recinto subito dentro la porticella, così a mano destra come sinistra, e guardavano verso la facciata della Chiesa. Gli offitiali et altri Signori riempivano il resto, e così le due navate corrispondenti al recinto erano già piene.
Fra’ tanto la Piazza della Minerva era tutta piena di popolo, che impatiente aspettava, che si aprissero le porte; le quali aperte, udissi quasi uno strepitoso torrente di popolo, che in un istante tutta quella parte riempi, né bastando, ne restava ancor parte fuori nella Piazza, contentandosi di vedere di là quel poco che potesse. Montarono allora sopra al Pulpito due Padri Domenicani, i quali tra tutti scelti per haver buona e sonora voce, portarono seco il Processo del B. per leggerlo. Nell’istesso istante fu fatto uscir dal gabinetto il B., et accompagnato dal Bargello cominciò a salir sopra la scaletta preparata: io che n’ero vicino a pochi passi, lo viddi nel salire, e conobbi la sua ciera mutata assai da quella che viddi già in Olanda, sì per i travagli passati e presenti, come per l’attuai agitatione di mente in dover comparire alla presenza d’un mondo, per così dire, legato colle manette di ferro postegli all’uscir di prigione, e per udirsi rinfacciare tutti i suoi misfatti già da sé confessati e più volte confermati. Che se ogni eresiarca ha, per fondamento e radice degli altri suoi vizij, la superbia, mentre crede più a sé stesso che a tutta la Chiesa, dunque la maggior confusione e crepacuore che un tale possa bavere, sarà il vedersi a tal segno vilipeso. Haveva il B. il volto pallido, i capelli canuti sopra l’età di 45 anni in circa, e può credersi ancora che ciò fusse accresciuto oltre dalla causa assegnata, dal dubio ch’egli bave va se doveva essere in quest’attione condannato alla morte, perché effettivamente non ne sapeva la sentenza. Salito sopra al Palco fece due reverenze molto gentilmente ai Signori Cardinali, poi si accomodò in piedi per servar quel posto durante tutta la funtione, che non fu meno di due bore e mezza. Gli diede il Bargello una candela accesa alla mano, et allora udissi ad, alta voce, chiaro e distintamente proclamare il Processo da uno de i due Religiosi in pulpito, il quale stancato, l’altro subentrava, e cosi a vicenda sino al fine.
«Circa la metà accadde uno svenimento al B.; però con l’aceto a tal’effetto preparato gli toccò il volto il Bargello, e da poi sino al fine un caporale lo sostenne, reggendosi nondimeno esso assai commodamente. Nell’ultimo fu letta la sentenza et allhora il popolo servò un alto silentio.
«Udissi dire: — Tu sei stato eretico, perché stando in quelle parti hai scritto due lettere di tuo proprio pugno a questo Tribunale, nelle quali ti humiliavi riconoscendo e confessando il tuo errore, e domandandone humilmente perdono, sebene volessi patteggiare circa del modo con cui saresti trattato. Et in oltre tu non hai mantenuto o predicato i tuoi errori in quelle parti, nelle quali hai dimorato (3), né meno hai predicato o discorso contro la Fede Cattolica; però ti assolviamo dalla scommunica maggiore, nella quale sei incorso, imponendoti per penitenza salutare che ogni giorno, durante il tempo di tua vita reciti una volta il simbolo Apostolico… – ecc.».
Qui segue una particolareggiata esposizione della condanna, a noi già nota; continua poscia il corrispondente:
«È credibile che il B. all’udir tal sentenza restasse consolato, ben potendosi imaginare che, essendo stato già condannato ad esser abbrugiato vivo, e la sentenza essendo stata esseguita nella sua statua, dovesse egli haver l’istesso fine. Nondimeno si crede che questo santo Tribunale del S. Offitio, che è il più terribile insieme et il più mite e pietoso del mondo, secondo l’ostinatione e pentimento dei Rei, si sia piegato a condonare la morte al B., dalle preaccennate cause, et altre a noi ignote. Fatto scender allora dal Palco il B., che prima replicò le due riverenze ai Signori Cardinali, se n’andò alla presenza del Rev. Padre a Commissario del S. Offitio, perchè con tal conditione gl’era stata promessa l’assolutione dalla scommunica, et inginocchiatosi avanti di esso, recitò a mente il Salmo penitentiale Miserere mei Deus, durante il quale il Padre Rev.mo che stava sedendo con la stola, berretta, e bacchetta alla mano, andava percotendo il penitente hora sopra una spalla, hora sopra l’altra, e furono vedute cascargli le lacrime dagli occhi nell’istesso recitar il Salmo, onde mosse a compassione gli astanti: poi lesse la formola dell’abiura, e proferita la formola dell’assolutione, il Padre levossi di sedia et abbracciò teneramente il penitente, accogliendolo di nuovo nel seno della S. Madre Chiesa, dalla quale questo figlio prodigo si era tanto allontanato. Con tutto ciò sogliono le anime grandi, applicandosi al male riuscir pessime, et al bene ottime. Con altretanto buon affetto abbracciarono pure il penitente alcuni Prelati».
La relazione continua con altre considerazioni morali, che qui non mette conto di riferire, e si arresta alle parole: et il simile pur soleva dire S. Francesco…, alle quali non so che intendesse far seguire l’anonimo corrispondente.
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Alla cortesia del chiarissimo e dotto ing. Motta, che le trascrisse per me, debbo le seguenti brevi lettere, tre del B., e una in cui si parla di lui: questi documenti inediti mostrano chiaramente che l’incorreggibile alchimista godeva buonissima fama come medico assai valente, e che, uscendo egli da una nobile famiglia milanese, conservava, anche rinchiuso in Castel S. Angelo, rapporti di qualche amicizia con una delle più illustri e nobili famiglie di Milano.
Al marchese Alessandro Trivulzio, che aveva ordinato si consultasse il Borri sulla malattia d’una sua figliola, così scriveva chi doveva eseguire tale incarico:
«Ill.mo Sig.r mio Padron Colendissimo, (4)
In esecutione de’ comandamenti di V. S. Ill.ma ho procurata et ho ottenuta l’Erba di S. Bibiana, e questa sira si consegna al Corriere dentro una scatoletta, nella quale sarà anche acclusa la nota del modo che deve tenersi a prendere la detta Erba; la quale essendo buona per tutti li mali, conforme al detto dell’Eremita che ne ten cura, spero che sia per giovare anche alla di lei figlia. Prima di parlare col Signor Borri, in proposito del male della medesima, stimo di suggerire a V. S. Ill.ma parermi espediente ch’Ella mi facci capitare un’esatta relazione fatta dal Medico, che ha la cura dell’inferma, sopra la qualità e circostanze del male, con quel più, che allo stesso Medico parerà da considerarsi, acciocché il Sig. Borri non habbia da dare un rimedio o un consiglio a caso. Attenderò in qualunque maniera V. S. Ill.ma voglia che io la serva, dispiacendomi in estremo che le mie debolezze abbiano ad essere da Lei esercitate in congiuntura sifatta; e le bacio riverentemente le mani.
Roma, 24 dicembre 1689.
Di V. S. Ill.ma
devotittimo e obbligat.mo servitore vero
Giuseppe Paravicino.
Sig. Marchese Alessandro Trivulzio
Milano».
Ed ecco ora tre lettere del B., del 1694-5, a Isabella Trivulzio-Pecchio, che colla figlia Maddalena (5) si trovava in quell’anno in Roma, pochi mesi prima della morte del B. stesso: queste lettere sono forse le ultime scritte dall’alchimista milanese.
I.
«Franc.o Gios.o Borri è quello che riceve l’onore stimatissimo delli saluti ella Sig.ra D. Isabella Trìvulsi, e gli ne rende cordialissime gratie, rammaricandosi infinitamente di non potergli insegnare altra strada, per compire la consolatione di vederla, giacché non potrà parlargli, che quella di ricorrere a Monsig.r Thesoriere, chiedendogli gratie di poter veder Castello, senza però nominare che voglia parlargli, poiché gl’é sopragionta questa disgratia, dopo vintiquattro anni di prigione (6), senza che Egli possa saperne la causa, perchè prima era visitato da tutti quelli che volevano. Nel rimanente Egli ha ottima memoria del Sig.r Christoreto Professore di matematica in Pavia, che crede ancor vivente; si ricorda di tutte le allegrezze puerili che passavano tra l’una e l’altra famiglia, e se vale a servirla in qual si sia cosa che da Lui dipenda, attenderà per singolari gratie e favori i di Lei comandi».
(A tergo) «Alla Ill.ma Sig.ra Padrona Col.ma La Sig.ra Anna Isabella Trivulsi.»
II.
«Sig.ra Padrona osservandissima,
Rendo humilissime gratie a V. S. per il zelo che ha di consolarmi di questo longhissimo carcere, nel quale se fussi stato premonito della venuta di V. S. e dell’Ecc.ma Sua Figlia, non haverei mancato di riverire almeno ambidue con i sguardi come faccio presentemente con tutto l’animo supplicandola de suoi ambiti comandamenti, e baziandole devotamente le mani resto
Di V. S.
Devotissimo e Obbligatissimo Servitore
Francesco Gios. Borri.
(A tergo) «Alla Sig.ra D. Anna Isabella Trivulzia Pecchia
Sue Mani».
(con sigillo impresso in ceralacca rosso e collo stemma Borri)
III.
«Ill.ma Sig.ra e Padrona mia Osserv.ma,
M Quanto volontieri haverei veduto l’affettuoso complimento che V. S. Ill.ma si degna farmi per le correnti feste accompanato da qualche suo comando come di cuore ambisco. Può ben immaginarsi V. S. Ill.ma se io mi sia gravemente dolsuto dell’altrui rusticità che m’impedì di fargli humilissima riverenza nell’ultima visita che fece in questo Castello accompagnata dal’Ecc.ma Sua Sig.ra Figlia; ma persona alcuna me ne fece motto.
Io continuo per la Dio gratia secondo la grave mia età in buona salute benché attorniato da mille rammarichi. Con quest’occasione faccio humilissima riverenza alla Sig.ra Sua Figlia et all’Ill.mo Sig. Christoredo suo fratello, mentre inchinato le faccio ora divotissima riverenza.
Roma, Castel S. Angelo, primo gennaio 1695.
Di V. S. Ill.ma Humiliatissimo obbligatissimo servitore vero
Francesco Gios. Borri.
Ill.ma Sig.ma Trivulsi
Milano».
L’altrui rusticità, di cui qui si duole il B., era effetto degli ordini severi di Innocenzo XII, che più non volle permettergli, come sappiamo, di uscire dal Castello (7).
Arturo Magnocavallo.
NOTE:
(1) Cfr. in quest’Archivio, XXXVI, 1902, p. 381 e sg.
(2) I foll., sono numerati; il primo reca il num. 21, e seguitano progressivamente.
(3) Non m’apposi male, quando, contro l’opinione del De Castro, sostenni nel mio precedente articolo sul B. che la relativa mitezza colla quale fu questi giudicato nel 167 derivò soprattutto dalla condotta che egli tenne durante le sue peregrinazioni in Europa, non avendo più insistito nella propaganda per la sua confusa riforma religiosa, ma soltanto coltivato lo studio delle scienze mediche e dell’alchimia.
(4) Tanto questa, come le tre lettere del B., si conservano nella Bibl. Trivulziana (Classe: Autografi).
(5) Isabella Pecchie era moglie al capitano Carlo Trivulzio (t 1689); la figlia Maddalena si maritò a Giovanni Moles di Napoli, duca di Parete (Cfr. Lita, Fam. Trivulzio, tav. I).
(6) Il B. fu fatto prigione nel 1670: scrisse dunque queste lettere tra il 1694-5.
(7) Cfr. articolo cit.