Pagina on-line dal 27/04/2012

 

Cesare Guasti

Figlio del libraio e stampatore Ranieri Guasti e di Rosa Sacchi, Cesare Guasti venne alla luce a Prato, il 4 settembre 1822. La famiglia è di solide tradizioni cattoliche (due zii materni ed uno paterno erano sacerdoti, ed alla vita consacrata si dedicheranno anche due sorelle di Cesare) studiò, dopo il corso elementare, per sei anni come allievo esterno al Collegio Cicognini (per iniziativa del rettore Giuseppe Silvestri, canonico di tendenze liberali cui il Guasti, nel 1874, dedicherà anche una dettagliata biografia). L’istituzione era stata fondata nel XVII secolo dai Gesuiti; ivi aveva studiato il patriota e mazziniano Giuseppe Mazzoni e, in seguito, in tempi diversi studieranno Gabriele D’Annunzio e Curzio Malaparte. Qui il giovane Guasti riceverà una vasta e solida preparazione umanistica e filologica, che formerà la base per il suo successivo sviluppo intellettuale. Al Cicognini, comunque, Cesare non consegue alcun diploma, ed intorno al 1840 inizia a lavorare alla stamperia paterna come correttore di bozze. Tuttavia non interrompe gli studi, che continua in forma privata, iniziando anche la frequentazione del salotto letterario dell’avvocato Benini, amico del Tommaseo; qui viene a contatto col ricco ambiente culturale fiorentino, permeato di liberalismo e di aspirazioni politiche risorgimentali. Ad appena venti anni egli diviene terziario francescano, e pubblica la traduzione italiana dell’Histoire di François d’Assise di Chauvin de Malan. Nel 1844 cura la Bibliografia Pratese (che esce anonima), una attenta e completa raccolta di fonti per la storia locale. L’interesse per la patria natia è dominante, e, a partire dal 1846, egli è fra i redattori del Calendario Pratese, Memorie e studi di cose patrie, un periodico che egli finanzia con altri sedici redattori, che si spartiscono le 500 copie tirate, che diviene espressione di un giobertismo moderato e dalle tinte evidentemente cattoliche. Al Calendario egli contribuisce con una serie di saggi di storia soprattutto locale. Sempre nel 1846 pubblica con C. Basi il volgarizzamento delle Metamorfosi di Ovidio di Arrigo Simintendi (XIV sec.).
I sommovimenti del ’48 lo vedono in un primo momento favorevole alle tendenze liberali che si andavano esprimendo, poi decisamente avverso alla corrente democratica dominante nel governo Montanelli. Al ritorno al potere del Granduca Leopoldo II, egli viene incaricato come “commesso archivista” presso l’Opera di S. Maria del Fiore. È nell’ambito dell’archivistica che il Guasti percorrerà la sua carriera, apportando contributi storici e di studio documentale che lo porteranno successivamente, prima, nel 1852, ad assumere a Firenze l’incarico di assistente del soprintendente del nascente Archivio centrale dello Stato Toscano (alloggiato negli Uffizi), poi, a partire dal 1874, ad assumere in prima persona la soprintendenza dell’archivio succedendo al Bonaini. La sua attività archivistica lo vedrà dapprima impegnato nella sistemazione degli archivi di Lucca, Siena e Pisa, poi, nel 1866, impegnato nell’ispezione degli archivi dell’Emilia e, a partire dal 1870, membro della commissione per la riorganizzazione degli ordinamenti degli Archivi di Stato. Nel frattempo, già socio dal 1846 dell’Accademia Colombaria, nel 1853 viene ricevuto Accademico della Crusca. Lo stesso anno sposerà Annunziata Becherini da cui avrà sei figli (solo quattro, tuttavia, sopravvissuti). A partire dall’anno successivo è tra i redattori dell’Archivio Storico Italiano. I suoi contributi storiografici risentono della lezione muratoriana, e, del resto, il Guasti, insieme ad altri collaboratori dell’Archivio, non manca di omaggiare il maestro del secolo precedente pubblicando, proprio sulle pagine dell’Archivio, la raccolta delle Lettere di L. A. Muratori scritte a’ Toscani dal 1695 al 1749 raccolte e annotate. Dal 1874 egli diverrà segretario dell’Accademia della Crusca, ed in questa veste è per anni impegnato alla redazione dei primi cinque volumi del Dizionario
Nel frattempo, nel 1859, a seguito della Seconda Guerra d’Indipendenza, il Granducato di Toscana passa sotto il controllo italiano, ed il Guasti assiste alla nuova situazione politica, non certo favorevole alla Chiesa, con preoccupazione. Un anno dopo, a seguito della perdita della moglie, egli si ritirerà, dopo aver affidato i suoi quattro figli alle cure della cognata Bianca, in meditazione presso il convento francescano dell’Incontro presso Firenze. Da quest’esperienza trarrà ulteriore forza per la sua vita ascetica e spirituale. Gli anni dal 1860 alla morte – avvenuta a Firenze nel 1889 – sono quelli in cui più feconda è la mole degli scritti pubblicati. Dalle pagine dell’Archivio il Guasti si impegnerà, tra le altre cose, in una battaglia di riabilitazione della figura di Gerolamo Savonarola, che egli ingiustamente considerava tacciato di eresia, pubblicando, in edizioni debitamente commentate, sia, nel 1863, l’Officio  recitato in onore del Savonarola di suoi seguaci, sia le Poesie (tratte dal codice autografo) del frate ferrarese. La polemica che ne sorse coinvolse, in contrapposizione al guasti,  autori come Pasquale Villari e riviste come Civiltà Cattolica.
Da un punto di vista politico il Guasti partirà, come abbiamo visto, dal moderato liberalismo cattolico giorbertiano. Tuttavia mai fu tentato dal neoguelfismo giobertiano, ed anzi mai partecipò ad alcuna associazione politica di matrice cattolica e neoguelfa. È anzi noto il suo disprezzo per il potere temporale della Chiesa, che egli considerava una profanazione della missione spirituale della Cattedra di Pietro. Sotto quest’ottica, egli fu propugnatore di una politica conciliarista, che cercava la ricomposizione e la mediazione tra stato e chiesa, senza mai paventare l’ingerenza di un partito di espressione cattolica.
Nel 1937, in relazione all’esercizio eroico delle virtù che contraddistinse la vita del Guasti, fu aperto il processo di canonizzazione, tutt’ora in corso; nel 1991, la Chiesa gli conferisce il titolo di Venerabile, presupposto alla beatificazione.     
Gli scritti del Guasti sono raccolti nei sette volumi delle Opere (Prato-Firenze, 1894-1912). Imponente è la raccolta, in 11 voll., dei Carteggi (Olschki, Firenze 1970-1987).
Su Cesare Guasti e sulla sua copiosa produzione saggistica, per ogni approfondimento è disponibile on-line la ricca voce del Dizionario biografico degli Italiani della Treccani, curata  da Z. Ciuffoletti
http://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-guasti_(Dizionario-Biografico)/
Wikipedia dedica al Guasti una apposita pagina:
http://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Guasti
Il codice alchemico plumbeo di cui si occupa il Guasti è uno dei due conosciuti e studiati in Italia. L’altro è quello appartenente alla biblioteca del tipografo ed editore Scipione Lapi (1847-1903) descritto in una pubblicazione del 1910 (1) curata dal tipografo e studioso Angelo Marinelli. Giovanni Carbonelli ritornerà sui due codici in Sulle fonti storiche della chimica e dell’alchimia in Italia  (Serono, Roma 1925, pp. 15-18, ristampa a nostra cura per le edizioni La Finestra, Lavis 2003), spostando la datazione che sia il Guasti che il Marinelli propongono per i codici rispettivamente studiati (XV sec.) alla prima metà del XVI, sulla base del tipo di carattere usato. Un ulteriore contributo sull’argomento sarà portato poi da Arturo Reghini (con lo pseudonimo di Pietro Negri) dalle pagine di UR (2). Il Reghini, con ogni evidenza ben più aduso alla letteratura alchemica del Guasti o del Marinelli, apporta decisive considerazioni che spostano ulteriormente in avanti la datazione proposta dai due autori. Basandosi sull’identificazione degli archetipi del materiale iconografico e dei diagrammi simbolici presentati dai testi, Reghini ipotizza una datazione alla prima metà del XVII secolo per il codice del Marinelli, e di appena poco antecedente per quello del Guasti. Le considerazioni dell’esoterista neopitagorico (3) al riguardo delle datazioni proposte vanno ritenute fondate ed esatte, per quel che ne sappiamo. Altro appunto del Reghini, rispetto al saggio del Guasti, riguarda quell’Ambasagar sul quale il Guasti confessa di non essere riuscito a rinvenire alcuna notizia. Il confronto col codice del Lapi sostituisce invece ad ambasagar il mitico fabbro biblico Tubalchain, che, a partire dal XVI secolo, associato come etimo, per assonanza, al dio Vulcano, sarà identificato come padre fondatore della scienza alchemica. Reghini osserva poi come tutta una serie di parole ricorrenti nel trattato (ambasagar, vitriolum, antimonio, Tubalchain) siano tutte di nove lettere, suggerendo un collegamento con l’antichissima tradizione alchemica che vede associato alla materia prima alchimistica proprio un nome di nove lettere (4). 
 
Il testo che presentiamo in questa sede occupa le pp. 90-102 del terzo vol. delle Opere (Rapporti ed elogi accademici, parte prima, Prato 1896). Per la parziale illeggibilità della copia delle Opere da cui trascriviamo (un difetto di stampa dell’originale a p. 96), due citazioni di Dioscoride in nota, in greco antico, comunque inessenziali, non sono state trascritte. Per il resto il testo è integrale. L’originale può comunque essere consultato in versione digitalizzata sul sito del progetto Gallica della BNF all’indirizzo:
http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k637256.r=.langFR
 

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NOTE:
(1) Un libretto di alchimia inciso su lamine di piombo nel secolo XIV conservato nella biblioteca del fu prof. comm. Scipione Lapi. Pubblicato con introduzione, note e 13 facsimili de Angelo Marinelli, con prefazione del prof. Cesare Annibaldi (Lapi, città di Castello 1910).
(2) Il lavoro sarà poi incluso nella raccolta curata da Evola, Introduzione alla magia quale scienza dell’Io, ed. Bocca, 1955, poi ristampata nel 1987 da Melita (p. 309 – 334). 
(3) Tra le altre cose, Reghini sottolinea come le lettere inscritte all’interno ed intorno al triangolo equilatero descritto dal Guasti, che lo studioso pratese (come anche il Carbonelli) lascia inspiegate, formano la parola antimonio. 
(4) Traccia di questa antichissima tradizione è ad esempio nei frequenti riferimenti ad un noto indovinello, citato in una versione anche dal Reghini nell’art. cit.:
 
Ho nove lettere e quattro sillabe: comprendimi
le prime tre sillabe hanno ciascuna due lettere
la sillaba rimanente contiene le altre lettere, e cinque sono consonanti
del numero complessivo le centinaia sono due volte otto
e tre volte tre decadi, con sette unità: conosci che sono
e non sarai più profano alla sapienza che è con me

Questo enigma alessandrino, risalente al II sec., è tratto dagli Oracoli Sibillini, ed è uno degli enigmi che la tradizione alchemica ed ermetica ha più lungamente commentato. Commentari alchemici all’enigma sibillino si trovano infatti nelle opere di Olimpiodoro, di Stefano D’Alessandria, di Cardano e di Leibnitz. Secondo questi ultimi, la soluzione dell’indovinello, da loro conosciuto attraverso le opere di Stefano d’Alessandria, sarebbe arsenicon, ma altre soluzioni proposte ci parlano di Zoes Bythos, l’abisso della vita, di Theos Soter, il Dio Salvatore, di phaosphoros (Vedi M. Berthelot, Les Origines de l’Alchimie, Paris 1885 pag. 136).

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Di un codice plumbeo contenente alcune ricette d’alchimia che si conserva nell’Archivio Diplomatico Fiorentino (*)
Cesare Guasti

Nel decorso mese di settembre venivano offerte in vendita alla Soprintendenza generale degli archivi nove tavolette di piombo unite insieme a foggia di libro, e scritte per la massima parte d’ignoti caratteri. Avutone il parere del prof. Migliarini dotto conservatore delle antichità  nella pubblica galleria, e nostro collega, credé la Soprintendenza di doverne fare l’acquisto, affinché l’archivio diplomatico, che possiede scritture in tavolette cerate, in foglie e scorze d’albero, in papiri, in membrane, in carte di varia specie, ne avesse almeno da mostrare una in metallo; e affinché gli alunni della nostra scuola paleografica potessero avere sott’occhio uno di quei monumenti, che, per essere molto rari, anche raramente si trovano descritti nelle opere diplomatiche. Volendo parlare a voi, dotti colleghi, di queste singolari tavolette, mi sento sciolto dall’obbligo di mostrare, con facile erudizione, come fosse antichissimo l’uso di scrivere sopra i metalli. Voi sapete come Giobbe volesse scolpita in lastra di piombo (1) la sua viva fede nel Riparatore dell’uman genere e la sua forte speranza nella risurrezione degli uomini. In lamine di metallo si scrissero i versi dei poeti; essendo fama che nel tempio delle Muse in Beozia esistessero scritte sul piombo le opere di Esiodo; si scrissero i patti fra le nazioni, come il primo trattato dei Romani coi Cartaginesi, che Polibio vide nel tempio di Giove Capitolino inciso nel rame; si scrissero le leggi, come ce ne fanno testimonianza le famose tavole Eugubine, e le Piacentine illustrate da Anton Lodovico Muratori; si scrissero i decreti, i senatusconsulti, i rescritti imperiali; come ne avverte il Maffei che descrisse, illustrò e diede in esatto disegno le due tavolette metalliche che contenevano l’onesta missione conceduta da Galba, cioé a dire un vero diploma imperiale. Lo che spiega egregiamente come Temistio nella quarta delle sue orazioni potesse chiamare i diplomi degl’Imperatori libretti fabrefatti o sia lavorati a martello (δίλτοις σφυρήλατοις).
Le due lamine dell’onesta missione, congiunte assieme per tre anelli di filo di rame, ci davano la prima idea di un codicetto metallico. Davacela anche migliore il libro plumbeo del Museo Kircheriano di cui il Bonanno ci esibì la descrizione e il disegno. Una teca di piombo fatta a foggia di libro, chiude sette lamine dello stesso metallo, in cui diversi caratteri presi dagli alfabeti degli Ebrei, de’ Greci, degli Etruschi e de’ Latini formano parole ignote eziandio ai peritissimi di quelle lingue. Capriccio strano che quei valenti illustratori spiegarono col riporre questo libro fra i talismani; e perché erasi ritrovato in un antico sarcofago, opportunamente ricordavasi da loro l’uso de’ gentili di riporre con le ceneri de’ morti, a placarne i Mani o a cacciarne le dimonia, quelle che Tacito chiamò carmina et devotiones (2)
E non diversa sentenza verrebbe fatto di pronunziare a chi ponga gli occhi sopra il nostro codicetto, senz’altro studiarlo. Eguale nelle dimensioni dell’altezza, ma alquanto più largo del libro plumbeo Kircheriano, non ha come quello custodia; ma ad un mezzo bastoncello di piombo sono raccomandate le lamine, forate in due punti, per via di due cordicelle, che vennero sostituite all’antico legame. Una linea incavata ricorre per i quattro margini in ciascuna pagina; e ciascuna pagina porta da un lato nel margine superiore il proprio numero in cifre romane, fra le quali sono notabili i numeri X e V; il primo formato da due V, o piuttosto da due omega maiuscoli, attaccati insieme nel punto dove curvano; il secondo da un V o da un omega rovesciato. Così gli Etruschi (a osservazione del nostro prof. Migliarini) per formare il numero cinque presero la parte inferiore del dieci latino.
La prima pagina è scritta in maiuscole, a cui i paleografi assegnerebbero l’età almeno di cinque secoli: e simili maiuscole ricorrono alle pagine 2, 4, 6, 7, 8, 9, 10, 12, e 18; ma, tranne alla 10 e alla 12, pochissime. Il rimanente è scritto in nitidi e ben profondati caratteri, che peraltro non sapresti dire a qual linguaggio appartengano.
Eccettuo l’i, il k, l’o, l’æ, schiettamente latini.
Vi troviamo l’O grande de’ Greci (ω), un che di simile all’η (ita) greco, o al zeta nostro; ma questi segni non rispondono a quelle lettere. Insomma, alla vista di caratteri così enigmatici, fra i quali di tratto in tratto non mancano segni simbolici, noi saremmo stati disposti a seguitare l’esempio degli illustratori kircheriani, e a collocare anche queste tavolette fra i monumenti dell’antica superstizione.
Ma esaminando più attentamente queste lamine, trovammo alla pag. 18 gli stessi caratteri disposti in quattro colonne, sopravi siffatte parole.

HIC EST VIA VERITATIS

Persuasi che qui stesse la via della verità, cioè la chiave del nuovo alfabeto, provammo a dare a ciascun carattere il valore di una delle nostre lettere; e l’esperimento riuscì alla prima. Il nostro plumbeo codicetto contiene, o signori, un’operetta di alchimia; cioè un documento degli errori fra i quali si ravvolse per tanti secoli la scienza delle cose naturali.
Non ignota ai più antichi popoli, fu dai greci appellata scienza sacra (έπιστημη ίερά) e arte divina e sacra (τέχνη τεία καί ίερά ). Nel lessico di Suida si trova la voce χημεία già bell’e formata (3) e definita preparazione d’argento e d’oro: il quale Suida (4) opinò che

“que’ gloriosi che passaro a Colco” (5)

non ve ne riportassero veramente un vello d’oro, ma sì un codice membranaceo in cui stava riposto il segreto di far oro mediante la chimica. L’iniziato nell’arte sacra era persuaso di poter fare in piccolo, nuovo demiurgo (6) ciò che il Creatore aveva fatto in grande (7). Né la sua scienza si limitava allo studio de’ metalli: la grande opera (così la chiamavano) poteva dirsi la scienza dell’universo, circondata di simboli e di misteri. I numeri, che tanta parte hanno nelle dottrine pittagoriche, e le lettere variamente combinate, ebbero grandissimo valore per l’alchimista. Il nome di Dio scritto nei caratteri ebraici, greci e latini, o con i caratteri di quelle lingue misti fra loro, e racchiuso in un triangolo equilatero, poteva operare la trasformazione de’ metalli, comandare ai quattro elementi: perloché agli adepti non era lecito pronunziarlo sotto pene gravissime. Alcune piante, i segni dello zodiaco (sorella l’astrologia dell’alchimia), il latte, l’uovo, il sangue erano adoperati nell’arte sacra.  Ma il principale elemento de’ metalli era per gli alchimisti il mercurio, il quale secondo alcuni (scriveva Dioscoride) (8) esiste essenzialmente come parte costituente (καθ’ έαυτήν) nei metalli. Oggetto poi principale della grande opera era il ritrovamento della pietra filosofale (λιθος φιλοςόφων) da cui ripromettevansi ricchezza salute e beatitudine. La pietra filosofale era per alcuni il solfo, cinabro l’arsenico ecc.; per altri un che di soprannaturale che doveva ottenersi sotto certe condizioni fisiche, misteriose: ma tutti convenivano che questa sostanza, detta pietra filosofale, avesse la virtù di trasformare i metalli imperfetti in oro o in argento, e di far l’uomo dovizioso. Quindi, perché la ricchezza fosse goduta lungamente, bisognò trovare una pietra filosofale che bastasse a guarire le infermità e a prolungare la vita; e si disse elixir filosofale, panacea universale; sostanza liquida in cui entrava il mercurio e l’oro fatto potabile. Ma eravamo tuttavia mortali; né questa felicità saziava i desideri dello spirito, quando pur fosse giunta a sodisfare i bisogni e le voluttà del corpo.
L’adepto cercò una terza pietra filosofale, tentando di identificarsi con l’anima del mondo, per godere anticipatamente della vita sovrannaturale, nella comunione de’ demoni, degli angeli e degli spiriti. «Non crediate peraltro, dice saggiamente il signor Hoefer, che queste tre categorie siano sempre ben distinte nelle opere degli adepti (9). Il cielo e la terra si confondono nel laberinto delle dottrine neoplatoniche; laberinto in cui la ragione e l’immaginazione si smarriscono».
E questa mescolanza si riscontra pure nell’operetta che con misteriosi caratteri sta registrata nel nostro plumbeo libretto   Facciamone un breve esame. Nella prima pagina si legge in caratteri, che i paleografi chiamano del secondo periodo, o volgarmente detti gotici, e in lingua che non oso chiamare latina:

Benedicta lapidem
prima materia est.

E ne segue un triangolo equilatero sparso dentro e fuori di lettere che io non basto a decifrare. Certo è, che questo triangolo con le sue misteriose cifre ci rappresenta la prima materia su cui cadono tutte le seguenti operazioni. Ne parleremo in appreso.

      

Comincia la prima operazione, reductio in primam materiam, con la estrazione degli elementi. Prendasi, (dice l’adepto) di questa materia, si polverizzi sottilissimamente e si passi per setaccio di seta, e si distilli in cornute. Egli vi dice come le cornute debbano essere preparate e a qual fuoco esposte. Il prodotto di questa distillazione serve alla operazione seconda; nella quale si sublima tre volte, con varie avvertenze, fino a che si pone in vetro suggellato e in luogo fresco «acciò i spiriti non esalino e non circolino» et factus est (così il nostro latinista) prima materia, hoc est virtus generativa. Segue la terza operazione, che consiste nel prendere della prima materia e del mercurio in certe dosi, e fare una soluzione; la quale, nell’operazione quarta, esposta ad un fuoco leggero, dà primieramente il lac virginis; e quindi per via di maggior fuoco, l’anima sive tintura universalis. «E questo ricogli con diligenza, e chiuso conservalo; e così il spirito o mercurio».
Quindi si fa ad avvertirci che «Mercurius noster non est mercurius vulgi, sed est illa aqua extrata da corpi manfroditi: et hec enim aqua continet omnia quae ad lapidem efficiendum sunt necessaria. Et corpus factum est spiritus in distillationem». L’operazione quinta ed ultima ci dà la pietra o l’elisir che noi cerchiamo. Prendasi la materia purificata con dieci tanti di mercurio; pongasi tutto sigillato nell’uovo d’una cornuta, e quindi nel fornello, a un calore «non più che quello che affligge un febricitante». «Allora (continua a dire) le materie si denigreranno, e questa si chiama putrefazione; dipoi si faranno bianche, e questa è la nostra figlia bianca; e finalmente la parte superiore si farà rossa a modo di sangue, e questa è la desiderata medicina universale. Et spiritus factus est corpus. Item in rerum multitudinem ars nostra non consistit.». Ottenuta la panacea «fitur matrimonium ad prolem generandam». Prendi un’oncia d’oro purissimo; e sovra questo liquefatto e bollente poni una dramma della panacea. «Et subito vederai fermarsi l’oro e non scorrerà più; ma resterà una pietra simile al rosso quale facilmente si frange: e questa è la nostra benedetta pietra che commuta tutti i metalli imperfetti in oro purissimo». Quella medicina poi, «cura da ogni male incurabile, e ti potrai cibare e vivere lungo tempo sopra la terra, se però oserverai le divine leggi».
Finisce col dare de’ buoni precetti sulle fila onde vuolsi comporre lo stoppino, sulla qualità dell’olio, sulla lamina di rame del fornello, e fino sulla distanza alla quale deve tenersi la fiamma.
Dopo questa analisi non sarà forse piacevole il trattenervi sopra i confronti che ho istituiti tra i precetti di questo codice con quelli di alcuni scrittori dell’arte ermetica, e singolarmente con i trattati d’Ireneo Filalete (Tommaso de Vagan) nato anglicum, habitatione cosmopolitam. Ma io credo opportuno notarvene alcuni.
Pone il Filalete avanti a ogni cosa il separare dalla prima materia tutte le parti eterogenee, che il nostro chiama estrazione degli elementi: perché (dice il Filalete) nocciono alla purità dell’operazione, la quale ha per fine di trar fuori «dal sangue impuro della prostituta il diadema reale»; cioè, la pietra filosofale, che il nostro ha chiamato la figlia bianca. La più grande difficoltà, (dice il Filalete) sta nel disporre la prima materia; habitem reddere massam, inquit poeta, hoc opus, hic labor est. Perloché l’autore del Segreto Ermetico ebbe a dire che la prima operazione era una fatica da Ercole. Ma la seconda operazione è meno penosa; poiché la natura sola perfeziona l’opera solo igne moderato externe adhibito. Confrontisi poi quello che s’è letto del mercurio con queste parole del Filalete: «Liquet proinde, quod non vulgaris sit hic mercurius at sophicus; quia omnius mercurius vulgi est mas, id est corporalis, specificatuus et mortuus; at noster est spiritualis, foemineus, vivus et vivificus». Anche nel Filalete si parla di un mercurio ermafrodito, cioè che contiene un principio al tempo stesso attivo e passivo, e che congiunto all’oro lo liquefa, e che a un fuoco temperato rappiglia, e produce il sole e la luna, vale a dire l’oro e l’argento. E la coagulazione avviene a guisa di una crema di latte: per modum floris lactis. Vi si parla del mercurio congiunto all’oro, e dello scambievole indurare e ammollire (che risponde al corpo che si fa spirito e allo spirito che divien corpo); finché l’artista non gli marita, chiudendoli in un vetro ed esponendoli al fuoco. «Così muore ciò che era vivo e ciò che era morto risuscita: il corpo si corrompe, lo spirito risorge glorioso, e l’anima è esaltata in un’essenza, ch’è la medicina degli animali, dei metalli e de’ vegetabili». E altrove: «L’oro sciolto nel mercuri si putrefà; e dalla putrefazione della morte rinasce un nuovo corpo, che ha l’essenza del primo, ma più nobile sostanza e virtù proporzionata alle  diverse qualità de’ quattro elementi». Ma notabile soprattutto è questo passo del Filalete, perché ci dà il significato del triangolo misterioso che si vede sulla prima pagina del nostro plumbeo codicetto. «Tutti quelli che hanno scritto della nostra operazione (dice il Filalete) han parlato eziandio dell’opera e del regno di Saturno; ciascuno peraltro intendendo a modo suo, e incappando in diversi errori. Vi è stato chi, mosso da soverchia fiducia, ha preso a operare sul piombo (una delle sostanze metalliche consacrate a questo pianeta). Ma dovete sapere che il nostro piombo è più prezioso dell’oro stesso. Est limus, in quo auri cum mercurio inungiter, ut postea Adamum eiusque Eva uxorem producant» (per i quali vogliono intendersi l’oro e l’argento). Ma questo limo è il segreto che Filalete non rivela; restringendosi a dire che tutto il segreto della preparazione consiste nel prendere un minerale che si avvicina alla sostanza dell’oro e a quella del mercurio. Ora il Nostro chiude il suo trattatello avvertendo che la materia su cui conviene operare «è di vil prezzo, detto Saturno padre e figlio»; e soggiunge: «Vedi nel triangolo». Nel triangolo dunque, chi sappia leggervi quelle cifre misteriose, è indicata appunto la prima materia.
Ma torniamo al codice.
Leggonsi sotto al triangolo della prima pagina queste strane parole:

Ego sum ambagasar
quo dabo a tibi veri
Secretum secretissimum noster.

Io ho scorso molti indici per vedere se fra i cultori dell’arte ermetica vi fosse mai stato un Ambagasar, che mi sapeva d’arabico, o si trovasse un libro d’alchimia così intitolato: ma le ricerche mie sono state vane. Non dell’autore dunque né dell’opera sua originale, che vuolsi ritenere assai rara, come ignota al d’Herbelot, al Lenglet du Fresnoy e ad altri diligenti investigatori della letteratura orientale e della bibliografia ermetica; ma del volgarizzamento toscano, contenuto nel nostro plumbeo codicetto, e di altre sue particolarità paleografiche vi tratterrò, colleghi ornatissimi, prima di por termine al dire.
In quanto alla lingua; lieve giudizio per avventura può farsi di uno scritto che si riduce a poche e magre ricette d’alchimia: pur tuttavolta a chi le legge, vien fatto a prima giunta non dette da toscano. Si pongi per si ponga; ponavi per ponivi; bollo per bollore; dopoi soblimare, liggiero longo, oglio, eschi, remettere ecc., se toscani sono, più sanno di quel dialetto senese e maremmano, che al romanesco s’accosta. Al contrario Lutare con i suoi derivati, è nell’Arte vetraria del Neri, è nel Riposo del Borghini, è nel vivo linguaggio delle scienze fisiche: Liquare è in Dante, ed è forse la più anticata parola che si trovi nel nostro scritto.
Nei vocabolari non è registrata cornuta nel senso di storta o lambicco; e leggesi in una satira tutta romana del canonico Panciatichi, che bagascia e cornuta si chiamavano certi arnesi co’ quali portavansi ai cardinali le vivande in conclave. Così non è Crusca setaccio, che altri dizionari non toscani dicono equivalere in molte parti d’Italia al fiorentino staccio. Ma dall’altra parte è cornuta nelle Vite de’ SS. Padri per una specie di serpente; donde è chiaro che per similitudine si dissero cornute le storte; e setaccio e non staccio dicono e scrivono i toscani farmacisti e farmacologi. Perloché, non osando di sì picciola scrittura pronunziare sentenza assoluta, direi che toscana può essere, fiorentina non è; e che nulla s’oppone a tenerla per fatta nel secolo XIV.
E a questo secolo appunto io diceva in principio appartenere i pochi caratteri intelligibili del nostro singolare manoscritto. Ma poiché fui giunto a decifrare i caratteri enigmatici, un sospetto mi nacque sull’antichità del plumbeo codicetto; imperocché vi trovai l’i titolato costantemente dal punto tondo, e il troncamento o elisione della vocale significato dall’apostrofo. Soccorse peraltro alla mia insufficienza il nostro collega Carlo Milanesi, precettore di paleografia e di diplomatica presso la Soprintendenza degli Archivi; ed io voglio riferire le sue stesse parole: «Il dubbio circa all’apostrofo viene eliminato ognora che si consideri che l’apostrofo tanto familiare agli scrittori comici latini (dixtin’, viden’, ain’; per  dixistine, videsne, aisne), venne espresso nei codici con un accento allungato, posto talora obliquo, talora perpendicolarmente, ovvero con quell’altro segno che corrisponde all’odierna nostra virgola, la quale nelle carte e nei manoscritti ebbe uffici molteplici, varia la forma, e più che la forma la collocazione; la quale fu più o meno obliqua, in alto, a mezzo, i basso, al pari delle parole; ora rovesciata supina, ora sul dorso. Il nostro codicetto, in quanto alla collocazione del segno apostrofale è costante; varia un po’ nella forma, perché ora è a semicerchio supino (faccia 3, lin. 5) o voltato sul dorso (faccia 3 lin.7; faccia 5 lin. 1), ora un accento allungato, alquanto uncinato a destra, e un poco obliquo (fac. 6 lin.1, fac. 13 lin.3). In quanto poi al dubbio che potrebbe nascere contro l’autenticità e sincerità di questo curioso monumento paleografico dal vedere che la lettera i è sempre titolata dal punto tondo, dirò; che il Mabillon pone l’uso della i  titolata in quella guisa al principio del secolo XV, e gli autori del Nuovo Trattato di Diplomatica, tutt’al più l’estenderebbero verso la fine del XIV secolo. Ciò in tesi generale può stare; ma la paleografia non ammette regole assolute; e i Benedettini andarono troppo innanzi quando dissero che ogni manoscritto che rechi gl’i titolati con punto tondo debbasi avere per sospetto o supposto. Contro la quale sentenza non mancano documenti, che mostrano la i in quel modo titolata essere in uso anche nel duodecimo secolo. Un esempio autentico si ha dal cartulario di San Cipriano di Poitiers, di scrittura non più recente della metà di quel secolo, dove costantemente la i raddoppiata, e talvolta la scempia, sono titolate dal punto rotondo». Fin qui il nostro collega.
Il nostro plumbeo codicetto non pretende all’antichità del citato esempio; poiché i suoi caratteri, e soprattutto il volgare in cui è scritto, non ci concedono oltrepassare la metà del secolo decimoquarto; del quale e del segno apostrofale e della i titolata col punto rotondo (come osservava il Milanesi) non mancano esempi. Ma anche l’antichità di cinquecento anni è sufficiente a costituirlo una vera rarità; perché in metallo non abbiamo che pochissimi codici, uno solo ne conosciamo in piombo, ed è il Kircheriano: ma quelli sono latini, o sono indecifrabili; questo contiene una scrittura volgare del buon secolo, e l’essere degli altri più moderna la rende più singolare. Resta a vedere qual pregio possa avere nella letteratura ermetica; ma, come osservava, il non veder fatta menzione dell’autore nelle più reputate biblioteche orientali ed ermetiche, mentre ce ne viene assicurata l’esistenza, ci è prova di rarità.

 

 

NOTE:

(*) Lezione inedita, detta nell’adunanza del 27 novembre 1859.
(1) Plumbi lamina, Job, Cap. XIX, 24
(2) Annal. II, 69.
(3) La sua etimologia è da χέω (χεύω), gettare, fondere. In Alessandro d’Afrodisia
(4) Alla voce Δίρας.
(5) Dante, Parad. II, 14
(6) Δημιουργός, opifex, conditor.
(7) Hoefer, Histoire de la Chimie, à Paris, 1812, tome I, première époque, troisième section, p. 8. 
(8) Dioscorid., Lib. V, cap. 10.
(9) Loc. cit. p. 7.