Pagina on-Line dal 07/04/2011

 

 

Un ritratto di mezza età di Marcelin Berthelot.

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Marcelin Berthelot

LE FONTI EGIZIANE

(cap. III paragrafo 1 di Les origines de l’alchimie, Steinheil, Paris 1885, pp. 21-45)
 

Il testo che presentiamo di seguito è dovuto alla penna di Marcelin Berthelot (1827-1907) uno dei padri della storia della chimica, chimico ed uomo politico insigne (eletto senatore, ricoprì, in  momenti diversi, l’incarico di ministro della pubblica istruzione e di ministro degli affari pubblici) autore di opere capitali di storia della scienza come La chymie au Moyen Age, Les Origines de l’alchimie, la Collection des Anciens alchimistes Grecs, l’Introduction à la chimie des anciens et du moyen age, e di un notevole numero di saggi e ricerche sperimentali di chimica applicata (si ricordano, oltre alle ricerche sulla sintesi dell’etanolo, del metano, dell’acido formico, dell’acetilene e del benzene, le importanti ricerche nel campo della termochimica – la branca della chimica che studia le variazioni calorimetriche nel corso delle reazioni chimiche – e degli esplosivi) apparsi sulle principali riviste scientifiche del tempo. Le opere del Berthelot, specie le raccolte di testi alchemici in edizione critica (i tre volumi della Collection ed i tre della Chymie au moyen age) hanno conosciuto diverse ristampe, anche in tempi recenti. In pratica, non esiste opera moderna sull’alchimia che non sia, in maniera diretta o indiretta, debitrice dell’opera gigantesca di raccolta, collazione, classificazione ed analisi critica di Marcelin Berthelot.
Buona lettura.
M. M.

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Nota alla traduzione: I testi in greco antico riferiti alle citazioni nel testo, nell’originale francese inseriti in nota, sono stati soppressi per le note difficoltà di resa in html dei corretti segni diacritici.

 

 

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LE FONTI EGIZIANE

Traduzione di Massimo Marra, tutti i diritti riservati, riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.

Le fonti egizie dell’alchimia sono meno equivoche delle sue origini mistiche. Tutti gli alchimisti le invocano con voce unanime, dal III secolo fino al XVIII. I Papiri di Leida, rinvenuti in una tomba di Tebe, le confermano con una prova senza replica ed eliminano gli ultimi dubbi che poteva lasciare una scienza che debutta con l’apocrifismo. Esse si ricollegano in effetti con una tradizione costante ad Ermete Trismegisto, inventore delle arti e delle scienze presso gli egizi.
Bisogna ammettere, con Zosimo ed Olimpiodoro, i primi autori alchimisti autentici, che esisteva in Egitto, a lato delle dottrine ufficiali e pubbliche contenute nell’Enciclopedia Ermetica che noi citeremo a breve, un insieme di conoscenze tenute segrete nel fondo dei templi, che era vietato rivelare? Esse sarebbero uscite, in qualche modo, da un lungo segreto verso il III secolo della nostra era, ma conservando sempre un’espressione mistica e simbolica che ne tradiva l’origine. 
Zosimo di Panopoli, scrittore del III secolo, ci fa il racconto seguente, citato e riprodotto da Olimpiodoro, contemporaneo di Teodosio (1): «Qui è confermato il libro di verità: Zosimo a Teosebia, saluto. Tutto  regno d’Egitto è retto da queste arti psammurgiche (2). Non  è permesso dedicarvisi che ai sacerdoti. Le si interpreta dalle steli degli antichi, e colui che volesse rivelarne la conoscenza sarebbe punito, allo stesso modo degli operai che coniano la moneta reale, laddove essi ne fabbricassero segretamente per sé. Gli operai e coloro che hanno la conoscenza dei processi, lavorano solo per conto del re, di cui aumentavano il tesoro. Essi hanno il loro capo particolare, che esercita una grande tirannia nella preparazione dei metalli’ era legge presso gli egizi di nulla render noto a questo soggetto». Vi è qui il ricordo delle industrie metallurgiche, di cui i re si erano riservati il monopolio, industrie descritte da Agatharchide della sua opera sul mar Rosso. Una parte di quest’ultima descrizione è anche trascritta nel manoscritto della Biblioteca di San Marco (3). Le crudeltà esercitate nello sfruttamento delle miniere d’oro sono state raccontate da Diodoro Siculo, seguendo Agatharchide (4).
Zosimo ci comunica del resto che la conoscenza dell’arte sacra, vale a dire dell’alchimia, non poteva essere comunicata che ai figli dei re; precisamente come la magia, per quel che ne sappiamo (5).
Clemente Alessandrino (6) dice parimenti: «I sacerdoti non comunicano i loro misteri a nessuno, riservandoli per l’erede al trono, o per quelli tra loro che eccellono in virtù e saggezza». Ugualmente sulla statua di Ptah-mer (7), gran sacerdote di Memfi, che si trova oggi al Louvre, si legge: «Non vi era niente che gli fosse nascosto; egli copriva di un velo il senso di tutto ciò che aveva visto». Plutarco scrive anche, parlando degli egizi: «La loro filosofia copriva sotto il velo delle favole innumerevoli misteri» (8).
«Nascondi ciò» ci dice il manoscritto 2327, fol. 271, dopo l’esposizione di una breve ricetta, «Nascondi questo segreto – esso ripete – poiché esso contiene tutta l’opera» (fol. 274). Nelle ricette positive che ci sono state trasmesse, c’è sovente una parte riservata, tenuta di proposito occulta (9).
I testi relativi all’uovo filosofico, altrimenti detto pietra d’Egitto, ed al dragone che si morde la coda, l’uno e l’altro emblemi tanto dell’universo quanto dell’alchimia, racchiudono tutta una nomenclatura simbolica impiegata dagli adepti dell’arte sacra.
«Gli antichi chiamano (10) l’uovo pietra di rame, pietra d’Armenia, pietra d’Egitto; altri, immagine del mondo. Il suo guscio è il rame, la lega di rame, di piombo, la lega di ferro e di rame. Il guscio calcinato significa asbestos (calce), arsenico, sandracca, terra di Chio etc… Le parti liquide dell’uovo sono la ruggine di rame, l’acqua di rame verde…. Il bianco d’uovo si chiama gomma, succo del fico, succo del tithymalo. Il giallo, minerale di rame concreto… ocra attica, zafferano di Cilicia. Il miscuglio del guscio e del suo contenuto è la magnesia (minerale di piombo?), il corpo (metallo) della magnesia, la lega di piombo e rame, l’argento comune…». Poi vengono le traduzioni delle parole: liquido bianco e liquido giallo, composizione gialla.
Si vede da ciò quanto sia il grado di vaghezza e di incertezza delle ricette che leggiamo in questi vecchi autori. Così gli alchimisti greci, lo pseudo-Democrito, Zosimo, Sinesio, Olimpiodoro, fanno continuamente riferimento al linguaggio enigmatico dei loro maestri, ai libri segreti degli antichi (11), al libro tradizionale degli antenati (12). 
Era un dovere religioso parlare per enigmi, perché il filosofo dice: «ciò che gli uomini scrivono rende gelosi gli dei (13) ». Da ciò un simbolismo e delle allegorie continue, divenute indecifrabili (supponendo che esse abbiano mai avuto un senso scientifico) in mancanza di spiegazioni orali che le completassero (14). Qualcuna di queste spiegazioni sembra essere giunta fino a noi. Così la formula dello Scorpione (vedi p. 15 e 16), incomprensibile nella maggior parte dei manoscritti, si trova interpretata in una addenda inserita sul primo foglio di guardia del manoscritto di San Marco.
Si sa che l’uso dei misteri religiosi e delle iniziazioni era universale nell’antichità. Gli alchimisti prestavano giuramento di non divulgare la scienza che gli era stata rivelata. Un giuramento di tal genere, privo di tracce cristiane ed interamente pieno di nomi e miti greco-egiziani come Hermes ed Anuybis, il dragone Kerkoros, la roccia dell’Achéron, le tre Necessità, le tre fruste (Parche e Furie?) e la spada, figura nella lettera di Iside a suo figlio Horus (15). Un tal linguaggio ricorda proprio quello dei maghi neoplatonici del IV secolo.
Il nome dell’arte sacra, coltivata nel tempio di Memfi, ovvero nel tempio di Ptah, vicino al Serapeum (16) ritrovato da Mariette, si ricollega a questo ordine di idee. Il testo di Zosimo mostra in effetti che esisteva in Egitto una tradizione metallurgica segreta, alla quale gli adepti attribuivano le ricchezze dell’Egitto antico e la potenza dei suoi antichi re nazionali.
Queste opinioni hanno lasciato la loro traccia nella storia generale. Esse sono basate su di un racconto dei cronisti bizantini e di quelli del tempo di Arcadio; racconto che troviamo riprodotto in Giovanni d’Antiochia, autore del tempo di Eraclio (verso il 620), poi in Giorgio Sincello (VIII sec.), così come negli atti di San Procopio e in Suida (XI sec.).
Seguendo questi autori, Diocleziano, dopo aver represso con una estrema crudeltà una insurrezione degli egiziani, rivolta celebre nella storia, fece bruciare i libri che trattavano dell’arte di fare l’oro e l’argento, al fine di togliere ai rivoltosi le ricchezze che gli davano la forza di ribellarsi.
Le distruzioni operate da Diocleziano in Egitto sono un fatto storico; è assai probabile che egli facesse, conformemente a questo racconto, bruciare sistematicamente i libri e gli scritti dei sacerdoti egiziani. In effetti, la proscrizione degli scritti magici ed astrologici, in una parola di ogni opera relativa alle scienze occulte, era conforme alla politica conosciuta degli imperatori romani. Esistono, su questo tema, nel diritto romano, una serie di leggi già citate in precedenza (p. 14). Ora, l’alchimia, come abbiamo già detto, era una scienza occulta, congenere alla magia. Così il manoscritto greco 2419 della Bibliothèque Nationale di Parigi contiene, accanto a vecchi trattati astrologici di Petosiris (17), autore egiziano già conosciuto da Aristofane, delle formule magiche e delle opere alchemiche. Parallelamente, si ritrovano nei papiri tebani del III secolo della nostra era, gli scritti magici, astrologici ed alchemici associati, come si può vedere al museo di Leida (18).
Non solo gli adepti identificavano la loro scienza, “l’arte sacra per eccellenza”, con le dottrine dell’antico Egitto; ma il nome stesso della chimica è stato collegato da molti, e segnatamente da Champollion, a quello dello stesso Egitto, Chemi, parola che gli ebrei hanno tradotto per terra di Cham. Ho comparato sopra (p. 10) il titolo dell’opera fondamentale Chêma, citata da Zosimo, a quello del vecchio testo Chemi, che sembra anche ricordare il nome dell’Egitto. Questa etimologia è restata verosimile, a fianco a quella che trae il nome della chimica dal greco cheuô, folgore: da cui chymos, chyme, chimo, e le parole congeneri (19). 
Era tradizione universale tra gli alchimisti che la scienza fosse stata fondata dal dio egizio Hermes: da ciò la denominazione di Arte ermetica, d’uso corrente fino ai tempi moderni. Lo stesso nome dell’antico re Cheope, altrimenti detto Souphis o Sophé, a seconda dei dialetti, figura in capo a due libri di Zosimo (20). 
Senza dubbio si può qui in ricordare una tendenza, ben conosciuta al Medio Evo e diffusa presso gli inventori misconosciuti o perseguitati: quella di ricollegare la loro scienza ad origini illustri e venerabili. Essa esisteva già nell’antico Egitto, in cui si attribuivano ad antichi sovrani opere misteriosamente scoperte (21).
La stessa trama si ritrova presso gli ebrei, al tempo dei re, allorquando il gran sacerdote Helcias trae dall’arca il Deuteronomio e lo diffonde sotto il nome di Mosè.
Questo sistema era particolarmente in uso presso i cristiani al II e III secolo, e gli dobbiamo una moltitudine di Vangeli e di apocrifi attribuiti agli antichi profeti. Gli scritti alchemici in nostro possesso, papiri o manoscritti delle biblioteche, risalgono alla stessa epoca e recano l’impronta della stessa tendenza.
Ma la scelta espressa da questi antichi apocrifi non è arbitraria; essa si basa ordinariamente su qualche tradizione reale, più o meno corrotta. I legami che potevano collegare le idee degli alchimisti alle credenze degli antichi popoli d’oriente, sono oscuri quanto quelli che legano le teorie filosofiche, teurgiche e magiche di Giamblico, di Plotino e di altri neoplatonici d’Alessandria alle dottrine dei sacerdoti di Memfi; non per questo essi appaiono meno reali.
È certo, da un altro punto di vista, che esisteva in Egitto tutto un insieme di conoscenze pratiche assai antiche relative alla lavorazione dei metalli, delle leghe, dei vetri e degli smalti, così come alla produzione dei medicamenti; conoscenze che servirono di supporto ai primi lavori degli alchimisti. Così, i nostri manoscritti espongono procedimenti per la fabbricazione degli smeraldi e dei giacinti tratti dal Libro del Santuario (22).
Senza attribuire a queste esposizioni una interpretazione assolutamente univoca, è nondimeno interessante osservare la loro esistenza dei testi.
Sul foglio che precede, nel medesimo manoscritto, si possono leggere tre ricette sulla fabbricazione dell’argento, e la terza fa riferimento alla prima, scritta più in alto sulla stele (23).
Questa frase, presentata di passata in una semplice ricetta, è assai caratteristica. Essa ricorda le steli di cui parlano Giamblico, Manetone l’astrologo, Galieno e Olimpiodoro, sulle quali era scritta la scienza egizia. Noi possediamo anche una di queste steli, detta di Metternich, coperta di formule magiche attribuite a Nectanebo. La frase è d’altronde, lo ripeto, presentata di passata nel manoscritto, senza alcuna pretesa o sospetta aria di ciarlataneria.
I Papiri di Leida (24), originari di Tebe, mostrano delle ricette del tutto simili a quelle dei nostri alchimisti greci, che sembrano riferirsi alla medesime fonti; i titoli sono identici e le ricette vertono esattamente sullo stesso genere di preparazioni, le une reali – purificazione tempera, saldatura dei metalli, combinazioni di leghe, doratura, argentatura, docimasia dell’oro e dell’argento, scrittura in lettere d’oro, tintura di porpora, fabbricazione del vetro, di pietre preziose artificiali – le altre chimeriche – arte di raddoppiare il peso dell’oro, moltiplicazione dell’oro, arte di fabbricare l’asemon, ovvero l’argento, o piuttosto l’electrum, lega di argento e oro, detta in egiziano Asem -. Si riconosce tra questi ultimi lemmi la definizione della pietra filosofale.
Queste preparazioni non erano solo procedimenti di fabbricazione; esse si riferivano anche a pratiche religiose. Lepsius ci segnala gli otto minerali che si mescolavano ad Edfu per preparare una sostanza sacra: oro, argento, chesteb (pietra blu), chenem, nesenem, mafek (pietra verde), hertes.  Il Kyphi, altro corpo sacro di cui parla anche Plutarco (25), è composto con numerose sostanze, tra le quali,  a Dendera, si annoverano l’oro, l’argento, il chesteb, il mafek.
Mostriamo ora, attraverso qualche esempio, come gli alchimisti hanno mutuato ai sacerdoti dell’Egitto le forme enigmatiche e simboliche, così come l’uso dei segni geroglifici della loro arte.
Il simbolo alchemico dell’acqua, per cominciare, è identico al suo geroglifico; lo stesso dicasi al riguardo di quello del sole. Il segno di Hermes è lo stesso di quello attuale del pianeta Mercurio nell’Annuaire des Longitudes; esso è stato usato di volta in volta ad indicare lo stagno o il mercurio metallico. Si assimila, ordinariamente, al caduceo; ma offre una singolare somiglianza (26) con una delle rappresentazioni di Thot, rappresentazione così definita nel Dictionnaire d’Archéologie égyptienne di Pierret (1875): «la testa di ibis, che la caratterizza ordinariamente, è sormontata da un disco e da due corni crescenti». Tuttavia occorrerebbero prove più positive, tratte da papiri o dai monumenti, per poter confermare questa assimilazione. Il sigillo di Hermes, che i medici pratici del medio evo ponevano sui vasi e che è divenuto la “chiusura ermetica” dei nostri giorni, richiama ancora ad una origine egizia della scienza. Il solo fatto che il nome e il segno di Hermes (Mercurius) siano stati attribuiti dagli alchimisti al metallo che costituiva la materia prima della grande opera, vale a dire in un primo momento lo stagno, e successivamente il mercurio, fornisce un richiamo del medesimo genere.
La parola Cnouphion, derivata dal nome del dio Chnupis, è data nel lessico alchemico greco (27) come sinonimo di alambicco.
Ricordiamo allo stesso modo che, secondo Stefano d’Alessandria, medico e alchimista del VII secolo, confermato su questo punto dal lessico greco (28), Osiris era sinonimo del piombo e dello zolfo.
Olimpiodoro compara la chimica alla tomba di Osiris (29), le cui membra sono nascoste ed il cui solo viso è visibile: il che corrisponde bene alla descrizione di una mummia nella sua guaina.
Altrove la tomba di Osiris è assimilata al Mercurio, uno degli agenti fondamentali della grande opera (30). La presenza della tomba di Osiris è tanto più rilevante se si considera che la medesima tomba figura nella maggior parte degli scongiuri magici rinvenibili nei documenti demotici, ad esempio in un papiro a trascrizione greca di Leida (31).
I nomi di Oside, Osiride, Tifone, si ritrovano frequentemente negli scritti degli alchimisti greci; anche quello di Thot vi figura, in verità mal compreso ed associato ad immaginazioni gnostiche (32). È pure fatta menzione, in questi scritti, dei templi di Memfi e di Alessandria, del tempio di Iside, del tempio di Serapide ad Alessandria, così come delle biblioteche Tolemaiche che vi erano associate (33).
La fraseologia degli alchimisti più antichi è quella delle popolazioni residenti in Egitto che avevano sotto gli occhi gli obelischi e gli ierogrammi, che essi citano senza comprenderne l’antico significato (34).
Zosimo, in particolare, sembra contemporaneo di Porfirio e di Tertulliano; egli fa allusione agli stessi miti ed alle medesime credenze, come ho già spiegato esponendo le fonti mistiche dell’alchimia (p. 9). Egli parla a più riprese della corrente del Nilo (35).
Olimpiodoro, autore più istruito e contemporaneo di Teodosio, ricorda, per le sue citazioni degli antichi filosofi greci, i neoplatonici alessandrini della fine del IV secolo.
Allo stesso modo, ho ritrovato, alla fine di un manoscritto alchemico greco (36), la lista dei mesi egiziani messa a confronto dei mesi romani. Riproduco questa doppia lista, conservando la forma grecizzata dei nomi latini che figurano nel manoscritto:

martios, phamenoth; aprilios, pharmouthi; maïos, pachon; junios, panini; julios, épiphi; augustos, mesori; septevrios, thoth; octobrios, phaophi; noevrios, athyr; decevrios, chiak; januarios, tybi; fevruarios, méchir.

Questa lista (37) è la stessa che figura nel Dictionnaire d’Archéologie égyptienne di Pierrot. Due dei nomi che essa contiene, méchir e mesori, sono dati a più riprese in uno dei trattati di Olimpiodoro (38). Ugualmente, anche i mesi di méchir e pharmouthi sono ripetuti in un trattato di Agathodeimon (39). Questo insieme di indicazioni è coerente con l’origine egiziana de questi autori, e non potrebbe dunque spiegarsi altrimenti.
Proviamo ad essere più precisi, entrando nel merito delle stesse dottrine.
Il numero quattro gioca un ruolo fondamentale sia presso gli alchimisti, che presso gli egiziani.- Questi distinguevano le quattro basi o elementi, le quattro zone, le quattro divinità funerarie, che erano anche i geni dei quattro punti cardinali e che corrispondevano d’altronde ai quattro venti, etc.(40).
Gli egizi, ci dice Seneca, fecero quattro elementi, poi ciascuno di essi si sdoppiò in maschio e femmina (41). Il numero sacro quattro figura anche nel papiro n° 75 di Leida (42). I frammenti degli Hermetica conservato da Stobeo ne fanno menzione. Il preteso nilometro, monumento sovente citato dagli autori dell’inizio di questo secolo, sarebbe per Reuvens (43) il simbolo di Ptah e dei quattro elementi. Gli gnostici Valentino e Marco fanno giocare un ruolo di primaria importanza alle tetradi nel loro sistema, il quale è in parte tratto dalle idee egiziane.
Ora, Zosimo segnala allo stesso modo le quattro cose fondamentali e la tetrasomia, ovvero l’insieme dei quattro elementi che rappresenta la materia dei corpi (44). Le quattro tinture sono per lui assimilate ai quattro punti cardinali (45). Il Nord rappresenta la Mélanosis (tintura al nero); l’Occidente la Leucosis (tintura bianca o argenteo); Il Mezzogiorno la Iosis (tintura violetta); l’Oriente la Xanthosis (tintura gialla o oro).
Nel manoscritto 2.327 figura la tavola (organon) di Ermete Trismegisto, trascritta sul foglio 293. Questa tavola contiene i numeri da 1 a 34, scritti (in greco) seguendo un ordine particolare. Un certo calcolo, eseguito tra il levare della Stella del Cane (Sirio) ed il mese Epiphi, conduce a una cifra la quale, riportata nella tavola, permette di predire la vita, la morte o il pericolo di un malato. Questi calcoli astrologici e medici, questi nomi egiziani, caratterizzano l’epoca ed il paese degli autori. I trattati di Petosiris, antico astrologo egiziano, trascritti nel manoscritto 2.419, racchiudono delle tavole e dei cerchi (sfere) del tutto analoghi (fol. 33; fol 156). Nel papiro di Leida si trova anche una Sfera di Democrito, che ha il medesimo carattere ed il medesimo oggetto.
Ricorderò ancora due alfabeti misteriosi, presenti nel manoscritto 2.249 (fol. 100) con il loro equivalente greco, che, nel manoscritto di San Marco (fol. 193), sono stati restaurati dopo essere stati cancellati. Il signor Révillout, al quale io li ho trasmessi, vi constata l’esistenza di almeno tre caratteri demotici assai netti, ossi: il dj tradotto col tau greco, come nei papiri che contengono una trascrizione greca; un altro carattere polifono tradotto con lo psi greco, ed un terzo polifono, anch’esso assai chiaro, il hooui tradotto dalla theta.
Analoghi alfabeti magici esistono nel manoscritto astrologico-alchemico 2.419 della Bibliothèque Nationale, ed alfabeti simili si leggono nei papiri tebani di Leida (46).
Gli stessi nomi dei laboratori in cui si preparava la pietra metallica, ovvero la pietra filosofale, sono trascritti di seguito ad un trattato di Giovanni l’arciprete (47). Eccoli: terra della Tebaide, Heracelopolis, Lycopolis, Aphrodite, Apollinopolis, Elefantina: si tratta in effetti di tutte città conosciute in Egitto, sedi di grandi santuari. Questa lista sembra riprodotta dall’inizio di un passaggio di Agatarchide relativo allo sfruttamento metallurgico dell’Egitto (48): probabilmente i luoghi da cui si estraeva l’oro dai suoi minerali erano gli stessi in cui avveniva la sua lavorazione. In tutti i casi la lista è assai antica, poiché questi nomi non erano già più comuni dopo la conquista musulmana, e non vi figura alcun luogo estraneo all’Egitto, del tipo di quelli che troviamo più tardi nelle liste scritte nel VII secolo. 
Tutto ciò ci riporta costantemente verso l’Egitto, quello stesso Egitto gnostico ed ellenizzato di Alessandria, così come esso si presentava all’epoca della dominazione romana al III e IV secolo della nostra era.
Ciò nonostante, in questi fatti, non è in definitiva contenuta la prova di alcuna filiazione dottrinaria assolutamente certa con la religione egiziana, salvo, forse, per il ruolo attribuito al numero quattro. Certo, non  si tratta di dottrine filosofiche in senso moderno, ma piuttosto di quelle teorie mistiche e religiose che ritroviamo in oriente. Ora, fino a qual punto le nozioni pratiche della manifattura egiziana erano collegate ad idee teoriche? La cosa è probabile, essendo nei tempi antichi ogni pratica importante accompagnata a rituarie religiose. Ma forse noi ignoreremo sempre la loro effettiva correlazione, a meno che un papiro uscito dalla necropoli dell’Egitto non ci apporti, al riguardo, rivelazioni inattese. Il mio sapiente amico Maspero, che raccoglie in questo momento l’eredità scientifica di Mariette e mantiene sul Nilo la tradizione scientifica francese, ci fornirà senza dubbio qualche luce su questo punto, come su tanti altri problemi sollevati dalla storia egiziana.
Al XVII secolo si è molto parlato di una pretesa tavola di Hermes, vale a dire un papiro geroglifico esistente a Torino. Il gesuita Kircher (49) ci comunica che Bernardo Canisio è il primo che abbia fatto conoscere questa opera antica, e che essa contiene la teoria della grande opera. In effetti, Kriegmann, nel 1657, ha creduto di trovarvi la spiegazione del mercurio dei filosofi, e Dohrn vi ha visto la medicina spagirica universale. Ma si tratta di puri e semplici sogni, malgrado l’apoditticità di Kircher (certissimum est). Gli autori del XVII secolo ignoravano i primi principi della lettura dei geroglifici.
Analoghe opinioni esistevano già nell’antichità. Giamblico segnala le antiche steli di Hermes, in cui ogni scienza era trascritta. Manetone l’astrologo, autore del medesimo periodo, parla anche dei libri sacri dei santuari e delle steli misteriose dell’onnisciente Hermes (50).
I primi alchimisti greci, Olimpiodoro ad esempio, usano il medesimo linguaggio, applicando questa tradizione alla loro scienza; essi dicono che il segreto dell’arte sacra è scritto in ierogrammi sugli obelischi. Olimpiodoro dà anche delle indicazioni d’una estrema precisione sulle iscrizioni del tempio di Iside, (senza dubbio quello di Philae, che, secondo il suo stesso racconto, egli aveva visitato) e su quelle della montagna libica (51). Si trattava semplicemente, da parte degli alchimisti, del bisogno di ricollegare le loro idee a queste antiche scritture, di cui essi non comprendevano più il senso? O piuttosto esistevano realmente, nei templi, delle steli contenenti le formule dell’arte sacra, come affermano Zosimo ed Olimpiodoro? La stele di Metternich con le sue iscrizioni magiche sembrerebbe testimoniare in favore di quest’ultima opinione. Abbiamo anche citato (p. 29) una ricetta di trasmutazione che fa formalmente riferimento ad una di queste steli (52), in un linguaggio che non sembra lasciare adito a dubbi. Ciò nonostante, fino ad oggi, steli alchemiche di siffatta natura non sono state ritrovate. Non siamo dunque autorizzati a far risalire la filiazione autentica dell’alchimia a tempi antecedenti ai papiri di Leida, del II e III secolo.
Si può spiegare questa pretesa degli alchimisti con delle considerazioni più generali. In effetti, se gli alchimisti si sono ricollegati ad Hermes, se gli hanno dedicato il mercurio, materia prima della grande opera, è perchè Hermes, altrimenti detto Toth, era reputato l’inventore di tutte le arti e di tutte le scienze. Platone ne parla già nei suoi dialoghi, come il Filebo e il Fedone. Diodoro Siculo (53) fa risalire ad Hermes l’invenzione del linguaggio, della scrittura, della musica e del culto degli dei; ed ancora la scoperta dei metalli, quella dell’oro, dell’argento e del ferro in particolare (54). Hermes sembra aver personificato la scienza del sacerdozio egiziano. Era il Signore delle divine parole, il Signore degli Scritti Santi (Pierrot, Dictionnaire). Il neoplatonico Giambico scriveva, nel III scolo (nel De Misteriis Aegyptiacis): «Tuttavia i nostri antenati gli dedicavano le scoperte della loro scienza, essendo convenuto di tutto attribuire ad Hermes». Tertulliano cita ugualmente Hermes Trismegisto, il maestro di tutti quelli che si occupano della natura (55). Secondo Galeno (Aversus ea quae Juliano in Hippocratis aphorismos, etc.):
«In Egitto tutto ciò che era scoperto nelle arti era sottomesso all’approvazione generale dei sapienti; allora si incideva senza il nome dell’autore su delle colonne che si conservavano nel santuario. Da lì viene quella moltitudine di opere attribuite ad Hermes». Pierrot, nel suo Dictionnaire, fa ugualmente osservare che le frasi attribuite ad Hermes Trismegisto sembrano sovente una semplice traduzione di certi geroglifici. Vi sono tutta una serie di dati positivi che concordano con il linguaggio di Zosimo e d’Olimpiodoro, e che ne attestano il valore storico.
La scienza era allora essenzialmente impersonale, e si comprende come Giambico attribuisca ad Hermes 20.000 libri, o anche, secondo Manetone, 36.525. Ma tutta quella scienza, quale ne fosse l’oggetto ed il carattere, è oggi perduta. All’epoca alessandrina sembra ne siano stati fatti dei riassunti, abbastanza analoghi alle nostre enciclopedie, o, meglio ancora, a quelle della Cina e del Giappone. In questi riassunti, la tradizione egiziana era già amalgamata dai traduttori, con le conoscenze della filosofia greca, come dichiara espressamente Giambico. Questa opera dell’Egitto ellenizzato ci è conosciuta soprattutto attraverso un passo di Clemente Alessandrino. Secondo questo autore, che sembra aver avuto la raccolta sotto mano, esistevano quarantadue libri di Hermes. Egli li descrive, raccontando come li si portavano in processione nelle cerimonie. Citiamo tutto questo passaggio, che è caratteristico:
«È il cantore che apre la marcia, portando qualcuno degli attributi della musica. Bisogna, si dice, che egli conosca a memoria due dei libri di Hermes: il primo, che contiene gli inni degli dei, il secondo che contiene le regole della vita regale. Dopo il cantore, s’avanza l’oroscopo, che tiene nella sua mano l’orologio e la palma, simboli dell’astronomia. Egli deve conoscere ed avere senza cessa sulla bocca i libri di Hermes che trattano di questa scienza. Questi libri sono in numero di quattro: l’uno disserta  sul sistema degli astri che appaiono fissi; un altro sull’incontro e sulla luce del sole e della luna; gli ultimi due sul loro levarsi. Viene in terzo luogo lo scriba sacro, che porta delle piume sulla testa e nelle mani un libro ed un regolo, sul quale si trovano anche l’inchiostro ed il giunco che gli serve per scrivere. A sua volta, questi è tenuto a conoscere ciò che concerne gli geroglifici, la cosmografia, la geografia, il corso del sole, della luna e dei cinque pianeti, la corografia dell’gitto e la descrizione del Nilo; egli deve poter descrivere gli strumenti e gli ornamenti sacri, così come i luoghi che gli sono destinati, le misure, e in genere tutto quel che appartiene al cerimoniale. Al seguito dei tre personaggi di cui abbiamo fatto menzione, si avanza colui che si chiama ordinatore (il maestro di cerimonie), che regge un cubito come attributo della giustizia, ed un calice per fare le libazioni. Egli deve essere istruito di tutto ciò che riguarda il culto degli dei e il sacrificio. Ora, vi sono dieci cose che abbracciano il culto degli dei e tutta la religione egiziana. Sono: il sacrificio, le primizie o offerte, gli inni, le preghiere, le pompe, i giorni di festa, etc. etc.. Infine, per terminare la marcia, viene il profeta, che porta la brocca, seguito da coloro che portano i pani offerti. Poiché il profeta è, tra le altre cose, incaricato, presso gli egizi, della distribuzione dei commestibili. Il profeta, nella sua qualità di pontefice supremo, deve conoscere i dieci libri che si chiamano sacerdotali. Questi libri trattano delle leggi, degli dei e di tutto ciò che è in rapporto alla disciplina sacerdotale; vi sono dunque quarantadue libri di Hermes estremamente necessari. Trentasei che contengono tutta la filosofia egiziana, sono accuratamente studiati da tutti coloro di cui abbiamo appena parlato. Quanto agli ultimi sei, che trattano la medicina e trattano la costituzione del corpo, delle malattie, degli strumenti, dei rimedi, degli occhi  ed infine delle donne, essi sono l’ggetto di studio assiduo di coloro che portano il mantello, vale a dire dei medici. (56)».
Per concepire la scena descritta da Clemente Alessandrino, conviene considerarla nel suo milieu  storico. Riportiamo il pensiero a quei colossali santuari di Esneh, d’dfou e di Dendera, dove si vede ancora figurare sulle mura il lungo snodarsi delle processioni sacerdotali; ritorniamo con la mente a questi templi di Serapis, in cui la cultura greca si alleava con la tradizione egizia. Tale era il tempio di Alessandria, che si elevava su di una collina dominando la città, con i suoi portici e le costruzioni che lo circondavano. Esso era nel contempo la sede del Museum antico, della Scuola di Alessandria, con i suoi corsi, i suoi professori e i suoi allievi. Là si trovava la famosa biblioteca tolemaica, bruciata una prima volta da Cesare, ricostituita da Marco Antonio a spese di quella di Pergamo, citata come autorità da Tertulliano e da Zosimo, che sembra esser durata fino alla fine del IV secolo. Qualche resto sembra essersene conservato fino alla conquista musulmana.
Questa associazione della scienza e della religione si è perpetuata in Oriente; la moschea di El-Azhar, la grande università musulmana del Cairo, con i suoi professori fanatici e le sue migliaia di studenti, ci presenta oggi uno spettacolo analogo.
Il serapeum di Memfi non era meno rimarchevole, dal punto di vista della fusione della cultura greca e della cultura orientale. Secondo le scoperte di Mariette, che ne ha ritrovato il sito, esso era preceduto da un viale costeggiato da 600 sfingi che terminava in un emiciclo formato dalle statue greche di Pindaro, Licurgo, Solone, Euripide, Pitagora, Platone, Eschilo, Omero ed Aristotele, con i loro nomi scritti in greco. Questo santuario era soprattutto a carattere medico: la parentela stretta che è sempre esistita tra la preparazione dei medicamenti e gli studi chimici, ci spiega perché gli alchimisti guardassero ad esso come al loro più antico laboratorio. È nel Serapeum di Memfi che si potrebbero avere le maggiori opportunità di scoprire un giorno qualche indizio delle pratiche chimiche degli Egiziani, qualche frammento di quei fornelli che Zosimo descrive, e che ha lui stesso visto proprio in quel tempio (57), o qualche resto degli alambicchi e dei crogioli impiegati per tingere le pietre preziose «secondo il libro del santuario», come recita uno dei manoscritti (58); in una parola, i resti di questi antichi laboratori.
Ciò nonostante, se ci limitiamo al testo di Clemente d’lessandria, non sembra che l’nciclopedia ermetica contenesse, sui procedimenti industriali o sullo studio dei metalli propriamente detto, nulla che giustificasse l’sserzione degli alchimisti, che facevano del loro studio l’rte per eccellenza. Senza dubbio c’rano, indipendentemente dai trattati citati da Clemente Alessandrino, altri libri occulti, di cui ci sono stati conservati certi frammenti dai papiri di Leida e dai nostri manoscritti. 
Nei fatti, al di fuori degli opuscoli alchimistici, le sole opere arrivate fino a noi sotto il nome di Hermes, sono degli scritti greci, filosofici e mistici, che si ricollegano alla medesima epoca della filosofia ellenica. Il Poimander, l’sclepios, racchiudono un miscuglio di idee improntate al Timeo platonico e di immaginazioni mistiche e gnostiche. Una traduzione completa di questi scritti è stata pubblicata, qualche anno fa, da Louis Ménard (1866). Tutte queste opere sono assai interessanti per la storia delle credenze dell’poca; esse sono citate dai dottori cristiani, accanto ai pretesi oracoli sibillini; ma ciò non toglie che siano apocrifi. Essi non racchiudono che tracce incerte dei dogmi religiosi dell’ntico Egitto. Nondimeno gli egittologi fanno notare la concordanza di qualche frase di questi scritti con quelle desumibili dai geroglifici. Sembra che vi si possa riconoscere qualche frammento più o meno sfigurato della vecchia letteratura egiziana. Questa era l’pinione di Champollion.
Ciò e altrettanto vero per quanto riguarda gli scritti alchimistici. In effetti, diverse formule mistiche, la forma apocalittica del linguaggio, l’ntervento di Iside che parla a suo figlio Horus, quello di Agathodemone, attestano una certa parentela tra scritti pseudo-ermetici ed i trattati di alcuni dei nostri manoscritti alchemici, che impiegano precisamente gli stessi nomi e le medesime formule. In ogni caso, essi sono dello stesso periodo. Le speculazioni di Zosimo ed il suo linguaggio mistico ed allegorico ricordano, talvolta quasi negli stessi termini, quelle del Poimander sulla composizione delle anime, speculazioni ugualmente congeneri a quelle del Timeo di Platone. L’ccostamento era così evidente che gli alchimisti del Medio Evo associavano l’pocrifa Tavola di Smeraldo di Hermes agli scritti del Poimander (59) ed al suo inno mistico di Hermes. Si sa che quest’ltimo era recitato dagli adepti all’nizio delle loro operazioni: «Universo, stai attento alla mia preghiera; terra, apriti; che la massa delle acque si apra a me, etc.».

 

NOTE:

(1) Manoscritto 2.327, fol. 251, verso; è il testo di Zosimo. Al fol. 206, v°, si trova quello di Olimpiodoro, che ne differisce in modo abbastanza rilevante. Vedere anche: Manoscritto di San Marco, fol. 171, v°. Io ho riassunto questo testo.

(2) Vale a dire l’rte di trattare le sabbie o i minerali metallici, ψάννοι.

(3) Fol. 138 a 141. Il passaggio d’gatharchide da cui questo brano è tratto è stato conservato da Fozio; esso è stampato parallelamente al testo di Diodoro Siculo, che lo ha compilato, nei Geographi graeci minores, t. I, pp. 122-129 (edizione Didot). Un altro frammento citato dal manoscritto di San Marco figura alle pagine 183-186 della stessa collezione. 

(4) Diodoro Siculo, III, 12 e 13. Agatharchide, nei Geogr. graeci minores, t. I., p. 126. 

(5) Révillout, Revue d’gyptologie, Ire année, p. 166. 

(6) Stromati, V, 7.

(7) Diction. d’rchéologie égyptienne, di Pierrot, art. Initiations.

(8) Su Iside ed Osiride, VIII.

(9) Ms. 2.327, fol. 31.

(10) Ms. 2.327, fol. 23.

(11) Ms. 2.327, fol. 106.

(12) Ms. 2.327, fol. 149.

(13) Ms. 2.327. fol 230. Δαίμονες, vale a dire gli dei.

(14) Vedi il testo citato nell’ppendice A.

(15) Ms. 2.327. fol. 256 v°.

(16) Reuvens, 3a lettera a M. Letronne, p. 81.

(17) Petosiridis, Matematici ad regem Nechepso, fol. 82. Anche Plinio associa questi due nomi propri.

(18) Reuvens, 3a lettera a M. Letronne, p. 63.

(19) Thesaurus di Henri Estienne, ediz. Didot; articolo Chymia e Chimeia. Si può comparare l’articolo di M. Gildemeister, nel Journal de la società orientale allemande, 1876.

(20) Ms. 2.327, fol. 251 e 260.

(21) Maspero, Histoire ancienne des peuples de l’Orient, p. 74 (1875).

(22) Ms. 2.325, fol. 150, v°; ms. 2.327, fol. 147.

(23) Ms. 2.325, fol. 150, v°; ms. 2.327, fol. 146. 

(24) Reuvens, 3a lettera a M. Letronne, da pp. 66 a 689.

(25) De Iside, LXXXV.

(26) Vedere la grande figura disegnata nel ms. 2.327, fol. 297, di seguito ad una lista dei mesi egiziani.

(27) Ms. 2.327, fol. 20.

(28) Ms. 2.327, fol. 21.

(29) Ms. 2.327, fol. 210; ms. di San Marco, fol. 174, v°.

(30) Ms. 2.327, fol. 95.

(31) Monuments égyptiens, di Leemans, testo in 8°, 1839, prima edizione.

(32) Ms. 2.249, fol 98; ms. di San Marco, fol 190.

(33) Ms. 2.327, fol. 206; ms. di San Marco, fol 190 V°.

(34) Ms. 2.327, fol. 202.

(35) Ms. 2.327, fol. 169.

(36) Ms. 2.327, fol. 280.

(37) Essa è ripetuta su una banda marginale. Ms. 2.327, fol. 297. v°.

(38) Ms. 2.327, fol. 197.

(39) Ms. 2.327, fol. 263.

(40) Reuvens, Lettres à M. Letronne; corrections et additions, p. 160.

(41) Questioni naturali¸III, 14.

(42) Reuvens, 1a lettera a M. Letronne, pp.28, 32, 34.

(43) Lettre I, p. 69.

(44) Ms. 2.327, fol 150; ms. 2.250, fol 129.

(45) Ms. 2.250, fol. 31.

(46) N° 75, Reuvens I, 49.

(47) Ms. 2327, fol. 249, v°.

(48) Vedi infra p. 23. Il manoscritto Marciano dà tutto il passaggio sotto il titolo: Delle pietre metalliche (fol. 138).

(49) Alchimia hieroglyphica, Roma 1653.

(50) Manetone: Apotelesmatica, libro V, p. 93 (1832).

(51) Ms. 2.327, fol. 205, v°.

(52) Ms. 2.325, fol. 150, v°. Ms. di San Marco, fol. 106.

(53) Libro I, 16.

(54) In Suida.

(55) Adversus Valentinianos, XV, A.

(56) Clemente Alessandrino, Stromati, liv. VI, 4.

(57) Ms. 2.249, fol. 94, v°.

(58) Ms. 2.327, fol 147.

(59) Basilio Valentino, nella Bibliothèque des philosophes chimiques di Salmon.